S. Messa
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Rassegna Stampa - L'Argomento di Oggi - dal 2011-01-08 ad oggi 2011-08-02 Sintesi (Più sotto trovate gli articoli)MONDO USA - EUROPA - AFRICA - ASIA - AUSTRALIA |
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Internet, l'informatore, ll Giornalista, la stampa, la TV, la Radio, devono innanzi tutto informare correttamente sul Pensiero dell'Intervistato, Avvenimento, Fatto, pena la decadenza dal Diritto e Libertà di Testimoniare. Poi si deve esprimere separatamente e distintamente il proprio personale giudizio. |
dal 753 a.c. al 1861 UNITA' d'ITALIA, ad oggi 150° 2011-07-23 Dai SitI Inernet di :QUIRINALE http://www.quirinale.it Ascolta L'INNO di MAMELIScarica la COSTITUZIONE Ascolta il Presidente che Racconta la Costituzione http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Video&key=1014&vKey=866&fVideo=1SENATO http://www.senato.it CAMERA http://www.camera.it GOVERNO http://www.governo.itConsiglio Superiore della Magistratura http://www.csm.it/ Corte dei conti http://www.corteconti.it/CORTE COSTITUZIONALE http://www.cortecostituzionale.it/default.do Consiglio di Stato http://www.giustizia-amministrativa.it/Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro - CNEL http://www.portalecnel.it/portale/HomePageSezioniWeb.nsf/vwhp/HPWIKIPEDIA Natale di Roma 21 aprile dell'anno 753 a.c. http://it.wikipedia.org/wiki/Fondazione_di_RomaLEONARDO STORIA di ROMA e dell' ITALIA http://cronologia.leonardo.it/mondo15.htm CERCA LE DATE |
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Per. Ind. Giacomo Dalessandro
25 Luglio 2011
dal Sito Internet del CORRIERE della SERA
http://www.corriere.itAncora sangue italiano in Afghanistan Ucciso un parà 28enne, due feriti
Scontro a fuoco a nord-ovest di Bala Murghab. La vittima è il caporalmaggiore David Tobiini
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Il mio commento:
L'ITALIA VUOLE MISSIONI DI PACE NON DI GUERRA
dalessa
lunedì 25 luglio 2011, 11:38
Basta con la ns. missione in Afghanistan, dobbiamo rientrare, non possiamo continuiare dopo dieci anni a considerarla missione di PACE, si è trasformata in Missione di Guerra.
Ora è diventata solo appoggio ad una parte del Popolo, che non sappiamo neanche se è maggioritaria.
Dovevamo favorire il dialogo, perchè le colpe non sono sempre e solamente da una parte.
Le future Missioni di PACE devono essere contrassegnate da un accordo a ristabilire la PACE nella DEMOCRAZIA con il DIALOGO, anche con gli avversari in guerra.
Per. Ind. Giacomo Dalessandro
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Martina f. 2011-03-19
nel pomeriggio summit a parigi. LA FRANCIA: "AGIRE IN FRETTA"
Le forze di Gheddafi entrano a Bengasi
Bombardamenti sulla città roccaforte dei ribelli. Abbattuto un jet del Raìs. Il governo libico nega l'attacco
Ma da dove viene tutto questo impeto a favore del Popolo da parte di Sarkozy, appoggiato dal leader Inglese ?
Fin tanto che si parlava della Tunisia e dell'Egitto stavano zitti, oggi sembrano diventare Paladini del Mondo Libero.
Io non sono senz'altro per le dittature né per chi sopprime le libertà contro il Popolo!
Ma mi pare molto strano tutto il movimento della Francia, che attraverso l'Egitto foraggia la Resistenza e la ribellione contro Gheddafi.
Eppure il Popolo Libico aveva un reddito di molto superiore a quello degli altri paesi dell'Africa!
Cosa bolle in pentolala?
E, poi, bisogna stare molto attenti, perché non succeda quello che è successo in Egitto contro i Cristiani da parte di fanatici Religiosi.
C'è un grandissimo rischio di destabilizzazione anche in virtù del frastagliamenteo in tribù dei Libici.
Bisogna evitare che si vada ad acuire lo scontro in Africa, mentre non si fa nulla per eliminare quanto avviene in Somalia, nel corno d'Africa.
Bisogna aver un lume di saggezza nelle cose per cambiare gli eventi tragici che si susseguono con le guerre.
Bene la risoluzione dell'ONU sulla non FLY ZONE!
Però ora bisogna evitare assolutamente di sbagliare come in IRAQ.
Gheddafi va portato a lasciare il potere in maniera indolore e soprattutto evitando distruzioni come in IRAQ, oltre che ad evitare di riattizzare il fuoco del terrorismo di Al Kaida, anche perché noi siamo al Centro del Mediterraneo, e dobbiamo essere artefici di PACE e SVILUPPO e non di GUERRE e DISTRUZIONI.
Allora proponiamo una forza di Interposizione fra Gheddafi ed i Ribelli, e si chieda di andare verso libere elezioni, aiutando Gheddafi a non impiccarsi da solo, perché altrimenti prima di finire impiccato può creare grandissima devastazione al suo Pololo, all'intero Meditterraneo, con una corsa sfrenata al petrolio ed all'imperialismo.
In questo ci sia Magnanimità e Lungimiranza anche da parte di Barack Obama e degli USA .
Chi sta soffiando sul fuoco non ha interessi alla Pace, ma destabilizzando crea profitto per i Guerrafondai, distabilizzando ulteriormente l'economia mondiale, che è già colpita oltre che dalle guerre anche dal Nucleare, e dalla speculazione Finanziaria, AGGRAVANDO LA Crisi Petrolifera.
Per. Ind. Giacomo Dalessandro
Martina F. 2011-03-10
Sarkozy proporrà bombardamenti aerei mirati
La Francia riconosce il Consiglio dei ribelli
Parigi accelera: dopo aver legittimato come rappresentante del popolo libico il consiglio nazionale di Bengasi emerge, il presidente Sarkozy spinge con i partner Ue per raid "mirati". Frattini: "L'Italia non parteciperà". Mosca: stop a tutti i contratti con Tripoli. Il Consiglio
Il mio Commento
Io non sono a favore dei dittatori, né di quelli che sparano sul Popolo.
Però è molto strano che il Paese, fra quelli che sono stati interessati a movimenti di protesta, dove i propri cittadini hanno un livello economico di vita più alto rispetto a tutti quelli del Nord Africa, sia quello che stia subendo la protesta più cruenta.
Ed è difficile spiegarsi inoltre i notevoli mezzi di cui dispongono coloro che si sono sollevati al regime di Gheddafi.
Viene il dubbio, dopo aver visto quello che sta succedendo in Egitto, che sotto ci sia un movimento finemente appoggiato da alkaida e dal Fondamentalismo Islammico.
Allora bisogna porre la massima attenzione alla situazione politica reale.
Prima di fare un'altra guerra interventista bisogna agire per imporre a Gheddafi una svolta Democratica, da concordare con i propri cittadini sotto il controllo di una forza di pace, così come andava fatto con Saddam che stava per cedere in Iraq, altrimenti avremo una polveriera proprio di fianco a casa, sul mare Nostrum, con gravissime conseguenze destabilizzanti per tutta l'Area del Mediterraneo, dell'Africa e del Medio Oriente, con una esportazione globale del Fondamentalismo estremizzato di tipo Iraniano.
Mentre se agiremo con lungimiranza potremo riappropriarci di un ruolo importantissimo di mediazione, foriero di pace, scambi economico-culturali, sviluppo reciproco.
In questo il Presidente Berlusconi, si dia da fare, appoggiato dal Presidente Napolitano.
Per. Ind. Giacomo Dalessandro
Rassegna Stampa - L'Argomento di Oggi - dal 2010-06-22 ad oggi 2011-08-02 |
AVVENIRE per l'articolo completo vai al sito internet http://www.avvenire.it2011-08-02 2 agosto 2011 STATI UNITI Debito Usa, ok del Senato Obama: evitato default devastante Il Senato degli Stati Uniti ha approvato la legge sull'innalzamento del tetto del debito con 74 voti a favore e 26 contrari. Ora la misura passerà a Barack Obama per la sua firma. Il presidente ha tirato un sospiro di sollievo: è stato evitato un default che sarebeb stato "devastante" per l'economia. "Ora dobbiamo fare tutto quello che possiamo per far crescere l'economia e rimettere gli americani al lavoro" ha detto Obama. Il primo via libera era arrivato dalla Camera, con 269 voti a favore e 161 contrari. Per l'occasione è tornata in aula anche Gabrille Giffords, la deputata democratica ferita gravemente in gennaio in una sparatoria in Arizona. Poi, con la firma del presidente, l'accordo sarà legge, evitando il default dello Stato. La diplomazia è stata al lavoro nei corridoi di Capital Hill l'intera giornata, per raccogliere i voti necessari. L'accordo scongiura il rischio di un default, ma non quello di un downgrade (abbassamento della valutazione) del debito pubblico americano da parte delle agenzie di rating: l'ammontare della misura, un aumento del tetto del debito da 2.100-2.400 miliardi di dollari e tagli per almeno 2.100 miliardi di dollari in dieci anni, è decisamente inferiore ai 4mila miliardi di dollari identificati da Standard & Poor's per il mantenimento del rating AAA (il migliore). E l'impatto della misura sull'economia, già fragile, preoccupa. "L'accordo è positivo per l'economia, evita altri danni", afferma il segretario al Tesoro, Timothy Geithner. Il presidente della Fed, Ben Bernanke, convoca una riunione del board per discutere di "politiche fiscali e di bilancio". Secondo gli osservatori, la Fed dovrà aiutare ancora l'economia. Barack Obama ha rassicurato: "I tagli saranno graduali, non peseranno e ci consentiranno di continuare a effettuare investimenti in settori che creano occupazione". Ma il presidente non convince i mercati: Wall Street, dopo un balzo iniziale, procede negativa, con la doccia fredda dell'indice Ism manifatturiero sceso ai minimi degli ultimi anni, confermando le difficoltà della ripresa. La crescita americana è lenta e i tagli alla spesa nell'accordo sull'aumento del tetto del debito potrebbero rallentarla ulteriormente. Se ci sarà un downgrade da parte delle agenzie di rating, la frenata potrebbe essere anche più forte. Standard & Poor's ha messo sotto osservazione il rating degli Stati Uniti e messo in guardia su un possibile downgrade nei prossimi tre mesi. Moody's e Fitch si sono mostrate più caute, evidenziando che gli Usa potrebbero mantenere la tripla A. Un downgrade da parte di una sola agenzia sarebbe maggiormente gestibile e avrebbe un impatto più ridotto. "Abbiamo contatti regolari con le agenzie di rating", afferma il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, sottolineando che l'accordo rappresenta "una vittoria per gli americani" e un "messaggio rassicurante per il mondo". L'accordo prevede un aumento del tetto del debito di 2.100-2.400 miliardi di dollari, tagli alle spese immediati per 1.000 miliardi di dollari, fino ad arrivare a 2.100 miliardi complessivi in dieci anni. Una commissione bipartisan sarà creata per determinare ulteriori tagli per 1.500 miliardi di dollari e dovrà presentare le proprie proposte entro il Giorno del Ringraziamento, a novembre. Il Congresso dovrà approvare i tagli proposti entro il 23 dicembre, altrimenti scatteranno tagli automatici a sanità e difesa.
2011-07-27 27 luglio 2011 LE BORSE Crisi del debito Usa Borse in sofferenza Dopo una apertura debole Milano amplia le perdite. L'indice di riferimento Ftse Mib cede il 2,61% dopo neanche un'ora di contrattazioni, penalizzata dalle banche. Unicredit cede il 5% e Intesa Sanpaolo il 4,95%, mentre Banco Popolare lascia sul campo il 3,9% e Bpm il 4,5%. Riduce il calo Fiat, che perde l'1,39%, mentre Fiat Industrial appare poco variata (-0,33%).
In America. L'appello del presidente Barack Obama per un compromesso sull'aumento del tetto del debito cade nel vuoto in Congresso, con i partiti che continuano a duellare. Ma viene recepito dagli americani che, in massa, intasano le linee della Camera per esercitare quella pressione sugli eletti che Obama ha chiesto nel discorso alla nazione. Lo spettro del default si fa sempre più reale, e secondo il segretraio al Tesoro Timothy Geithner, va rimosso dall'economia. I mercati continuano a restare calmi benché preoccupati per il possibile downgrade, ma dietro le quinte si preparano al peggio: alla scadenza del 2 agosto mancano 7 giorni e - avverte la Casa Bianca - in quella data il Tesoro esaurirà le opzioni a sua disposizione per pagare i conti. Un default sarebbe - evidenzia la Casa Bianca - un "cataclisma" sull'economia, ma i repubblicani non cedono e lo speaker della Camera, John Boehner, lancia la sfida: "Abbiamo i voti alla Camera e in Senato per far passare" il piano su un aumento del tetto del debito in due fasi. Una misura alla quale la Casa Bianca si oppone fermamente e sulla quale "minaccia il veto": se la ricetta Boehner fosse approvata in Congresso e arrivasse al presidente per la firma, Obama opporrebbe il proprio no e rischierebbe di trovarsi sulla spalle la responsabilità di un default. Obama è in contatto con il segretario al Tesoro, Timothy Geithner, per valutare l'impatto di un default e l'amministrazione starebbe - secondo quanto riportato da Fox - cercando di rassicurare le banche che avrebbero iniziato a ridurre la loro esposizione ai titoli di stato americani.
26 luglio 2011 ISTITUZIONI Napolitano: preoccupato per i ministeri al Nord Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato oggi una lettera al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi per esprimere "rilievi e motivi di preoccupazione su tema oggi di ampio dibattito del decentramento delle sedi dei ministeri sul territorio".È quanto si legge in una nota del Quirinale diramata nel pomeriggio.La scorsa settimana esponenti del governo hanno partecipato, con grande clamore mediatico, all'inaugurazione di tre sedi distaccate di altrettanti ministeri a Monza. LE REAZIONI "Il presidente Napolitano con i suoi rilievi e la sua preoccupazione esprime lo sdegno dell'intera nazione per l'autentica pagliacciata dell'apertura delle sedi ministeriali a Monza. Mentre si chiedono sacrifici agli italiani la politica dovrebbe dare l'esempio riducendo ministeri, poltrone e costi e la decisione di aprire nuove sedi a cui seguiranno altri doppioni in giro per l'Italia umilia quegli italiani chiamati a tirare la cinghia per pagare sprechi inutili". Lo dichiara il vicepresidente di Futuro e Libertà, Italo Bocchino, che aggiunge: "Il tentativo di spostare fuori da Roma Capitale le sedi ministeriali è inoltre un attacco a quella coesione nazionale che dovrebbe essere un obiettivo primario del governo". "Il presidente della Repubblica interpreta un'esigenza di serietà avvertita in tutta la nazione". Così il leader dell'Udc Pier Ferdinando Casini lasciando l'Aula di Montecitorio commenta la lettera inviata dal capo dello Stato al premier, "preoccupato" per la questione dell'apertura di sedi decentrate di ministeri. "L'apertura di sedi ieri al Nord domani magari nel Mezzogiorno getta sulla politica il discredito finale", aggiunge Casini. "Esprimiamo un fortissimo apprezzamento per l'intervento del presidente Napolitano sulla vicenda dei ministeri leghisti e ci auguriamo che il governo metta una volta per tutte la parola fine su questa vicenda ai limiti del grottesco". Lo dichiara il presidente nazionale dei Verdi Angelo Bonelli che conclude: "Quelle inaugurate da Bossi e soci a Monza non sono sedi decentrate di ministeri ma semplicemente sezioni di partito, utili solo alla propaganda del Carroccio. Mentre le famiglie devono fare i conti con le tasse e i tagli della manovra, la Lega continua con questa buffonata dei ministeri". "Il presidente della Repubblica assolve alla sua funzione di garante dell'unità e dell'ordinamento. Chi disattende il giuramento fatto sulla Costituzione, invece, è il governo che si diverte a giocare con le sedi dei dicasteri, in aperta violazione della legalità costituzionale e in contrasto con l'idea vera di federalismo, che consiste nel decentramento delle competenze. Altra cosa è il costoso spostamento di sedi e strutture fatte esclusivamente per soddisfare selvaggi conati secessionisti". Lo afferma in una nota il portavoce dell'Italia dei Valori, Leoluca Orlando.
27 luglio 2011 NUOTO Pellegrini da record nei 200 libero Scozzoli d'argento nei 50 rana Federica Pellegrini ha conquistato oggi la medaglia d'oro nei 200 metri stile libero ai Mondiali di nuoto a Shanghai, mentre Filippo Scozzoli ha vinto l'argento nei 50 metri rana. La Pellegrini è salita sul gradino più alto del podio con un tempo di 1'55"58, seguita dall'australiana Kylie Palmer in 1'56"04, mentre la francese Camille Muffat ha ottenuto il bronzo in 1'56"10. Domenica scorsa, la Pellegrini aveva vinto anche i 400 metri stile libero. Con la vittoria di oggi, l'azzurra ha messo a segno per la seconda volta la doppietta 200-400 nel campionato, dopo il 2009 a Roma, diventando la prima donna ad aver vinto entrambe le gare in due edizioni diverse. La doppietta è riuscita solo altre tre volte in passato: all'americana Shirley Babashoff nel 1975; alla tedesca della Germania est Heike Friedrich nel 1986 e alla francese Laure Manaudou nel 2007. "Sono molto felice e molto orgogliosa della medaglia d'oro", ha detto Federica Pellegrini ai giornalisti, che guarda alle Olimpiadi di Londra. Intanto, l'azzurro Scozzoli - già secondo sui 100 metri - ha ottenuto l'argento nei 50 metri rana con un tempo di 27"17, dietro al brasiliano Felipe Alves Franca da Silva (27"01) e davanti al sudafricano Cameron van der Burgh (27'19).
26 luglio 2011 EMERGENZA CORNO D'AFRICA Siccità, il mondo si muove Ponte aereo per la Somalia Ci si muove. Scatta oggi un ponte aereo d’aiuti umanitari nei cieli di Mogadiscio, Dolo (Etiopia) e Wajir, nel Nord del Kenya, per fronteggiare l’emergenza carestia e la "siccità epica" che sta dilaniando il Corno d’Africa, dove, stando all’Unicef, mezzo milione di bambini "hanno il 40 per cento delle possibilità di sopravvivere". Ponte aereo deciso ieri dal summit straordinario della Fao a Roma (al quale hanno partecipato ministri e delegati dei 191 Paesi membri della Fao, di altre agenzie Onu e organizzazioni internazionali e non governative). Durante il quale prima si è ammesso il fallimento "nella costruzione della sicurezza alimentare nei Paesi di sviluppo" e poi affermata la necessità di un’azione "massiccia e urgente". La crisi nel Corno d’Africa, scatenata da almeno tre cause, sta colpendo dodici milioni di persone, con due regioni nel Sud della Somalia già in gravissima carestia: "Gli effetti congiunti di siccità, inflazione e conflitti hanno causato una situazione catastrofica che richiede un urgente e robusto sostegno internazionale", ha subito annotato il direttore generale uscente della Fao, Jacques Diouf. Così, per spazzare via le accuse d’immobilismo proprio alla Fao, il ministro francese all’Agricoltura, Bruno Le Maire, ha illustrato la "road map" dell’intervento a lungo raggio dell’agenzia Onu: entro il 15 settembre arriverà il piano d’azione sulla sicurezza alimentare e sull’acqua e lo stesso giorno sarà lanciato anche il nuovo sistema di informazione dei mercati agricoli "per evitare le speculazioni e perché la volatilità dei prezzi rovina i contadini nei Paesi in via di sviluppo". Saranno i governi dei sei Paesi colpiti dalla crisi a gestire la risposta, tenuti informati dal Piano d’azione per il Corno d’Africa del Comitato permanente interagenzie (Iasc). E infine alla Fao sono convinti che andrebbe evitata, per quanto possibile, la costituzione di campi profughi con l’aggregazione di un enorme numero di sfollati. Un intervento – ha spiegato la direttrice del Programma mondiale alimentare dell’agenzia delle Nazioni Unite, Josette Sheeran – resosi inevitabile per superare l’ostilità dei miliziani fondamentalisti islamici o Shabaab nella distribuzione degli aiuti. A proposito: "È urgente e indispensabile un corridoio umanitario e aereo per portare beni di prima necessità dove servono", aveva detto poco prima il ministro degli Esteri, Franco Frattini. Aggiungendo che bisognerà aiutare la popolazione somala "sfidando, se occorre, i terroristi dello Shabaab, che hanno detto di non volere gli aiuti perché per loro purtroppo la vita delle persone non vale niente". A tal proposito, il Consiglio di sicureza za dell’Onu ha chiesto immediato accesso delle organizzazioni umanitarie alle zone colpite. Intanto la Banca mondiale ha risposto all’appello stanziando 500 milioni di dollari, 8 dei quali per l’immediata emergenza mentre i restanti 492 per finanziare progetti a favore degli agricoltori locali. Fondi che si accompagnano ai 100 milioni di euro promessi dall’Ue. "Siamo particolarmente preoccupati per la Somalia – hanno ancora sottolineato i partecipanti al summit – ed è di vitale importanza riuscire a raggiungere con gli aiuti chi si trova all’epicentro della carestia, portando alimenti altamente vitaminizzati che sono indispensabili per i bambini". E ha spiegato Josette Sheeran, direttrice esecutiva del Pam, che "molte delle donne che ho incontrato in Somalia e Kenya nei giorni scorsi avevano perso i figli e non avevano alcun mezzo di sussistenza se non gli aiuti umanitari forniti dalle agenzie sul campo". "Ci impegniamo – si legge nel documento finale dell’incontro svoltosi alla Fao – ad assicurare una risposta immediata ed appropriata per far sì che le comunità ed i Paesi colpiti siano messi nelle condizioni di preservare i loro fragili mezzi di sussistenza dai quali dipende la sopravvivenza di così tante persone, e allo stesso tempo si lavori alla costruzione di una capacità di resistenza di lungo periodo". Pino Ciociola
2011-07-26 26 luglio 2011 DOPO LA STRAGE Oslo, il killer in aula: ipotesi crimini contro umanità La polizia norvegese pensa di invocare una nuova disposizione del codice penale per "crimini contro l'umanità" nei confronti di Anders Behring Breivik, che ha ammesso di essere l'autore della strage di venerdì scorso a Oslo. Lo riferisce il procuratore citato da un giornale locale. Introdotta nel codice penale norvegese nel 2008, la norma sui crimini contro l'umanità prevede una pena massima di 30 anni di reclusione. Citato in forma indiretta dal giornale Aftenposten, il procuratore Christian Hatlo ha sottolineato che il ricorso a tale norma è al momento solo un'eventualità. Finora la polizia ha fatto riferimento ad "atti di terrorismo" che prevedono una pena massima di 21 anni. L'avvocato dello stragista norvegese fa sapere che il suo assistito insiste su un punto: la sua azione è supportata da due cellule solo in Norvegia e da diverse altre all'estero. Secondo l'avvocato dello stragista norvegese Anders Behring Breivik, "tutta la vicenda indica che lui sia folle", sebbene sia presto per affermarlo con certezza. Nel corso di una conferenza stampa ad Oslo, il legale ha riferito che Breivik si aspettava di essere ucciso durante gli attacchi di venerdì scorso e aggiunge che "non mostra alcun segno di pietà" per le vittime della strage. La polizia norvegese è ancora convinta che Anders Behring Breivik abbia agito da solo e non si sia appoggiato ad alcuna cellula esterna, come invece da lui sostenuto nell'udienza preliminare di ieri. "Riteniamo che l'accusato abbia una credibilità piuttosto bassa per quanto riguarda questa affermazione, certo nessuno di noi comunque può escludere del tutto che sia vera", ha detto all'agenzia Reuters una fonte vicina alle indagini. Si dubita anche che Brevik sia parte di una 'crociata' anti-Islam e anti-marxista, come da lui sostenuto nel'manifesto di oltre 1.500 pagine che alcuni esperti norvegesi vedono piuttosto come il frutto della fantasia di uno psicopatico che vuole solo confondere le acque. Oggi il ministro della giustizia Knut Storberget si incontrerà con i responsabili della polizia, al centro delle critiche per essere intervenuta in ritardo sull'isola di Utoya. L'UDIENZA PRELIMINARE È durata una quarantina di minuti l’udienza preliminare di Anders Behring Breivik, l’autore delle stragi compiute venerdì a Oslo e sull’isola di Utoya. Il 32enne è arrivato al tribunale di Oslo su un’auto che è stata tempestata di pugni dalla folla in attesa. E mentre si cercano possibili complici tra i movimenti di estrema destra di altri Paesi, a mezzogiorno di ieri la Norvegia si è fermata per ricordare con un minuto di silenzio le vittime degli attentati. All’omaggio, guidato da re Harald e dal premier, Jens Stoltenberg, nella cerimonia davanti all’università della capitale, si sono uniti anche gli altri Paesi scandinavi. In tribunale, Breivik ha confessato di aver commesso gli attentati (la polizia ha ridimensionato ieri da 93 a a 76 il numero totale delle vittime, in gran parte giovani laburisti) ma ha rifiutato di dichiararsi colpevole. Il killer 32enne è stato incriminato per atti di terrorismo e ha chiamato in causa dei complici, affermando di aver preparato la strage con l’aiuto di "due cellule". Da venerdì aveva invece ripetuto più volte di aver agito da solo. La polizia ha sottolineato di "non poter escludere completamente" la possibilità che ci siano altri coinvolti negli attacchi. La Corte ha stabilito una custodia cautelare di otto settimane, di cui quattro in completo isolamento. Dopo aver rischiato il linciaggio da parte della folla, Breivik si è presentato in aula con un maglioncino rosso e una camicia arancione; precedentemente il suo legale, Geir Lippestad, aveva riferito che era sua intenzione comparire davanti ai giudici in uniforme, ma i magistrati gliel’hanno vietato. Durante l’udienza, l’uomo ha spiegato con freddezza che la sua intenzione era dare "un forte segnale" al Partito laburista al governo, accusato di "aver tradito" il Paese per aver consentito immigrazioni di massa da parte dei musulmani. Per questo la strage serviva a "infliggere il maggior numero di vittime" all’interno del partito, stroncando la sua possibilità di ricambio generazionale. "Ho agito per salvare la Norvegia e l’Europa occidentale dal marxismo culturale", ha detto il 32enne. Due psichiatri valuteranno lo stato mentale dell’assassino, che secondo la polizia durante gli interrogatori si è mostrato calmo e si è detto pronto a trascorrere il resto dei suoi giorni in una prigione. "Avrebbe dovuto togliersi la vita anche lui", ha detto il padre del killer in un’intervista. Durante l’udienza, Breivik ha anche iniziato a leggere il suo manifesto politico, ma è stato bloccato. Uno dei suoi obiettivi a Utoya era la ex primo ministro laburista Gro Harlem Brundtland, tre volte a capo del governo fra il 1981 e il 1996 e considerata "madre della nazione", che ha parlato ai giovani laburisti radunati sull’isoletta, lasciandola poco prima che vi arrivasse l’assassino travestito da poliziotto. In base alle leggi della Norvegia, uno dei pochi Paesi ad avere eliminato anche l’ergastolo oltre alla pena di morte, Breivik potrebbe essere condannato a un massimo di 21 anni di carcere. Una prospettiva che ora suscita perplessità nel Paese, dove sono molte le voci che si levano per chiedere un inasprimento della pena massima. Tuttavia il portavoce della polizia norvegese, Henning Holtaas, ha spiegato che la condanna massima può essere in alcuni casi estesa una volta che il condannato ha scontato per intero la sua pena, nel caso in cui i giudici ritengano che l’imputato rappresenti ancora un pericolo per la società. Intanto, è giallo sulla notizia del fermo a Breslavia, in Polonia, di un commerciante di prodotti chimici online, da cui si sarebbe rifornito Breivik. La polizia ha smentito l’arresto ma ha confermato che sono in corso indagini per appurare eventuali legami con le stragi. "Stiamo indagando dietro richiesta della polizia norvegese", ha spiegato il portavoce della procura di Breslavia. Era stato lo stesso assassino, nel suo memoriale di 1.500 pagine postato su Internet 6 ore prima della strage, a citare un fornitore di prodotti chimici sulla rete. Stando all’intelligence polacca, peraltro, i prodotti acquistati non sono illegali e sono di comune accesso. Secondo i media norvegesi, peraltro, Breivik era già stato segnalato ai servizi di sicurezza lo scorso marzo per aver acquistato prodotti chimici in Polonia. Anche in Gran Bretagna, Scotland Yard ha avviato un’inchiesta per far luce possibili complicità, dopo che nel memoriale erano emersi diversi riferimenti al Regno Unito e un "mentore" di nome Richard. Per approfondire i possibili legami tra la strage di Oslo e i movimenti dell’estrema destra europei, inoltre, l’Europol, l’agenzia anticrimine dell’Ue, ha costituito una speciale task force con esperti di antiterrorismo. In Norvegia, peraltro, non mancano le polemiche per i ritardi con cui la polizia è giunta ad Utoya: le squadre Delta hanno impiegato oltre un’ora per intervenire dopo il primo allarme. La polizia si è giustificata spiegando che il tempo è servito per trovare le squadre specializzate per l’intervento, per percorrere la quarantina di chilometri da Oslo al lago Tyrifjorden e per sbarcare sull’isola. Il capo della polizia norvegese, Oystein Maeland, si è detto addirittura "soddisfatto" della reazione all’attacco sull’isola di Utoya. In serata, infine, sono state oltre 150mila le persone radunatesi al municipio di Oslo per partecipare a quella che è stata definita come la "Marcia delle rose" in memoria delle vittime degli attacchi. "Mai più un altro 22 luglio", ha detto commosso il premier norvegese Jens Stoltenberg durante il suo intervento. Paolo M.Alfieri
26 luglio 2011 EMERGENZA CORNO D'AFRICA Siccità, il mondo si muove Ponte aereo per la Somalia Ci si muove. Scatta oggi un ponte aereo d’aiuti umanitari nei cieli di Mogadiscio, Dolo (Etiopia) e Wajir, nel Nord del Kenya, per fronteggiare l’emergenza carestia e la "siccità epica" che sta dilaniando il Corno d’Africa, dove, stando all’Unicef, mezzo milione di bambini "hanno il 40 per cento delle possibilità di sopravvivere". Ponte aereo deciso ieri dal summit straordinario della Fao a Roma (al quale hanno partecipato ministri e delegati dei 191 Paesi membri della Fao, di altre agenzie Onu e organizzazioni internazionali e non governative). Durante il quale prima si è ammesso il fallimento "nella costruzione della sicurezza alimentare nei Paesi di sviluppo" e poi affermata la necessità di un’azione "massiccia e urgente". La crisi nel Corno d’Africa, scatenata da almeno tre cause, sta colpendo dodici milioni di persone, con due regioni nel Sud della Somalia già in gravissima carestia: "Gli effetti congiunti di siccità, inflazione e conflitti hanno causato una situazione catastrofica che richiede un urgente e robusto sostegno internazionale", ha subito annotato il direttore generale uscente della Fao, Jacques Diouf. Così, per spazzare via le accuse d’immobilismo proprio alla Fao, il ministro francese all’Agricoltura, Bruno Le Maire, ha illustrato la "road map" dell’intervento a lungo raggio dell’agenzia Onu: entro il 15 settembre arriverà il piano d’azione sulla sicurezza alimentare e sull’acqua e lo stesso giorno sarà lanciato anche il nuovo sistema di informazione dei mercati agricoli "per evitare le speculazioni e perché la volatilità dei prezzi rovina i contadini nei Paesi in via di sviluppo". Saranno i governi dei sei Paesi colpiti dalla crisi a gestire la risposta, tenuti informati dal Piano d’azione per il Corno d’Africa del Comitato permanente interagenzie (Iasc). E infine alla Fao sono convinti che andrebbe evitata, per quanto possibile, la costituzione di campi profughi con l’aggregazione di un enorme numero di sfollati. Un intervento – ha spiegato la direttrice del Programma mondiale alimentare dell’agenzia delle Nazioni Unite, Josette Sheeran – resosi inevitabile per superare l’ostilità dei miliziani fondamentalisti islamici o Shabaab nella distribuzione degli aiuti. A proposito: "È urgente e indispensabile un corridoio umanitario e aereo per portare beni di prima necessità dove servono", aveva detto poco prima il ministro degli Esteri, Franco Frattini. Aggiungendo che bisognerà aiutare la popolazione somala "sfidando, se occorre, i terroristi dello Shabaab, che hanno detto di non volere gli aiuti perché per loro purtroppo la vita delle persone non vale niente". A tal proposito, il Consiglio di sicureza za dell’Onu ha chiesto immediato accesso delle organizzazioni umanitarie alle zone colpite. Intanto la Banca mondiale ha risposto all’appello stanziando 500 milioni di dollari, 8 dei quali per l’immediata emergenza mentre i restanti 492 per finanziare progetti a favore degli agricoltori locali. Fondi che si accompagnano ai 100 milioni di euro promessi dall’Ue. "Siamo particolarmente preoccupati per la Somalia – hanno ancora sottolineato i partecipanti al summit – ed è di vitale importanza riuscire a raggiungere con gli aiuti chi si trova all’epicentro della carestia, portando alimenti altamente vitaminizzati che sono indispensabili per i bambini". E ha spiegato Josette Sheeran, direttrice esecutiva del Pam, che "molte delle donne che ho incontrato in Somalia e Kenya nei giorni scorsi avevano perso i figli e non avevano alcun mezzo di sussistenza se non gli aiuti umanitari forniti dalle agenzie sul campo". "Ci impegniamo – si legge nel documento finale dell’incontro svoltosi alla Fao – ad assicurare una risposta immediata ed appropriata per far sì che le comunità ed i Paesi colpiti siano messi nelle condizioni di preservare i loro fragili mezzi di sussistenza dai quali dipende la sopravvivenza di così tante persone, e allo stesso tempo si lavori alla costruzione di una capacità di resistenza di lungo periodo". Pino Ciociola
Rischio default, Obama si appella agli americani Mondo stampa quest'articolo segnala ad un amico feed 26 luglio 2011 USA IN BILICO Rischio default, Obama si appella agli americani Manca ormai una settimana alla data fatidica del 2 agosto, quando gli Usa, se non riusciranno a trovare un accordo sull'innalzamento del tetto del debito pubblico, andranno in default. E lo scontro è tutto interno, tra repubbliani e democratici, ancora lontani dall'intesa. Il presidente Barack Obama ha parlato ieri in diretta televisiva alla nazione chiedendo agli americani di fare pressione sul Congresso per raggiungere un compromesso: "Si rischia una profonda crisi economica causata interamente da Washington", lo stallo sui negoziati, che si è trascinato per settimane, afferma, è "un gioco pericoloso", a cui "il paese non può permettersi di giocare". Sulle negoziazioni pesa il monito di Moody's lanciato a giugno, quando l'agenzia di rating ha avvertito che se le parti non raggiungeranno un'intesa potrebbe mettere sotto osservazione il rating di tripla A degli Usa per un possibile abbassamento. Così, il numero uno della Casa Bianca tende la mano ai repubblicani, cita Ronald Reagan: "Tagliereste il deficit e manterreste i tassi bassi facendo pagare di più coloro che non pagano abbastanza o vi terreste un ampio deficit, alti tassi di interesse e tasso di disoccupazione alto? Ritengo che la risposta la sapete". A rispondere è lo speaker della Camera John Boehner, che fa scudo: "Obama vuole un assegno in bianco, ma non lo avrà". "L'atteggiamento dei repubblicani - ha spiegato Obama - ha creato un'impasse pericolosa. Abbiamo gli occhi del mondo addosso. Nessuno dei due partiti è irreprensibile per le decisioni che hanno portato a questo problema, e hanno la responsabilità di risolverlo. L'approccio bilanciato chiedeva a tutti piccoli sacrifici e avrebbe ridotto il debito di 4.000 miliardi di dollari senza rallentare l'economia. L'unica ragione per cui questo accordo non diventerà legge ora - ha ammonito il presidente Usa - è che un significativo numero di Repubblicani in Congresso insiste su un approccio solo di tagli, un approccio che non chiede nulla ai ricchi americani e alle grandi aziende". Dal canto loro i repubblicani hanno proposto un programma in due fasi per innalzare subito il tetto del debito di un trilione di dollari. L'obiettivo è un maggiore incremento il prossimo anno, ma l'idea delle due fasi, a Obama, stona. Boehner interviene in un altro discorso andato in onda poco dopo: "Ha spesso detto che abbiamo bisogno di un approccio bilanciato, che a Washington significa che noi spendiamo di più e voi pagate di più. La triste verità è che il presidente voleva un assegno in bianco sei mesi fa e vuole un assegno in bianco ora. Questo, semplicemente, non accadrà".
2011-07-25 25 luglio 2011 L'AGGUATO Afghanistan, ucciso militare italiano Un soldato italiano, il Caporal Maggiore David Tobini, è stato ucciso e altri due feriti, di cui uno in modo grave, in uno scontro a fuoco nella valle di Bala Murghab, nell'ovest dell'Afghanistan. Lo rende noto un comunicato dello Stato maggiore della Difesa, in cui si precisa che il secondo militare ferito non è in pericolo di vita. Tobini era nato a Roma il 23 luglio 1983, ed era in forza al 183* reggimento paracadutisti "Nembo" di Pistoia. La sua salma arriverà in Italia mercoledì. L'attacco ai militari italiani è avvenuto - secondo quanto si è appreso - durante una fase di ripiegamento al termine di un'attività di controllo e ricerche nella valle del Murghab. Proprio nella fase finale dell'operazione il dispositivo italiano e afghano è stato preso di mira dagli insorti. I nostri soldati, secondo quanto ha spiegato il ministro della Difesa Ignazio la Russa, sono stati colpiti da un doppio attacco al termine di una operazione di perlustrazione e rastrellamento all'interno di un villaggio nella zona settentrionale del Paese. Alle 4.15 di mattina, i soldati italiani assieme a forze afghane sono entrate in un villaggio dove erano stati segnalati materiale esplosivo e ordigni. Dopo aver compiuto "positivamente" la loro azione, all'uscita del villaggio sono stati attaccati da un gruppo di insorti che ha fatto fuoco su di loro, uccidendo il caporal maggiore Tobini e ferendo il caporal maggiore D'Orazio. Dopo aver cercato riparo in alcune case, i militari sono stati attaccati nuovamente da altri insorti posizionati in altre abitazioni che non erano state precedentemente controllate e in questo secondo attacco è rimasto ferito il terzo militare italiano. A quel punto - ha spiegato il ministro La Russa - è intervenuta la forza aerea di reazione alleata con quattro elicotteri, un aereo francese e uno americano che hanno bombardato la zona, consentendo l'evacuazione, "dopo un periodo non breve", alle forze italiane presenti sul territorio.
25 luglio 2011 AFGHANISTAN 41 caduti dal 2004 Con il militare ucciso oggi nello scontro a fuoco nella zona di Bala Murghab sono 41 i morti italiani dall'inizio della missione Isaf in Afghanistan, nel 2004. Di questi, la maggioranza è rimasta vittima di attentati e scontri a fuoco, altri invece sono morti in incidenti, alcuni anche per malore ed uno si è suicidato. In alcuni casi i militari coinvolti non facevano parte di Isaf, come il tenente colonnello dei carabinieri Cristiano Congiu, ucciso poco più di un mese fa in un episodio di criminalità comune. Il 2010 è stato fino ad oggi l'anno più sanguinoso, con 13 vittime. Ecco i nomi dei militari italiani morti dal 2004 ad oggi: Caporal maggiore GIOVANNI BRUNO - 3 ottobre 2004 Capitano di fregata BRUNO VIANINI - 3 febbraio 2005 Caporal maggiore capo MICHELE SANFILIPPO - 11 ottobre 2005 Tenente MANUEL FIORITO e maresciallo LUCA POLSINELLI - 5 maggio 2006 Tenente colonnello CARLO LIGUORI - 2 luglio 2006 Caporal maggiore GIUSEPPE ORLANDO - 20 settembre 2006 Caporal maggiori GIORGIO LANGELLA e VINCENZO CARDELLA - 26 settembre 2006 Agente Sismi LORENZO D'AURIA - 24 settembre 2007 Maresciallo capo DANIELE PALADINI - 24 novembre 2007 Maresciallo GIOVANNI PEZZULO - 13 febbraio 2008 Caporal maggiore ALESSANDRO CAROPPO - 21 settembre 2008 Maresciallo ARNALDO FORCUCCI - 15 gennaio 2009 Caporal maggiore ALESSANDRO DI LISIO - 14 luglio Tenente ANTONIO FORTUNATO, Sergente Maggiore ROBERTO VALENTE, Primo caporal maggiore MATTEO MUREDDU, Primo Caporal Maggiore GIANDOMENICO PISTONAMI, Primo Caporal Maggiore MASSIMILIANO RANDINO, Primo Caporal Maggiore DAVIDE RICCHIUTO - 17 settembre 2009 Caporal maggiore ROSARIO PONZIANO - 15 ottobre 2009 Agente Aise PIETRO ANTONIO COLAZZO - 26 febbraio 2010 Sergente MASSIMILIANO RAMADÙ e caporalmaggiore LUIGI PASCAZIO - 17 maggio 2010 Caporal maggiore scelto FRANCESCO SAVERIO POSITANO - 23 giugno 2010 Capitano MARCO CALLEGARO - 25 luglio 2010 Primo maresciallo MAURO GIGLI e caporal maggiore capo PIERDAVIDE DE CILLIS - 28 luglio 2010 Tenente ALESSANDRO ROMANI - 17 settembre 2010 Primo caporal maggiore GIANMARCO MANCA, Primo caporal maggiore FRANCESCO VANNOZZI, Primo caporal maggiore SEBASTIANO VILLE, Caporal maggiore MARCO PEDONE - 9 ottobre 2010 Caporal maggiore MATTEO MIOTTO - 31 dicembre 2010 Caporal maggiore LUCA SANNA - 18 gennaio 2011 Tenente MASSIMO RANZANI - 28 febbraio 2011 Tenente colonnello dei carabinieri CRISTIANO CONGIU - 4 giugno 2011 Caporal maggiore scelto GAETANO TUCCILLO - 2 luglio 2011 Primo caporal maggiore ROBERTO MARCHINI - 12 luglio 2011
25 lugliio 2011 NORVEGIA Oslo, il killer in tribunale: "Con me altre due cellule" È durata meno di un'ora l'udienza preliminare di Anders Breivik, l'autore delle stragi in Norvegia. All'arrivo in tribunale Breivik ha rischiato il linciaggio mentre l'auto blindata della polizia su cui viaggiava si faceva largo tra la folla. Al grido di "traditore" e "assassino", la gente ha battuto con i pugni sui vetri, prima che intervenissero gli agenti. Insultato anche il suo avvocato. L'udienza si è tenuta a porte chiuse, anche se Breivik aveva chiesto che si svolgesse alla presenza del pubblico per poter spiegare le sue deliranti "ragioni". Il giudice ha tuttavia stabilito diversamente, anche su input della polizia che temeva che Breivik potesse mandare messaggi in codice a possibili complici. Pur avendo ammesso il massacro, spiegando di aver agito per "dare un segnale forte alla salvezza europea", l'autore delle stragi si è detto non colpevole. Poi ha parlato dell'esistenza di "altre due cellule nella nostra organizzazione". Il tribunale ha deciso che il killer resterà in carcerazione preventiva per 8 settimane e in isolamento totale fino al 22 agosto. Il massacro di Oslo ha spaventato anche gli inglesi, che hanno deciso di rivedere le procedure di sicurezza in vista dei Giochi 2012 a Londra, per meglio contrastare le azioni di "lupi solitari" come Breivik. Intanto, è giallo sulla notizia del fermo a Breslavia, in Polonia, di un commerciante di prodotti chimici online, da cui forse si sarebbe rifornito Breivik; la polizia ha smentito l'arresto ma ha confermato che sono in corso indagini per appurare eventuali legami con le stragi. "Stiamo indagando dietro richiesta della polizia norvegese", ha spiegato il portavoce della procura di Breslavia, Malgorzata Klaus. Era stato lo stesso assassino, nel suo memoriale di 1.500 pagine postato su internet 6 ore prima della strage, a citare un fornitore di prodotti chimici sulla Rete. Anche in Gran Bretagna, Scotland Yard ha avviato un'inchiesta per far luce possibili complicità, dopo che nel memoriale su internet erano emersi diversi riferimenti al Regno Unito e un "mentore" di nome Richard. Per approfondire i possibili legami tra la strage di Oslo e i movimenti dell'estrema destra europei, inoltre, l'Europol, l'agenzia anticrimine dell'Ue, ha costituito una speciale task force con esperti di antiterrorismo provenienti da tutta Europa. E mentre si cercano possibili complici tra i movimenti di estrema destra di altri Paesi a mezzogiorno la Norvegia si è fermata per ricordare con un minuto di silenzio le vittime degli attentati. All'omaggio, guidato da re Harald e dal premier, Jens Stoltenberg, nella cerimonia davanti all'università della capitale, si sono uniti anche gli altri Paesi scandinavi. BREIVIK SPERAVA DI UCCIDERE EX PREMIER BRUNDTLAND Breivik sperava di uccidere l'ex primo ministro norvegese Gro Harlem Brundtland sull'isola di Utoya. Lo ha detto lo stesso Breivik durante il lungo interrogatorio a cui è stato sottoposto dalla polizia, secondo quanto riferisce il quotidiano norvegese Aftenposten. Agli inquirenti, Breivik ha spiegato che voleva uccidere la Brundtland quando è venuta a parlare al campo estivo laburista all'inizio del pomeriggio di venerdì, ma che poi è arrivato troppo tardi. L'ex primo ministro laburista, alla guida del paese per tre mandati fra il 1981 e il 1996, è stata definita "assassina del Paese" nel delirante manifesto di 1500 pagine che Breivik ha diffuso su Internet. MUNIZIONI VIETATE DAL CODICE DI GUERRA PER IL MASSACRO Anders Behring Breivik avrebbe usato munizioni vietate dal codice di guerra e utilizzate per la caccia agli elefanti per compiere il massacro sull'isola di Utoya. Secondo il capochirurgo dell'ospedale Ringerike, Colin Poole, citato dall'edizione online del quotidiano norvegese VG, l'autore degli attentati di venerdì scorso ha utilizzato pallottole dum-dum. Il medico ha curato almeno 16 feriti nel massacro di Utoya, riporta il giornale. Tale tipo di munizioni ha la caratteristica di espandersi dopo il contatto con l'obiettivo provocando ferite che possono essere mortali anche quando non raggiungono parti vitali del corpo. FRATELLASTRO PRINCIPESSA METTE-MARIT TRA GLI UCCISI Il fratellastro della principessa Mette-Marit è tra le persone uccise nella sparatoria sull'isola di Utoya. Lo fa sapere il palazzo reale norvegese.
25 luglio 2011 OSLO Breivik, nel memoriale la genesi del massacro "Ho fatto tutto da solo". Anders Behring Breivik dice di aver agito in completa solitudine, di aver pianificato e portato a termine "da solo" l'attacco dinamitardo nel cuore di Oslo e il massacro sull'isola di Utoya, uccidendo 93 persone. Lo dice alla polizia che lo tiene sotto torchio da ieri, ma gli inquirenti sembrano determinati a non lasciare nulla di intentato e in mattinata hanno lanciato una nuova operazione alla periferia di Oslo dove sono state fermate sei persone, subito rilasciate. Il timore è che dietro al folle gesto del 32enne si possa celare una rete, di sostegno e di relazioni, al momento silente ma potenziale fucina di nuove violenze e atrocità. Il duplice attacco che ha fatto sprofondare nel terrore il Paese nordico che sulla sua 'società apertà aveva puntato per mettersi al riparo dalle storture di intolleranza ed estremismi è stato definito una "tragedia nazionale" oggi dal premier Jens Stoltenberg, una tragedia dalla quale tuttavia - ha garantito - uscirà un paese "ancora più aperto, ma non ingenuo". Stoltenberg ha parlato durante la messa in ricordo delle vittime del massacro che si è tenuta nella cattedrale di Oslo, alla presenza della famiglia reale, degli ambasciatori stranieri e di migliaia di persone riunite nella piazza antistante, raccolte nel dolore insieme con il resto del Paese che ne ha seguito la diretta tv a reti unificate "Tutto il mondo è con noi" ha detto Stoltenberg. Il mondo che, insieme con i norvegesi, assiste incredulo ora dopo ora all'agghiacciante svelarsi della follia che ha mosso la mano omicida di Anders Behring Breivik: in un memoriale di 1.500 pagine, un vero e proprio manifesto della sua crociata, Breivik ha stilato con spaventosa lucidità obiettivi e strategie. Il documento è stato messo in rete solo un'ora prima dell'esplosione a Oslo e tre ore prima della carneficina sull'isola di Utoya, ma la sua preparazione risale al 2002 quando - stando a questo dettagliatissimo diario - ha cominciato ad ideare l'impresa, poi entrata nella fase operativa nel 2009. Già allora era consapevole che sarebbe stato considerato "il più grande mostro dalla seconda guerra mondiale in poi", ma quello che lui si sentiva era "un eroe, salvatore del nostro popolo e della Cristianità europea, un distruttore del male e un portatore di luce", scriveva. Per ora Breivik non smentisce il suo personaggio e non "tradisce" la sua missione, chiedendo "un processo a porte aperte, vuole essere presente in aula e dare le sue spiegazioni", ha riferito il suo avvocato difensore (che ha precisato di aver avuto perplessità prima di accettare l'incarico). La prima occasione è già domani quando Breivik comparirà davanti al tribunale che ne dovrà decidere la detenzione provvisoria. Sarà però il giudice a decidere se l'udienza si terrà a porte aperte o chiuse, ha detto il capo della polizia di Oslo, Sveinung Sponheim. La polizia della capitale, che ha chiamato in aiuto un esperto di Scotland Yard giunto a Oslo per partecipare alle indagini, oggi si è dovuta però giustificare per i tempi di reazione sull'isola di Utoya, troppo lenti era stato detto da subito, una circostanza motivata dalla necessità di "trovare le forze più adatte all'intervento" e con la "difficoltà di operare su un'isola". Poco esaustiva era apparsa però anche la prima risposta a un quesito posto da più parti: dov'era l'agente in servizio sul posto mentre Breivik sparava all'impazzata contro decine di ragazzi? "Stiamo cercando di capire cosa sia successo", avevano detto i responsabili della polizia. Poco dopo la notizia la dà la tv: "Un poliziotto, probabilmente la guardia in servizio sull'isola, è tra le vittime del massacro".
24 luglio 2011 Strage di Oslo e multiculturalismo Un tragico fallimento della convivenza Coma ad Oklahoma City nel 1995 e se possibile persino peggio: perché Anders Behring Breivik, l’emulo scandinavo di Timothy McVeigh, il responsabile della carneficina norvegese di venerdì pomeriggio, rischia di essere un cane sciolto, non così organico ai gruppi della destra neonazista o alle milizie suprematiste bianche come invece lo era l’autore della strage del 1995. Un "fondamentalista cristiano" è stato sommariamente definito dalle fonti di polizia (sorvolando invece sulla sua affiliazione massonica), quasi a voler trovare un contrappeso comunicativo abbastanza forte a quella pista del "fondamentalismo islamico" che era stata inizialmente seguita, ancora una volta come avvenuto ad Oklahoma City. Fa riflettere che nelle nostre società aperte, ancor di più in quelle maggiormente tolleranti del Nord Europa (dalla Norvegia alla Finlandia, dalla Danimarca all’Olanda) le posizioni più estremiste sembrino trovare alimento. Sarebbe ovviamente sbagliato fare d’ogni erba un fascio, mettendo sullo stesso piano il sacrosanto diritto di esercitare la libertà di parola dei partiti della destra olandese, norvegese e finnica con l’azione omicida che mira a imporre con la violenza la propria conformità (si pensi all’omicidio di Pym Fortuyn ad opera di un fanatico islamico) o a fare strage di innocenti per rivendicare spazio alle proprie idee, come è avvenuto ieri. E bene ha fatto il premier norvegese a chiarire fin da subito che la Norvegia resterà un Paese aperto, liberale e solidale. Ma rimane il fatto che proprio laddove il modello meritoriamente perseguito è stato quello dell’integrazione, dell’accoglienza e della diffusione del benessere sembra di registrare un fallimento più scoraggiante. Più scoraggiante non perché l’ipotesi della chiusura, dei muri e delle cannoniere sia migliore – tutt’altro – ma perché se neppure in questo modo si è riusciti ad eradicare la malapianta dell’odio, dell’intolleranza, del "noi contro loro", allora la strada da fare è ancora tantissima e forse va radicalmente ripensata. Fece scalpore, qualche mese fa, l’affermazione di David Cameron circa il "fallimento del multiculturalismo" (già sottolineato anche da Angela Merkel). Che si convenga o meno con la posizione del premier britannico, questo concetto è stato spesso evocato in passato a proposito delle difficoltà di inserimento, talvolta della programmatica non volontà di inclusione, delle comunità musulmane nel tessuto sociale e culturale dei Paesi occidentali. Con crescente frequenza ci troviamo invece a interrogarci sul fallimento di questa pratica a partire delle reazioni, non necessariamente violente anche se queste ultime preoccupano molto di più, che dalle nostre società si scatenano nei confronti della promessa multiculturale. Evidentemente non mi riferisco all’ovvietà che le nostre società sono tutte ormai composite culturalmente, ma all’idea che l’affermazione della loro identità culturale e politica possa essere considerata pienamente desiderabile e legittima solo a condizione che cristallizzi la loro natura composita, rinunciando a perseguire un nuovo equilibrio che tenga conto tanto dei molteplici apporti più o meno recenti quanto delle radici tradizionali e autoctone. Oggi inizierà la solita litania di chi accuserà i media, la polizia, la politica e quant’altri di nutrire un "pregiudizio antimusulmano", perché ieri – per le modalità dell’attentato di Oslo, per quel poco che si sapeva sulla strage in corso sull’isola di Utoya e per le minacce raccolte in tanti mesi e gli attentati sventati in tanti anni – la pista islamica è apparsa dapprincipio la più accreditata. È bene che da questa strage, come da quella di Oklahoma City, rinforziamo la nostra consapevolezza che ogni forma di pregiudizio è dannosa e che persino i semplici stereotipi allontanano dall’accertamento della verità. Ma non fingiamo di ignorare, per paura, convenienza, calcolo politico che la questione della convivenza tra culture diverse nelle nostre società è una sfida che attende, anch’essa, risposte vere e non stereotipi e che più tempo passa senza che la affrontiamo coraggiosamente e apertamente e più aumenta il rischio che la violenza e l’estremismo facciano proseliti ovunque. Vittorio E. Parsi
25 luglio 2011 ECONOMIA Debito Usa, niente accordo Paura sui mercati Un accordo ancora non c'è e repubblicani e democratici vanno ognuno per la propria strada,avanzando piani diversi per ridurre il deficit e il debito. Il presidente Barack Obama vede i leader democratici del Congresso, Harry Reid e Nancy Pelosi. Lo speaker della Camera, John Boehner, aggiorna i membri del suo partito sulle negoziazioni. Le parti sono ancora distanti, con i repubblicani che spingono per un accordo in due fasi e i democratici che si oppongono a un piano a breve termine.
Boehner resta convinto che l'unica soluzione è un aumento del tetto del debito in due fasi, una immediata con 1.000 miliardi di dollari di tagli. E una nel 2012, in piena campagna elettorale, dopo che una commissione avrà individuato le spese da tagliare. La Casa Bianca ritiene la proposta inaccettabile: e il dollaro subito recupera le perdite accumulate nelle contrattazioni pre-borsa sui mercati asiatici. Le borse più che all'aumento del tetto del debito guardano con attenzione a un possibile downgrade se non sarà raggiunto un un ampio accordo di riduzione del deficit e del debito. Reid per i democratici sta mettendo a punto una misura che prevede tagli da 2.700 miliardi di dollari. Alla scadenza del 2 agosto mancano solo otto giorni e le parti cercano una soluzione in extremis per evitare il default. Il piano di Boehner "non ha senso, non è un punto di partenza" afferma categorico il segretario al Tesoro, Timothy Geithner, secondo il quale l'aumento del limite legale del debito deve essere lasciato fuori dalla politica. Il presidente Barack Obama potrebbe opporre il proprio veto a un piano di aumento del debito che non copra i bisogni finanziari degli Stati Uniti fino al 2013, dopo le elezioni presidenziali, mette in guardia il capo dello staff della Casa Bianca, William Daley.
L'amministrazione Obama, coinvolta attivamente nelle negoziazioni come ha precisato Geithner smentendo le indiscrezioni su un'esclusione del presidente, resta fiduciosa: un default sarà evitato. "È impensabile" evidenzia Geithner. "Quello che è più importante è scongiurare la minaccia di default per i prossimi 18 mesi": l'economia è debole e un default avrebbe effetti catastrofici. Un impatto "devastante" lo avrebbe anche il piano dei repubblicani. "Ritengo che la forza della ragione stia prevalendo. Ci sono dei progressi" aggiunge Geithner, mettendo in evidenza che le cornici di accordo sulle quali si sta lavorando sono due. Una è quella discussa da Obama e Boehner con tagli alla spesa e un aumento delle entrate. L'altra è la proposta avanzata da dal leader dei repubblicani in Senato, Mitch McConnell. "Sono sul tavolo e possono essere combinate in vari modi". Moody's ha tagliato ancora il rating sul debito della Grecia, a un passo dalla soglia predefinita di default: da 'Caa1' a 'Cà.
2011-07-20 20 luglio 2011 NEL SUD DELLA SOMALIA Corno d'Africa, ora l'Onu dichiara lo "stato di carestia" L'Onu ha dichiarato ufficialmente lo stato di carestia in due regioni del sud della Somalia. Sono circa 350 mila le persone colpite dalla fame, "nella più grave crisi alimentare in Africa degli ultimi venti anni". "Le Nazioni Unite hanno dichiarato oggi lo stato di carestia in due regioni del sud della Somalia: il sud di Bakool e il Basso Shabelle", hanno affermato nell'ufficio di coordinamento degli Affari umanitari dell'Onu in Somalia. Secondo la Nazioni Unite, oltre 10 milioni di persone, nella regione del Corno d'Africa, stanno affrontando le conseguenze di uno dei periodi peggiori di siccità degli ultimi decenni. SBARCANO GLI AIUTI di Matteo Fraschini Koffi Con l’aggravarsi della crisi umanitaria nel Corno d’Africa, le Nazioni Unite hanno confermato che i loro operatori sono riusciti a portare gli aiuti direttamente nelle zone controllate dai ribelli qaedisti somali di al-Shabaab. L’Unicef ha spedito un volo carico di cibo e medicinali che ha rag- giunto la città di Baidoa nel fine settimana, usando una pista d’atterraggio che in precedenza era stata chiusa dai ribelli. "La ragione per cui abbiamo usato un volo è relativa alla velocità con cui vogliamo operare ", ha confermato Rozanne Chorlton, rappresentante Unicef per la Somalia: "Dobbiamo far arrivare gli aiuti il più velocemente possibile per l’aumento di sfollati in Somalia. L’operazione è andata bene – ha concluso Chorlton – i ribelli hanno lasciato gli operatori dell’Onu in pace". La catastrofe umanitaria coinvolge ormai più di undici milioni di persone, due milioni di bambini, e decine di migliaia di profughi che tentano di raggiungere i campi tra Kenya e Somalia dove sperano di portare in salvo i loro figli. In alcune aree del Corno d’Africa, il prezzo del grano è salito tra il 100 e il 200%, riducendo drasticamente la disponibilità di alimenti per le famiglie e per il bestiame. I media locali hanno definito la regione compresa tra Kenya, Etiopia e Somalia "il triangolo della morte". "Abbiamo ricevuto circa 835 milioni di dollari", afferma una nota delle Nazioni unite: "È però necessario un altro miliardo di dollari di finanziamenti per affrontare la crisi". Altri governi stanno rispondendo all’appello delle agenzie umanitarie, tra questi il Kuwait e il Canada che hanno deciso di donare 10 e 22 milioni di dollari rispettivamente. Alcuni analisti credono che permettendo l’arrivo degli aiuti nelle loro zone, i ribelli vogliano evitare un pericoloso accrescimento del malcontento popolare, mentre altri sostengono che al-Shabaab sfrutti questa opportunità per ottenere peso politico e risorse economiche. La situazione sta invece peggiorando vertiginosamente nei corridoi del potere nella capitale somala Mogadiscio. Il nuovo primo ministro, Abdiweli Mohamed Ali, è in ritardo rispetto alla nomina del successivo Governo federale di transizione somalo ( Tfg). La profonda divisione tra il presidente somalo, Sheikh Sharif Ahmed, e lo speaker del Parlamento, Sheikh Sharif Hassan Adam, continua a causare enormi difficoltà a livello politico. Ieri mattina, le guardie di sicurezza dei due leader si sono scontrate davanti al palazzo presidenziale a colpi d’arma da fuoco causando l’uccisione di almeno due soldati e il ferimento di diversi altri. Sharif Ahmed e Sharif Hassan vogliono avere i propri alleati seduti sulle più importanti poltrone ministeriali per essere a capo della gestione dei lauti fondi internazionali. Un recente rapporto del Consiglio atlantico presentato al congresso americano ha però stimato che: "Tra il 2009 e il 2010, dei 75 milioni di dollari destinati al Tfg meno di 3 milioni sono stati rintracciati nella contabilità – recita il documento – Raccomandiamo che siano investigati l’ufficio del presidente e del primo ministro, oltre ai ministeri delle Finanze e dell’informazione". Immediata la replica del deputato somalo Ali Mohamoud Farah Seko, vice presidente del comitato parlamentare della Giustizia, ha dichiarato che: "Se gli americani mi daranno le prove di tale corruzione, i colpevoli verranno subito processati ".
19 luglio 2011 L'EMERGENZA CARESTIA La solidarietà della Cei Come aiutare il Corno d'Africa In risposta all’accorato invito del Santo Padre a operare per sollevare le popolazioni nel Corno d’Africa, colpite da una grave siccità e dalla conseguente carestia, la Presidenza della Conferenza episcopale italiana invita a pregare per le comunità e a sostenere le iniziative di solidarietà promosse dalla Caritas italiana. La Presidenza della Cei, per far fronte alle necessarie emergenze e ai bisogni essenziali delle persone colpite, ha stanziato un milione di euro dai fondi derivanti dall’otto per mille. L’apposito Comitato per gli interventi caritativi a favore del Terzo Mondo provvederà all’erogazione della somma accordata, accogliendo le richieste che stanno pervenendo o perverranno, sostenendo direttamente progetti di enti ecclesiali locali che operano in collegamento con le istituzioni caritative della Conferenza episcopale o delle diocesi del luogo. La Presidenza della Cei COME AIUTARE La Caritas Italiana ha subito messo a disposizione 300mila euro per i primi interventi. E ha avviato una sottoscrizione per sostenere le azioni in corso da tempo nel Corno d’Africa in collaborazione con le Caritas locali. Si possono quindi inviare offerte a Caritas Italiana tramite: <+nero_bandiera>C/c postale n. 347013 specificando nella causale: "Carestia Corno d’Africa 2011". Offerte sono possibili anche tramite altri canali, tra cui: UniCredit, via Taranto 49, Roma - Iban: IT 88 U 02008 05206 000011063119; Banca Prossima, via Aurelia 796, Roma - Iban: IT 06 A 03359 01600 100000012474; Intesa Sanpaolo, via Aurelia 396/A, Roma - Iban: IT 95 M 03069 05098 100000005384; Banca Popolare Etica, via Parigi 17, Roma - Iban: IT 29 U 05018 03200 000000011113. Inoltre: CartaSi e Diners telefonando a Caritas Italiana 06 66177001 (durante gli orari d’ufficio).
19 luglio 2011 L'EMERGENZA CARESTIA La solidarietà della Cei Come aiutare il Corno d'Africa In risposta all’accorato invito del Santo Padre a operare per sollevare le popolazioni nel Corno d’Africa, colpite da una grave siccità e dalla conseguente carestia, la Presidenza della Conferenza episcopale italiana invita a pregare per le comunità e a sostenere le iniziative di solidarietà promosse dalla Caritas italiana. La Presidenza della Cei, per far fronte alle necessarie emergenze e ai bisogni essenziali delle persone colpite, ha stanziato un milione di euro dai fondi derivanti dall’otto per mille. L’apposito Comitato per gli interventi caritativi a favore del Terzo Mondo provvederà all’erogazione della somma accordata, accogliendo le richieste che stanno pervenendo o perverranno, sostenendo direttamente progetti di enti ecclesiali locali che operano in collegamento con le istituzioni caritative della Conferenza episcopale o delle diocesi del luogo. La Presidenza della Cei COME AIUTARE La Caritas Italiana ha subito messo a disposizione 300mila euro per i primi interventi. E ha avviato una sottoscrizione per sostenere le azioni in corso da tempo nel Corno d’Africa in collaborazione con le Caritas locali. Si possono quindi inviare offerte a Caritas Italiana tramite: <+nero_bandiera>C/c postale n. 347013 specificando nella causale: "Carestia Corno d’Africa 2011". Offerte sono possibili anche tramite altri canali, tra cui: UniCredit, via Taranto 49, Roma - Iban: IT 88 U 02008 05206 000011063119; Banca Prossima, via Aurelia 796, Roma - Iban: IT 06 A 03359 01600 100000012474; Intesa Sanpaolo, via Aurelia 396/A, Roma - Iban: IT 95 M 03069 05098 100000005384; Banca Popolare Etica, via Parigi 17, Roma - Iban: IT 29 U 05018 03200 000000011113. Inoltre: CartaSi e Diners telefonando a Caritas Italiana 06 66177001 (durante gli orari d’ufficio).
2011-05-06 6 maggio 2011 LA RETE DEL TERRORE Al Qaeda ammette: "Benladen è morto" Al Qaeda ha confermato la morte di Osama Benladen definendola "una maledizione" che si abbatterà sugli "americani e i loro agenti". Lo si legge in un comunicato pubblicato su Internet dai forum jihadisti, di cui ha dato notizia il sito Usa di monitoraggio Site. Al Qaeda ha anche fatto sapere che diffonderà un messaggio audio dello sceicco del terrore registrato sette giorni prima della sua morte. "Noi di Al Qaeda chiediamo all'Onnipotente Allah di sostenerci sulla strada della jihad. Il sangue del mujahid sceicco Osama Benladen - che Allah abbia misericordia di lui - è prezioso per noi e per ogni musulmano e non puo essere versato invano", si legge nel documento jihadista. "Chiediamo al nostro popolo musulmano in Pakistan, dove lo sceicco è stato ucciso - prosegue la nota dei terroristi - di sollevare una rivolta per ripulirsi dalla vergogna che gli è stata attribuita da una cricca di traditori e ladriche hanno venduto tutto ai loro nemici (americani, ndr)". "Facciamo appello a loro: che purifichino il Paese dalla sporcizia della corruzione americana. Noi resteremo, Dio volendo, una maledizione per gli americani e per i loro agenti, li seguiremo dentro e fuori i loro Paesi. Presto la loro felicità si tramuterà in tristezza. Il loro sangue sarà mescolato alle loro lacrimè, conclude il documento.
6 maggio 2011 STATI UNITI Al Qaeda voleva colpire i treni Obama a "Ground Zero" Nel febbraio del 2010 al Qaeda ha ipotizzato di colpire il sistema ferroviario americano per causare un alto numero di vittime. L’idea era di provocare il deragliamento di un treno, magari facendolo precipitare da un ponte. Come possibili date dell’attentato: Natale, Capodanno e il decimo anniversario dell’11 settembre. Queste informazioni sono emerse da una prima quanto sommaria analisi della documentazione sequestrata nel rifugio di Osama. Nel confermare la rivelazione, le autorità hanno però aggiunto una precisazione importante: il piano non era entrato ancora nella fase operativa, non esiste alcuna minaccia specifica e si tratta probabilmente di uno dei molti scenari considerati dai terroristi. Inoltre, non vi sarebbero indicazioni su un luogo geografico particolare. I treni, insieme agli aerei, sono stati sempre tra gli obiettivi dei qaedisti. Ci sono diverse stragi di grandi proporzioni a confermarlo: Madrid, Londra e un paio di attacchi in India. Centinaia le vittime. E anche durante il massacro negli hotel di Mumbai alcuni membri del commando hanno preso di mira la stazione. Sono bersagli che non hanno valore simbolico, ma permettono a chi attacca di provocare molti morti e di sconvolgere un sistema di trasporto comune. Nel 2009 l’Fbi ha arrestato un afghano che voleva far esplodere zaini-bomba nel metrò di New York. Le indiscrezioni sono comunque solo all’inizio. I tecnici dell’Fbi, chiusi negli uffici di Quantico, devono scardinare i programmi criptati che proteggono i lap top portati via da Abbottabad. Con loro lavorano anche dei traduttori in quanto i testi non sono in inglese. Dalle memorie – chiavette, hard drive – possono uscire informazioni cruciali sui progetti di al Qaeda. Se dai file di Osama spunteranno risvolti operativi più precisi bisognerà rivedere il giudizio sul profilo del leader di al Qaeda. Dopo l’11 settembre 2001 si è affermato che Benladen avrebbe assunto il ruolo di ispiratore lasciando ai collaboratori e a cellule affiliate il compito di preparare attacchi. Ora, invece, emerge un Benladen – sempre che siano fondate le rivelazioni – che non si limita a distribuire sermoni via Internet ma è parte del "fronte". Non è neppure da escludere che nel computer del fondatore di al Qaeda ci siano le bozze di possibili operazioni presentate dai suoi uomini. Piani che attendevano l’approvazione dell’emiro. Nella fase di preparazione dell’attacco all’America, Khaled Sheikh Mohammed aveva esposto almeno un paio di progetti che erano stati respinti da Osama perché ritenuti non fattibili. Dissidi che avevano irritato lo stesso Mohammed convinto del successo. OBAMA ALLA CERIMONIA DI "GROUND ZERO" Per la prima volta da presidente degli Usa, Barack Obama, ha fatto il viaggio a "Ground Zero" a quasi dieci anni dal dramma che ha cambiato il volto del mondo, ma soprattutto pochi giorni dopo il blitz in Pakistan che ha permesso di uccidere Osama Benladen: per rendere omaggio ai newyorchesi e spiegare che l'America non dimenticherà mai quello che è successo. L'obiettivo della visita del presidente era proprio di chiudere il cerchio. Oggi Obama incontrerà privatamente alcuni degli esponenti del commando autore del blitz contro Osama Benladen. Obama ha depositato una corona di fiori, in una atmosfera solenne, nel silenzio più totale. Poi, Obama ha scambiato alcune parole con parenti delle vittime, molte delle quali erano molto emozionate, alcune di loro sull'orlo delle lacrime, oltreché con diversi poliziotti di New York. Sono stati momenti molto intensi, paragonabili a quelli del primo anniversario degli attacchi, l'11 settembre 2002, quando soffiava, esattamente come ieri, un forte vento.
6 maggio 2011 DAMASCO Siria, 22 morti in proteste Da Ue accordo su sanzioni Le forze di sicurezza siriane hanno ucciso oggi 22 manifestanti filo-democratici durante le proteste nazionali per chiedere la fine del governo autoritario del presidente Bashar al Assad. Lo riferiscono attivisti e testimoni, precisando che le proteste sono cominciate dopo le preghiere del venerdì in tutto il Paese, da Bania sulla costa mediterranea a Qamishly nell'est curdo. La gestione delle proteste da parte di Assad ha provocato critiche a livello internazionale. L'Ue oggi ha raggiunto un accordo per imporre il congelamento di asset e restrizioni sui viaggi a funzionari siriani responsabili della repressione violenta nei confronti dei manifestanti antigovernativi, come riferiscono diplomatici dell'Unione. La decisione fa seguito a un accordo di massima raggiunto la settimana scorsa per imporre un embargo sulle armi alla Siria. Le misure saranno approvate formalmente lunedì prossimo, se nel frattempo nessuno Stato membro avrà sollevato obiezioni. Sulla lista figurano 14 persone, ma al momento non è chiaro se tra loro ci sia il presidente Assad. Le forze di sicurezza di Assad, che hanno compiuto un raid a Deraa la settimana scorsa, hanno evitato che i dimostranti stabilissero un presidio permanente, come quello di piazza Tahrir al Cairo, bloccando le strade di accesso a Damasco, ma ogni settimana i manifestanti usano le preghiere del venerdì per lanciare nuove proteste. "Il popolo vuole il rovesciamento del regime", hanno gridato 2.000 dimostranti a Saqba, sobborgo di Damasco, chiedendo il rilascio di centinaia di parenti arrestati dalle forze di sicurezza negli ultimi giorni, secondo quanto riferito da un testimone. Video diffusi su Internet e da al Jazeera mostrano manifestanti in diverse città ripetere le stesse richieste di libertà e cambio di leadership. Carri armati sono dispiegati a Barzeh, distretto di Damasco, e a Homs, nella Siria centrale, dove cinque manifestanti sono stati uccisi dal fuoco aperto dalle forze di sicurezza sul corteo di protesta. "Cinque corpi sono stati recuperati nella zona di Bab al-Sibaa. Ci sono decine di manifestanti feriti. Migliaia di persone stanno ancora sfilando pacificamente in altre zone di Homs", ha detto un attivista per i diritti umani, che ha chiesto di rimanere anonimo. A Hama, dove il padre di Assad soppresse brutalmente una rivolta islamica armata nel 1982, sei persone sono state uccise durante una grande protesta nel centro città, secondo quanto riferito da un attivista per i diritti umani. Altre proteste sono state registrate nel distretto Midan della capitale, nel sobborgo di Daraya e a Zabadani e Tel Kelekh, al confine libanese. Nonostante le violenze, i dimostranti sembrano determinati a proseguire nel chiedere la fine di anni di repressione, arresti senza processo e corruzione. Il leader dell'opposizione Riad Seif, che dieci anni fa contribuì a dare il via a un movimento pacifico che chiede libertà e democrazia, è stato arrestato durante una delle proteste di oggi, secondo quanto riferito dalla figlia. Le autorità ieri hanno arrestato anche un importante predicatore, Mouaz al-Khatib, una delle principali figure delle proteste, ha riferito oggi un attivista. Un diplomatico occidentale ha detto che sono 7.000 le persone arrestate dall'inizio delle proteste, lo scorso 18 marzo. Secondo i gruppi per i diritti umani, esercito, forze di sicurezza e uomini armati leali ad Assad hanno ucciso almeno 560 civili.
2011-04-26 26 aprile 2011 LIBIA Ancora razzi su Misurata, 30 morti nell'attacco di Gheddafi All'indomani del raid Nato sul bunker di Muammar Gheddafi, Bab al-Aziziya, il regime libico ha assicurato che il Colonnello non è stato in alcun modo coinvolto: "Il leader è al lavoro a Tripoli: sta bene, è in salute, guida la battaglia per la pace e la democrazia in Libia", ha affermato il portavoce del governo, Mussa Ibrahim, all'interno del compound. La sala riunioni, antistante l'ufficio di Gheddafi, è stata gravemente danneggiata dal raid di lunedì all'alba, quello che la Nato, a Bruxelles, ha definito "un attacco di alta precisione" contro il centro-comunicazione del regime. Secondo Ibrahim, nell'attacco sono morte tre persone, e 45 sono rimaste ferite, di cui 15 gravemente. Continuano gli scontri tra ribelli e truppe governative a Misurata. Dopo l'annuncio di aver conquistato la strategica città libica, gli insorti hanno fatto sapere che nella notte sono continuati a piovere razzi contro il centro portuale e che "alcuni soldati del regime si sono nascosti" alla periferia della città in attesa di sferrare contrattacchi. Da Bengasi il portavoce militare degli insorti, colonnello Ahmed Omar Bani, ha riferito che a Misurata "c'è un disastro. È la chiave per Tripoli - ha detto - e Gheddafi non è abbastanza folle" da ripiegare. Intanto l'emittente satellitare al-Arabiya rende noto che è di almeno 30 morti e 60 feriti il primo bilancio dell'attacco condotto dalle truppe di Muammar Gheddafi contro la città di Misurata.
26 aprile 2011 DAMASCO Siria, giro di vite contro l'opposizione Arrestati 44 dimostranti Ulteriore giro di vite contro l'opposizione in Siria: un attivista di spicco, Qassem al-Ghazzawi, è stato prelevato dalle forze di sicurezza nella sua casa a Deir al-Zor, nella regione orientale del Paese. Lo fa sapere l'Osservatorio siriano per i Diritti Umani, riferendo parallelamente della liberazione di undici dimostranti fermati a metà marzo durante le proteste contro il regime del presidente Bashar Assad. L'arresto di Ghizzawi si aggiunge ai 43 dimostranti fermati fra ieri e oggi in diverse località della Siria. Non va meglio per l'esponente dell'opposizione Mahmud Issa che, come conferma il responsabile dell'Osservatorio, Abdel Rahman, "sarà portato di fronte alla giustizia militare con l'accusa di possedere un telefono satellitare e un computer high-tech". L'attivista siriano è stato arrestato il 19 aprile scorso, dopo aver rilasciato un'intervista sulla situazione del Paese all'emittente Al Jazira. Già passato due volte per le prigioni siriane - nel 1992 con una condanna a 8 anni per appartenenza al partito comunista messo al bando e di nuovo nel 2006 per altri 3 anni - Issa è stato nuovamente incriminato nel marzo 2007 con l'accusa di diffondere false informazioni e seminare discordia nel Paese per aver firmato una petizione che chiedeva il riconoscimento del Libano. LA STRETTA FINALE È la stretta finale di Bashar al-Hassad contro Daraa, l’epicentro della rivolta. All’alba una decina di carri armati e blindati fanno da apripista alla temutissima Guardia presidenziale di Maher al-Assad, il fratello del presidente. Poi a migliaia entrano i soldati. Presidiati i viali del centro e la piazza dell’antica moschea al-Omari, luogo simbolo dei raduni contro il regime. "Vogliono instaurare un emirato guidato da un emiro salafita", fa sapere il governo di Damasco per giustificare l’intervento. Ma a tutti è chiaro che è la prova di forza nel tentativo di annientare, spezzare la rivolta. Cecchini appostati suoi palazzi governativi, incursioni di uomini in divisa per le strade mentre dalla capitale giungono pure alcuni elicotteri militari: brandelli di testimonianza dalla "città martire" siriana, da ieri completamente proibita ai giornalisti. Le testimonianze giungono attraverso i cellulari giordani perché le reti siriane da giorni sono oscurate. Difficile stilare un bilancio del pugno di ferro contro quelle che Damasco definisce "gruppi terroristi estremisti", mentre sui social network i ribelli invocano un "intervento internazionale". Diverse e frammentarie le testimonianze, ma concordi su un particolare: numerosi corpi sono stati lasciati riversi per ore lungo le strade, alcuni vicino alla moschea al-Omari, senza avere per ore la possibilità di rimuoverli. Almeno cinque le vittime secondo le prime ricostruzioni, poi testimoni oculari riferisco all’emittente <+corsivo>al-Arabiya<+tondo> che i cadaveri sarebbero almeno 25. Un bilancio destinato a crescere nella controffensiva lanciata da esercito e forze dell’ordine dopo l’ultima sfida organizzata per il Venerdì Santo – costata oltre 100 vittime – e proseguita ai funerali del giorno seguente trasformati, in tutta la Siria, in enormi cortei di protesta. Ma ieri si è sparato pure a Enkhel, Nawa, Jassem e Izraa, villaggi vicini a Daraa mentre a Douma, sobborgo di Damasco, le forze speciali hanno compiuto numerosi arresti. Cronaca di uno stillicidio di violenze continuate per tutto il fine settimana: secondo l’"Osservatorio siriano per i diritti umani" gli uomini di Assad domenica hanno ucciso almeno 25 persone a Jabla mentre nella vicina Banias le vittime sono una quindicina. Più di quaranta, alla fine, la stima delle perdite ieri sera. Pugno di ferro e blocco delle comunicazioni, ma non solo: chiusa per alcune ore la frontiera con la Giordania a Nassib, anche se il governo ha smentito. Ma è tutta la Siria che ribolle e il web – come nelle vicine primavere di Tunisia ed Egitto – riesce a smascherare la repressione grazie al tam tam sulla rete: un video su youtube mostra uomini che camminano al centro di una strada falciati da una serie di raffiche sparate dall’alto, probabilmente dai tetti. Un orrore sempre meno tollerato e che muove a nuove adesioni alla protesta: ieri mattina un documento firmato da 102 intellettuali siriani denunciava "le violente e oppressive azioni del regime siriano". A sottoscriverlo, dato impensabile fino a pochi mesi fa, anche alcuni esponenti di spicco della dissidenza alauita, la minoranza a cui appartiene il clan degli Assad. E intanto un’altra crepa si insinua nei palazzi del potere: un terzo deputato originario di Daraa, Bassam Zamel, ha annunciato le sue dimissioni. Luca Geronico
26 aprile 2011 I motivi della cautela occidentale sulle stragi Assad non piace a nessuno ma il dopo può essere peggio Appare sempre più feroce, ma anche sempre meno decisiva e più sconclusionata la repressione in Siria. Dopo settimane di scontri e centinaia di morti accertati, il regime di Bashar al-Assad appare molto lontano dall’aver ripreso il controllo della situazione. Cecchini che sparano sulla folla durante i funerali dei "martiri", carri armati in azione a Deraa si alternano all’annuncio della revoca del pluridecennale stato d’emergenza. La sensazione è che, a fronte del composito panorama di oppositori, che si allarga di giorno in giorno, anche il regime si stia articolando in una pluralità di posizioni non ancora a lungo sostenibile. L’esito inatteso di tutto ciò, ma comunque il meno improbabile, potrebbe essere la caduta del dittatore in seguito a un "golpe bianco", forse l’unica alternativa al vero sgretolamento del regime. I segnali che giungono da Damasco parlano infatti di una frizione crescente all’interno della famiglia di Assad, il quale sarebbe più propenso di zii, cugini e fratelli a intraprendere la via di qualche timida riforma, ma anche più indebolito a mano a mano che la protesta dilaga. Il silenzio della comunità internazionale, in particolare dell’Occidente, può apparire assordante, rispetto al clamore delle pressioni esercitate nei confronti di Ben Ali, Mubarak e Gheddafi. Eppure, il regime siriano è sicuramente più sanguinario di quello tunisino o egiziano e per di più spiccatamente antioccidentale. Anzi, proprio dell’esibito antiamericanismo, e della polemica rabbiosa contro la Francia, insieme ovviamente all’ostilità aperta nei confronti di Israele, gli Assad hanno sempre fatto uno dei principali strumenti di propaganda interna e internazionale. Americani e francesi, oltre tutto, hanno una partita aperta con Damasco sul Tribunale Speciale per il Libano (incaricato di far luce sull’omicidio dell’ex premier Rafik Hariri, avvenuto nel 2005) e masticano ancora amaro per aver perso influenza su Beirut proprio a favore dell’asse Teheran-Damasco. Non sono quindi oscuri, imbarazzanti legami a spiegare la cautela occidentale; ma semmai le gravi incognite di un repentino regime change in un Paese così decisivo per il precario ordine del Levante. Sia Washington sia Parigi temono che in caso di crollo del regime potrebbero esserci evoluzioni imprevedibili ma negative tanto all’interno del Paese quanto nell’intera regione. La natura della protesta siriana appare infatti decisamente più "orientata religiosamente" di quelle fin qui viste all’opera, dall’Egitto alla Tunisia. Proprio il carattere quasi totalitario della dittatura baathista, infatti, ha contribuito a far piazza pulita dei dissidenti più laici lasciando ai Fratelli musulmani il monopolio dell’opposizione clandestina. Dagli avvenimenti siriani dipende poi direttamente il precario equilibrio libanese, la cui coalizione di governo (composta dai cristiani maroniti di Aoun, dai Drusi di Jumblatt, dagli sciiti di Amal e soprattutto da quelli di Hezbollah) è appoggiata dalla Siria (oltre che dall’Iran) e ipoteca il ritorno dell’egemonia damascena sul "Paese dei Cedri", che quasi metà dei libanesi vede di buon occhio e poco più di metà avversa apertamente. Difficile immaginare che un crollo del regime in Siria non finirebbe con l’alimentare la tentazione di una resa dei conti finale in Libano, tra Hezbollah e i suoi molti nemici. Come ha efficacemente spiegato su Avvenire Riccardo Redaelli qualche giorno fa, anche l’Iran è costretto al silenzio, a causa dell’imbarazzo di dover comunque sostenere il suo principale alleato strategico, mentre reprime un’opposizione che si raduna nelle moschee e marcia al grido di "Allah al Akbar"... E l’atteggiamento iraniano riflette quello delle autorità israeliane, che preferiscono di gran lunga avere a che fare con il regime baathista, tanto più se indebolito per le proteste interne, piuttosto che con l’eventualità di un successo dei Fratelli Musulmani anche a Damasco, dopo Gaza (nella versione Hamas), e magari prima del Cairo e di Amman. Un simile scenario rappresenterebbe evidentemente per Tel Aviv un incubo strategico della peggior specie. Se poi, a tutti questi attori interessati in un modo o nell’altro e spesso per motivi opposti, alla sopravvivenza politica di Assad, aggiungiamo la Turchia di Erdogan, che ha fatto delle sue relazioni con la confinante Siria un perno importante della sua nuova politica mediorientale, si spiega fin troppo bene la cautela del mondo di fronte alla rivolta siriana. Vittorio E. Parsi
2011-04-16 16 aprile 2011 STRISCIA DI SANGUE Presto in Italia la salma di Arrigoni Hamas arresta altri due estremisti La salma di Vittorio Arrigoni lascerà Gaza tra domani e dopodomani: è questa l'ipotesi più realistica, secondo quanto si apprende, considerate le formalità burocratiche che devono prima essere risolte. La famiglia del pacifista italiano ha infatti espresso il desiderio che il feretro non passi da Israele ("una scelta simbolica", ha detto la madre, Egidia Beretta): e questo richiede l'apertura del valico di Rafah, la frontiera tra l'Egitto e la Striscia di Gaza. Ma l'attraversamento è stato chiuso nel 2007, quando Israele ha imposto il blocco su Gaza e la riapertura richiede complicate procedure burocratiche che stanno allungando i tempi del rientro in Italia della salma. ALTRI DUE ARRESTI TRA I SALAFITI ESTREMISTI Il governo di Hamas ha annunciato di aver arrestato altri due sospetti legati all'omicidio di Vittorio Arrigoni. Il ministero dell'Intero è "riuscito ad arrestare due sospetti" legati all'assassinio dell'attivista pro-palestinese. Ieri la polizia aveva arrestato altri due uomini. "Le forze di sicurezza stanno continuando a cercare altri membri del gruppo responsabile dell'omicidio", ha spiegato riferendosi al commando ultra-estremista salafita vicino ad Al Qaeda. STRANGOLATO POCO DOPO IL SEQUESTRO Strangolato poco dopo il sequestro. È finita così, in tragedia, l'avventura di Vittorio Arrigoni, l'attivista filopalestinese italiano rapito giovedì nella Striscia di Gaza da un commando ultra-estremista salafita. Il suo corpo senza vita è stato trovato in un appartamento di Gaza City dai miliziani di Hamas, a conclusione di un'irruzione compiuta nel cuore della notte e diverse ore prima della scadenza dell'ultimatum, che i sequestratori avevano fissato in teoria alle 16 di venerdì, per il rilascio dei loro "confratelli" detenuti pena l'uccisione dell'ostaggio. Secondo un primo esame del cadavere, Arrigoni sarebbe stato ucciso già giovedì pomeriggio, probabilmente strangolato con un cavo metallico o qualcosa di simile. Il suo corpo resta per il momento a Gaza - vegliato in quello stesso ospedale Shifa in cui era solito accompagnare ambulanze con i feriti ai tempi dell'offensiva israeliana Piombo Fuso di due anni fa - in attesa che domenica venga riaperto il valico di Erez fra Gaza e Israele. La sua uccisione è stata condannata in termini molto duri sia da Hamas sia dll'Autorità nazionale palestinese (Anp). A nome dei primi, Fawzi Barhum, ha additato gli ultra-integralisti salafiti definendoli "una banda di degenerati fuorilegge che vogliono seminare l'anarchia e il caos a Gaza". A nome dell'Anp il negoziatore Saeb Erekat ha affermato che si è trattato di un "crimine odioso che non ha niente a che vedere con la nostra storia e con la nostra religione". Condanne unanimi sono rimbalzate pure dall'Italia, da parte della Farnesina, del presidente della Camera, Gianfranco Fini, dal presidente del Senato, Renato Schifani, e da esponenti di vari partiti e sodalizi pacifisti e di sinistra. In un messaggio inviato alla signora Egidia Beretta, madre della vittima e che ha detto di essere "orgogliosa" del figlio, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha espresso "sgomento" per questa "barbarie". Di fronte all'oltraggio generale nei Territori per la uccisione di un attivista che era noto per il suo sostegno senza "se" e senza "ma" alla causa palestinese, uno dei gruppi salafiti attivi nella Striscia, al-Tawhid wal-Jihad, ha emesso un comunicato in cui si proclama estraneo alla vicenda anche se i rapitori del giovane (le finora sconosciute Brigate Mohammed Bin Moslama) avevano indicato fra i detenuti da liberare in cambio di Arrigoni un loro capo, Abd el-Walid al-Maqdisi. Nel video diffuso ieri su You-Tube il volontario italiano appariva bendato e col volto insanguinato, mentre scorreva una sovraimpressione in arabo che lo accusava di propagare i vizi dell'Occidente fra i Palestinesi, imputava all'Italia di essere un "Paese infedele" e ingiungeva a Hamas di rilasciare i salafiti detenuti nella Striscia entro 30 ore. Poi, nella notte, è arrivata la svolta. Secondo fonti locali, le indagini hanno portato all'arresto d'un primo militante salafita, il quale ha condotto gli uomini di Hamas fino al covo: un appartamento nel rione Qarame, a Gaza City, che i miliziani delle Brigate Ezzedin al-Qassam (braccio armato di Hamas) hanno espugnato nel giro di pochi minuti conclusa con la cattura di un secondo salafita. Ma hanno trovato Arrigoni già morto in un angolo, con indosso un giaccone nero e il capo coperto. L'attivista italiano erano molto noto a Gaza dove lavorava da tempo per conto dell'International Solidarity Movement, una Ong votata alla causa palestinese. Aveva partecipato in passato fra l'altro alla missione di una delle prime flottiglie salpate per sfidare il blocco marittimo imposto da Israele all'enclave dopo la presa del potere di Hamas nel 2007, seguita all'estromissione violenta dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) del presidente moderato Abu Mazen (Mahmud Abbas). INTERNATIONAL SOLIDARITY MOVEMENT: SIAMO SCONVOLTI L'organizzazione International Solidarity Movement (Ism), di cui Vittorio Arrigoni era membro, si è detta sconvolta dalla notizia dell'omicidio del volontario italiano per mano di un gruppo islamico salafita nei pressi della Striscia di Gaza. Huwaida Arraf, co-fondatore dell'Ism, in una conversazione telefonica con la France Press ha riferito di essere "sotto shock. Ho passato la notte a piangere pensando alla possibilità che" i rapitori "gli avrebbero potuto far del male", ha detto Arraf, precisando che prima d'ora non c'era "mai stata alcuna minaccia contro l'Ism a Gaza. Qui la gente ci ha accolto con grande favore perchè siamo solidali con loro". FREEDOM FLOTILLA: UCCISIONE ANOMALA "È anomala, non ha senso l'uccisione di Vittorio Arrigoni, era un ragazzo che cercava di aiutare i palestinesi: bisogna capire chi ha interesse e chi viene danneggiato dalla morte di un volontario che forse dava molto fastidio: hanno spento una voce che parlava di ciò che avvinene a Gaza". Lo ha detto Germano Monti del coordinamento di Freedom Flotilla Italia, sottolineando che "l'uccisione di Vittorio è avvenuta troppo in fretta, non vi era forse alcuna volontà di ottenere risultati, i rapitori appartenenti ad un gruppo salafita di Gaza, prima hanno chiesto la liberazione di loro compagni detenuti da Hamas e poi lo hanno subito assassinato". "Vittorio è stato ingiustamente accusato dai suoi rapitori di portare corruzione in Medio Oriente - ha aggiunto Monti - non è vero si è sempre battuto e ha sempre denunciato l'oppressione israeliana sul popolo palestinese. Bisogna capire cosa c'è dietro. È accaduto tutto troppo in fretta". MAMMA ARRIGONI: ERA SEMPRE TRANQUILLO Il corpo di Vittorio si trova all'ospedale Shifa, l'ospedale principale di Gaza City. "È l'ospedale - ha detto la madre - dove arrivava spesso Vittorio con le ambulanze ai tempi di Piombo Fuso". "Ora sto aspettando che si faccia viva la Farnesina perché da Gaza un'amica di Vittorio mi ha detto che si possono chiedere alla Farnesina le modalità di rientro di mio figlio - ha aggiunto Egidia Beretta -, io adesso chiamo la Farnesina e dico che vorremmo che Vittorio tornasse attraverso il valico di Rafah, attraverso l'Egitto". PAX CHRISTI: NON CE NE ANDREMO DA GAZA "Non ce ne andiamo, perché riteniamo essenziale la nostra presenza di testimoni oculari dei crimini contro l'inerme popolazione civile ora per ora, minuto per minuto". È l'impegno ribadito da Pax Christi Italia con le stesse parole di Vittorio Arrigoni. Don Nandino Capovilla, coordinatore nazionale del movimento cattolico internazionale per la pace, ricorda la determinazione del volontario italiano a lavorare per la gente della Palestina: "Così ripetevi durante l'operazione israeliana 'Piombo fuso', unico italiano rimasto lì, tra la tua gente, tra i volti straziati dei bambini ridotti a target di guerra. Così mi hai ripetuto pochi mesi fa prima di abbracciarmi: io obbedivo all'ultimatum dei militari al valico di Heretz, che mi ordinavano di uscire dalla Striscia di Gaza, ma tu restavi. Questa era la tua vita: rimanere". E ancora: "Sei rimasto con gli ultimi, caro Vittorio, e i tuoi occhi sono stati chiusi da un odio assurdo, così in contrasto, così lontano dall'affetto e dalla solidarietà della gente di Gaza, da tutta la gente di Gaza che non è 'un posto scomodo dove si odia l'occidente', come affermano ora i commentatori televisivi, ma un pezzo di Palestina tenuta sotto embargo e martoriata all'inverosimile. La tua gente di Palestina non dimenticherà il tuo amore per lei. Hai speso la tua vita per una pace giusta, disarmata, umana fino in fondo. Anche a noi di Pax Christi mancherà la tua 'bocca-scucita' che irrompeva in sala, al telefono, quando, durante qualche incontro qui in Italia, nelle città e nelle parrocchie dove si ha ancora il coraggio di raccontare l'occupazione della Palestina e l'inferno di Gaza, denunciavi e ripetevi: Restiamo umani!".
16 aprile 2011 LIBIA Bombe a grappolo, Tripoli nega Martinelli: Misurata allo stremo Gli aerei della Nato hanno bombardato Sirte, considerata la roccaforte del colonnello libico Muammar Gheddafi. Lo ha riferito la tv di Stato Jamahiriya, citando fonti militari di Tripoli. Intanto continua l'assedio di Misurata, che oggi è stata colpita con almeno 100 missili grad, secondo quanto ha detto un portavoce degli insorti. L'organizzazione umanitaria Human Rights Watch (Hrw) ha confermato che le forze governative fedeli al leader libico Muammar Gheddafi hanno fatto uso di bombe a grappolo contro la città di Misurata ma l'accusa è stata smentita da un portavoce ufficiale a Tripoli. La notizia era stata diffusa ieri dal New York Times, che aveva pubblicato una corrispondenza del suo inviato nella città portuale controllata dagli insorti e stretta d'assedio da oltre un mese. In un comunicato pubblicato sul suo sito web, Hrw afferma che almeno tre ordigni a frammentazione, presumibilmente sparati con un mortaio, sono stati visti esplodere nella notte tra giovedi e venerdi nel distretto di El Shawahda da alcuni suoi operatori sul campo. Questi hanno inoltre avuto notizia da fonti attendibili di altri due ordigni di questo tipo, esplosi in altri due quartieri sempre nella notte tra giovedi e e venerdi. "È veramente esecrabile che la Libia faccia uso di armi di questo genere in aree resideniali", ha commentato Steve Goose, responsabile della divisione armamenti dell'organizzazione umanitaria. A Tripoli, un portavoce del governo libico, Mussa Ibrahim, ha tuttavia smentito. "Non utilizzeremmo mai armi simili contro le popolazioni libiche - ha detto ai giornalisti - oltretutto il mondo ci sta guardando e non potremmo mai fare una cosa del genere". MISURATA SOTTO ASSEDIO "A Misurata le donne sono violentate e mutilate, le famiglie sono rinchiuse in casa". Lo afferma il vicario apostolico di Tripoli, monsignor Giovanni Innocenzo Martinelli, che all'agenzia vaticana Fides spiega di aver appreso di stupri in atto da alcune donne musulmane di Tripoli che sono in contatto con le vittime. "Non avete idea di cosa sta succedendo là", hanno detto queste signore al vescovo che ha riferito quanto appreso sia all'agenzia vaticana Fides che "a un workshop via telefono organizzato dal Servizio d'Azione Europeo Esterno al quale - rivela il presule - hanno partecipato anche altre persone, alcuni libici residenti in Europa ed in Egitto". "Si è discusso - spiega monsignor Martinelli - di come portate gli aiuti umanitari alla Libia dopo la fine del conflitto, e io ho ribadito che prima bisogna trovare il modo di fare finire la guerra". Il vicario apostolico di Tripoli cita in proposito il documento delle comunità cristiane presenti in Libia che esorta a "sfruttare le relazioni tribali". "Gheddafi - ricorda - ha avuto il merito di aver riunificato le diverse cabile (tribù) libiche". "Nella nostra dichiarazione - conclude - suggerivamo di coinvolgere i saggi, gli anziani per trovare la via del dialogo tra le diverse componenti della società libica".
16 aprile 2011 IL FRONTE DIPLOMATICO L’Italia: non bombardiamo Usa, Francia e Gb: Gheddafi deve andarsene Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia stanno ormai proiettandosi "oltre" la risoluzione numero 1973, con cui il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha autorizzato l’imposizione di una no flyzone sulla Libia e "tutte le misure necessarie " per proteggere i civili. Mentre l’Italia ribadisce che non fornirà armi offensive ai ribelli di Bengasi, è il ministro della Difesa francese Gerard Longuet ad ammettere che si punta a un cambio di regime nel Paese nord-africano, e dunque alla fine di Muammar Gheddafi. Alla domanda se con ciò i governi aderenti alla coalizione non rischierebbero di spingersi "al di là dei limiti" della risoluzione Onu, Longuet ha risposto: "Della risoluzione 1973? Certo che sì! Essa non si occupa del futuro di Gheddafi ma penso che, quando tre grandi potenze affermano la stessa cosa, questo anche per la Nazioni Unite è rilevante, e forse un giorno il Consiglio di sicurezza adotterà un’altra risoluzione". Quanto all’appello per "evitare l’uso della forza", lanciato giovedì dall’isola cinese di Hainan dal gruppo dei cosiddetti Brics, il ministro francese ha commentato che "è naturale" che Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica "puntino i piedi ". "Però – ha chiesto in tono polemico Longuet – quale grande Paese può accettare che un capo di Stato possa risolvere i propri problemi dando ordine di aprire il fuoco con i cannoni contro la sua stessa popolazione? Nessuna grande potenza è in grado di accettare una cosa del genere – ha ammonito il ministro francese – Accanto all’azione militare mi piacerebbe assistere a un’apertura politica tale che i libici possano ricompattarsi per immaginare insieme, da soli un avvenire senza Gheddafi". Gli stessi Nicolas Sarkozy, Barack Obama e David Cameron – in un articolo congiunto pubblicato ieri su quattro quotidiani – hanno sottolineato che è "impossibile " immaginare un futuro per la Libia con Gheddafi al potere. "Il nostro dovere e il nostro mandato in base alla risoluzione Onu 1973 è proteggere i civili, ed è ciò che stiamo facendo", hanno scritto i tre leader, secondo i quali però la rimozione con la forza del Colonnello non è un obiettivo. Certo è che finché Gheddafi rimarrà al potere, "la Nato e i suoi partner della coalizione devono continuare le loro operazioni per proteggere i civili e aumentare la pressione sul regime". Per il segretario generale dell’Alleanza Atlantica, Anders Fogh Rasmussen, il messaggio dei tre leader "riflette l’unità all’interno della Nato". A chi gli ha chiesto se l’iniziativa dei tre leader prelude a un cambio della risoluzione Onu, Rasmussen ha risposto di non avere sentito alcuna richiesta di modifica e ha aggiunto che le operazioni in Libia "non vanno oltre la risoluzione delle Nazioni Unite". Non si è fatta attendere, peraltro, una nuova presa di posizione della Russia. Il ministro degli Esteri Sergej Lavrov ha detto di ritenere "urgente" una tregua in Libia e l’avvio di negoziati tra le due parti in causa. Per Lavrov in "molte occasioni" le operazioni militari della Nato sono andate oltre il mandato della risoluzione Onu 1973, la quale peraltro "non ha autorizzato il cambio di regime in Libia". Dal Palazzo di Vetro, intanto, il capo del dipartimento per il peacekeeping, Alain Leroy, ha detto ieri che l’Onu non esclude un dispiegamento di caschi blu in Libia nel caso di una tregua. "Sia chiaro che è prematuro parlarne adesso, ma se ci fosse un cessate il fuoco, esso andrebbe monitorato, e si potrebbe ricorrere ai militari delle Nazioni Unite, ha detto Leroy. Intanto anche ieri gli aerei della Nato hanno effettuato raid sia a Tripoli che a Sirte. Da parte loro le forze fedeli a Gheddafi hanno lanciato una pioggia di razzi su Misurata, contesa agli insorti, uccidendo almeno otto persone. Sarebbero almeno 120 i missili arrivati, in particolare sul quartiere di Qaser Ahmet, che già giovedì era stato oggetto di un duro attacco. Stando al New York Times, i lealisti starebbero utilizzando anche bombe a grappolo. Paolo M. Alfieri
2011-04-15 15 aprile 2011 LIBIA Obama, Cameron, Sarkozy: "Gheddafi se ne deve andare" In una nota congiunta, Barack Obama, Nicolas Sarkozy e David Cameron hanno ripetuto che le operazioni in Libia devono continuare finché Gheddafi non uscirà definitivamente di scena. La dichiarazione è stata pubblicata dal Times nel Regno Unito, dall'International Herald Tribune negli Stati Uniti, da Le Figaro in Francia e da al-Hayat nel mondo arabo. Vi si legge: "Finché Gheddafi sarà al potere, la Nato e gli alleati della coalizione devono continuare le operazioni per proteggere i civili e per fare pressione sul regime". I tre leader proseguono, nella nota, spiegando che solo dopo che Gheddafi avrà lasciato il potere potrà cominciare la transizione dal regime dittatoriale a un processo costituzionale aperto a una nuova generazione di dirigenti. "Perché questa transizione abbia esito positivo, Gheddafi deve andarsene, definitivamente. Allora, starà all'Onu e agli Stati membri aiutare il popolo della Libia a ricostruire ciò che è stato distrutto da Gheddafi, a ricostruire case e ospedali, a ristabilire servizi di base nello stesso tempo in cui i libici costruiranno le istituzioni per fondare una società aperta e prospera", continua la dichiarazione. Per Obama, Sarkozy e Cameron, non è possibile che Gheddafi resti al potere, perché "è impensabile che qualcuno che ha voluto massacrare il proprio popolo abbia un ruolo nel futuro governo della Libia, "sarebbe un inimmaginabile tradimento" nei confronti dei libici. Hanno anche ribadito che spetterà a loro decidere il futuro del Paese: "E' il popolo libico, e non le Nazioni unite, che sceglierà la sua nuova Costituzione, eleggerà i suoi nuovi dirigenti e scriverà il prossimo capitolo della sua storia. Francia, Regno Unito e Stati Uniti non smetteranno di operare secondo le risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell'Onu perché il popolo possa decidere del proprio avvenire". NUOVI RAID DELLA NATO La Nato ha lanciato tre nuovi raid aerei nelle scorse ore sulla capitale libica Tripoli e negli immediati dintorni. Lo riferisce l'emittente satellitare al-Jazeera, spiegando che gli aerei dell'alleanza hanno preso di mira,tra gli altri obiettivi, un deposito di missili. ANCORA MISSILI SU MISURATA: ALMENO OTTO MORTI Nelle utlime ore Misurata, ultima roccaforte dei ribelli in Tripolitania, è stata sottoposta a una vera e propria valanga di missili e razzi da parte delle forze fedeli al regime di Muammar Gheddafi: lo ha riferito l'emittente televisiva satellitare al-Jazira, citando fonti mediche locali, secondo cui vi sono stati almeno otto nuovi morti e sette feriti, tra cui bambini, donne e anziani. Abitanti della città libica, assediata dai governativi ormai da oltre due mesi, raggiunti telefonicamente hanno affermato che l'ennesimo attacco è scattato la notte scorsa e proseguito anche durante la mattinata: non meno di 120 i missili lanciati dai lealisti, hanno precisato. Intanto convogli dei ribelli libici dotati di cannoni e lanciarazzi si stanno spingendo oltre la città orientale di Ajdabiya per studiare il terreno di battaglia e verificare se il fronte lealista è indietreggiato dopo gli attacchi aerei lanciati ieri dalla Nato. Lo riferisce un corrispondente dell'Afp. Ai giornalisti, tuttavia, è stato impedito di seguire il movimento degli insorti e sono stati bloccati alla periferia della città libica. Le milizie ribelli, scrive il giornalista, temono che una copertura mediatica dei combattimenti possa agevolare le truppe di Gheddafi a colpire le loro posizioni. TV MOSTRA GHEDDAFI IN MACCHINA A TRIPOLI Ieri un raid Nato su Tripoli ha provocato forti esplosioni nei pressi di Bab al-Aziziya, la residenza-bunker del colonnello Muammar Gheddafi, apparso più tardi sulla tv di stato mentre era portato in trionfo su un'auto per le vie della capitale. In serata, anche la figlia Aisha è apparsa a Bab al-Aziziya e ha tenuto un discorso trasmesso in diretta.La Nato continuerà le operazioni militari in Libia fino a quando "tutte le violenze contro la popolazione civile saranno cessate". E' l'impegno assunto dai 28 alleati al Consiglio Esteri di Berlino, secondo quanto riferito dal segretario generale Anders Fogh Rasmussen. Gli insorti avevano rivolto un disperato appello, chiedendo ai Paesi Nato di intensificare gli attacchi contro le forze di Gheddafi, altrimenti a Misurata sarà "un massacro": nella città oggi almeno 23 i morti sotto i bombardamenti. Intanto un raid aereo è in corso su Tripoli. E' stata udita una forte esplosione in particolare nel settore di Bab Al Aziziya, residenza del colonnello Muammar Gheddafi. La tv di stato libica ha mostrato immagini del colonnello Muammar Gheddafi in giro per Tripoli a bordo di una macchina sportiva decappottabile. La 'passeggiata' del rais, secondo il canale televisivo, è avvenuta mentre la capitale libica veniva bombardata dalla Nato. Le immagini trasmesse dalla tv di stato mostrano Gheddafi - occhiali scuri, giacca nera e cappello da safari verde - a bordo di un Suv, seguito da un corteo di macchine. Il rais, in piedi fuori dal tettuccio della macchina, saluta la gente e alza i pugni in aria.
15 aprile 2011 LE RIVOLTE DEL PANE Cibo, prezzi alle stelle Torna la paura Sebbene il morso della crisi economica si sia allentato negli ultimi mesi, sembra che inizino a sorgere nuove difficoltà, particolarmente per il sud del mondo. L’allarme è stato lanciato ieri da Washington, in seguito all’intervento di Robert Zoellick, presidente della Banca mondiale. "Stiamo uscendo dalla crisi economica e finanziaria, ma dobbiamo affrontare nuovi rischi e nuove sfide", ha dichiarato Zoellick a proposito degli incontri con le autorità del Fondo monetario internazionale (Fmi) che si stanno tenendo in questi giorni. "La più grande emergenza economica è quella data dall’aumento dei prezzi del cibo, che da giugno ha creato 44 milioni di nuovi poveri". Il numero uno della Banca mondiale ha precisato che nel caso in cui il prezzo degli alimenti dovesse salire di un altro 10%, il numero di coloro che attualmente vivono in estrema povertà aumenterebbe di 10 milioni. Se il rialzo raggiungesse invece il 30%, diventerebbero almeno 34 milioni i più poveri del mondo. Poiché il prezzo dei prodotti alimentari cresce del 36% all’anno secondo Zoellick, parte delle popolazioni che hanno sofferto di più durante quest’ultimo periodo sembrano decise a fare di tutto pur di evitare una nuova catastrofe economica. Zoellick ha avvertito che "i poveri del mondo non possono aspettare poiché molti stanno già soffrendo e molti altri potrebbero diventare poveri per gli elevati e volatili prezzi degli alimentari. Quindi – ha continuato il presidente – dobbiamo mettere gli alimentari al primo posto, così da tutelare i poveri che spendono la maggior parte del loro reddito per mangiare". Secondo i dati della Banca mondiale, i prezzi degli alimentari si stanno avvicinando sempre di più ai picchi del 2008. "L’impennata dei prezzi degli alimentari – ha concluso Zoellick – ha peggiorato la situazione dei già 1,2 miliardi di persone che vivono in estrema povertà, ovvero con meno di 1,25 dollari al giorno". L’emergenza potrebbe portare all’apertura di nuovi fronti: violente proteste, ispirate dagli eventi in Nord Africa, si stanno facendo sentire in diversi Paesi dell’Africa sub-sahariana. Il leader dell’opposizione ugandese, Kizza Besigye, è stato arrestato e ferito lunedì scorso mentre protestava con altri mille manifestanti contro gli alti costi dei prodotti alimentari e della benzina. "La mano di ferro con cui la polizia ha sedato la folla ha attirato molta più attenzione di quanto i manifestanti si aspettassero", ha commentato Joseph Lake, analista per l’Economist intelligence unit (Eiu). Altre proteste si sono svolte in Swaziland all’inizio della settimana: "La gente non si fida più dell’attuale governo", ha affermato Mario Masuku, leader dell’opposizione arrestato per aver organizzato le manifestazioni. "La corruzione delle autorità dello Swaziland ha provocato un forte abbassamento dei nostri standard di vita". In Burkina Faso, in seguito alla recente morte di un giovane studente detenuto dalla polizia, sono rimaste uccise negli scontri quattro persone che protestavano contro le autorità. "Le lamentele sociali ed economiche sono sempre più radicate tra la gente", ha confermato l’analista Mark Schroeder, in riferimento alle proteste di marzo avvenute in Senegal contro il presidente Abdoulaye Wade, in carica da undici anni e in cerca di un terzo mandato non previsto dalla costituzione. "Sono ormai in tanti a pensare che i propri governi non daranno loro aiuto". Matteo Fraschini Koffi
15 aprile 2011 PAESI EMERGENTI I nuovi giganti lanciano la sfida ai 7 Grandi Il terzo atto della sfida delle nuove potenze dell’economia mondiale al vecchio Occidente è andato in scena all’hotel Sheraton di Sanya, sull’isola di Hainan, nell’estremo sud della Cina. È lì che il presidente cinese Hu Jintao ha ospitato i colleghi di Brasile, Russia, India e (per la prima volta) Sudafrica per il vertice dei Brics, con la novità della "s" finale che sancisce l’ingresso ufficiale della nazione africana. "Il nostro potenziale economico, la nostra influenza politica, le prospettive di sviluppo di questa nostra alleanza sono eccezionali" ha constatato il russo Dmitry Medvedev. Non esagera, l’inquilino del Cremlino: assieme, i cinque Brics producono il 18% del Pil mondiale, hanno il merito del 45% della crescita economica del pianeta e la responsabilità del 40% dei suoi abitanti. Hanno titolo per dire la loro sulla gestione dell’economia globale, un tema che, qualche ora dopo, sarebbe stato discusso a qualche migliaio di chilometri di distanza dai leader Occidentali, riuniti a Washington assieme al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale. Rispetto ai 7 Grandi (che rappresentano invece il 51% del Pil globale), i 5 Brics fanno fatica a trovare punti di contatto. In comune queste nazioni hanno solo la fortissima crescita economica e la voglia di scalfire l’egemonia occidentale sul sistema della ricchezza globale. Per il resto sono Paesi politicamente e culturalmente molto diversi, e ognuno di essi deve il suo recente successo economico a caratteristiche specifiche differenti da quelle degli altri Brics. A Sanya – che era il loro terzo appuntamento – i cinque leader sono comunque riusciti a trovare un massimo comun denominatore che permettesse loro di parlare a una voce sola. Vogliono togliere al dollaro il ruolo di perno del sistema monetario globale. "La crisi finanziaria mondiale – recita il loro comunicato finale – ha dimostrato l’inadeguatezza e i difetti dell’attuale sistema finanziario e monetario internazionale". Serve allora un "sistema internazionale di riserve valutarie che dia più certezze e maggiore stabilità". Significa che le nuove potenze non sono più disposte a riconoscere agli Stati Uniti il privilegio di avere la moneta sulla quale le altre nazioni devono basare i loro scambi. Soprattutto adesso che Washington, con l’enorme deficit pubblico che ha generato per cercare il rilancio della sua economia, ha reso il biglietto estremamente instabile, e non per un breve periodo. La critica non è nuova. Sono ormai due anni che il dollaro è sotto accusa. È nuova la strategia. I Paesi Brics hanno annunciato che inizieranno a fare operazioni tra loro nelle valute nazionali, cioè senza più passare dai dollari, così da rendersi gradualmente indipendenti dal destino della moneta americana. La China Development Bank, tanto per iniziare questo nuovo corso, presterà 10 miliardi di yuan (l’equivalente di 1,5 miliardi di dollari) alle banche degli altri quattro Paesi Brics. È l’avvio di una sorta di Fondo monetario internazionale alternativo, un’altra tappa nel trasferimento verso nuove località degli snodi della finanza internazionale. L’indebolimento del dollaro non è l’unico punto su cui le nuove potenze hanno trovato una loro unità. Tutti hanno condiviso la necessità di una "maggiore attenzione" ai flussi di capitale tra gli Stati, che rischiano di gonfiare eccessivamente le loro monete. E anche i prezzi delle materie prime – in particolare quelle alimentari e l’energia – sono finiti nel mirino comune, tanto che su questo tema la Cina conta di potere portare una posizione unitaria dei Brics al G20 di Cannes, a novembre. Pechino, infatti, si è presa di diritto tra i Brics il ruolo di guida che spetta agli Usa nel G7. Ma sembra volerlo esercitare senza fare concessioni. La brasiliana Dilma Roussef, che avrebbe voluto strappare a Hu la scomoda promessa di uno yuan più flessibile, non è riuscita nemmeno a inserire il tema nell’agenda del vertice. Pietro Saccò
2011-04-14 14 aprile 2011 RIVOLTE IN NORD AFRICA Libia, Misurata allo stremo Ribelli chiedono aiuto Nato "Fornendo armi ai ribelli di Bengasi si rischia di non far terminare la guerra, anzi di prolungarla". Lo afferma oggi mons. Giovanni Innocenzo Martinelli, vicario apostolico di Tripoli, dopo che ieri a Doha, in Qatar, il "Gruppo di contatto sulla Libia" ha deciso di istituire "un meccanismo finanziario temporaneo" per finanziare il Consiglio Nazionale di Transizione di Bengasi, mentre alcuni Paesi che hanno partecipato al vertice hanno annunciato l'intenzione di fornire l'equipaggiamento militare ai ribelli. "Abbiamo pregato per l'incontro di Doha, perchè prevalesse il dialogo nella verità senza lasciarsi prendere da tanti interessi di parte", dice mons. Martinelli all'agenzia vaticana Fides. Riferendosi poi al documento delle Chiese cristiane presenti a Tripoli inviato all'Onu il vicario apostolico commenta: "Speriamo che nel nostro piccolo possiamo far maturare il seme della riconciliazione che solo la potenza di Dio può donare". Il Vicario Apostolico di Tripoli aggiunge che, a suo parere, la crisi poteva forse essere evitata se "si fosse dato maggiore ascolto alle esigenze dei giovani, che aspirano ad un lavoro ed un futuro". "La situazione a Tripoli è abbastanza tranquilla - aggiunge il vescovo -, ieri sera ho sentito una forte esplosione che però era alquanto lontana. So di scontri in aree come quella di Iefren, dove alcune suore lavorano nell'ospedale. Ho raccolto voci su di una manifestazione di protesta che sarebbe prevista per oggi a Tripoli, ma è una notizia difficile da verificare. Tripoli sembra però sotto controllo". FRANCIA GERMANIA: SOLUZIONE POLITICA E NON MILITARE Diverse le opinioni di Francia e Germania sull'intervento militare in Libia, ma entrambe sono d'accordo nel considerare che "una soluzione duratura" nel Paese "sarà politica, non militare". Lo hanno affermato i ministri degli Esteri francese e tedesco, Alain Juppè e Guido Westerwelle, a margine del consiglio Esteri della Nato a Berlino. Per il capo della diplomazia tedesca "la Germania ha deciso di non partecipare alle azioni militari, ma è d'accordo sul fatto che la Libia ha un avvenire solo se" Gheddafi lascia il potere. "Il disaccordo - ha spiegato Westerwelle - riguarda il modo con cui perseguire questo obiettivo". "Condividiamo lo stesso obiettivo, anche se divergiamo sulla forza militare", ha poi replicato Juppè, precisando che c'è un accordo "nel ritenere che la soluzione duratura sarà politica non militare". ASHTON, L'UE VUOLE CHE GHEDDAFI SE NE VADA IMMEDIATAMENTE "La posizione dell'Ue è chiara, il colonnello Gheddafi deve ritirarsi immediatamente". Così, il capo della diplomazia europea Catherine Ashton, nel corso del vertice della Lega araba aperto oggi al Cairo, interamente dedicato alla situazione libica. I RIBELLI: "23 MORTI A MISURATA" I ribelli libici hanno lanciato un disperato appello alla Nato perchè intensifichi i raid nella zona di Misurata, dopo che un nuovo bombardamento delle forze di Muammar Gheddafi ha fatto almeno 23 morti, fra cui tre egiziani. Sull'ultima roccaforte dei rivoltosi in Tripolitania sono piovuti 80 razzi Grad di fabbricazione sovietica. "Ci sarà un massacro se la Nato non interviene con forza", ha avvertito un portavoce del Consiglio nazionale transitorio identificatosi come Abdelsalam dalla città sotto assedio da 50 giorni. L'appello è stato lanciato mentre a Berlino si apriva la riunione dei ministri degli Esteri della Nato che deve fare il punto sulle operazioni in Libia. DAL VERTICE BRIC CONDANNA ALL'USO DELLA FORZA I principali Paesi emergenti, Brasile, Cina, India, Russia e Sudafrica, si dicono contrari all'"uso della forza" per risolvere la crisi libica. In una dichiarazione congiunta da Sanya, la città dell'isola cinese delle vacanze Hainan, che ospita il vertice lampo del Brics, i Paesi emergenti si dicono "estremamente preoccupati per i disordini nelle regioni del Medio Oriente, del Nord Africa e dell'Africa occidentale e augurano che i Paesi coinvolti possano avere presto pace, stabilità, prosperità e progresso" sempre nel "rispetto delle legittime aspirazioni delle loro popolazioni". "Condividiamo il principio che l'uso della forza debba essere evitato", si legge nella cosiddetta Dichiarazione di Sanya, in cui viene espresso l'appoggio del Brics all'iniziativa dell'Unione africana per la Libia. "Sosteniamo che l'indipendenza, la sovranità, l'unità e l'integrità territoriale di ogni nazione vadano rispettate", prosegue il testo, rilanciato dall'agenzia di stampa ufficiale cinese Xinhua. Al vertice, presieduto dal leader cinese Hu Jintao, hanno partecipato la presidente del Brasile Dilma Rousseff, il russo Dmitry Medvedev, il premier indiano Manmohan Singh e il presidente sudafricano Jacob Zuma.
14 aprile 2011 IL PIANO DEGLI USA Obama: più tasse per i più ricchi Ridurre il deficit di 4mila miliardi in 12 anni attraverso una riforma della sanità per poveri e anziani, tagli alla spesa militare e un aumento delle tasse per i più ricchi. Così Barack Obama propone di riportare sotto controllo la "bestia" del deficit Usa, che viaggia attualmente al ritmo di più di 1.500 miliardi l’anno e alimenta un debito pubblico di oltre 14mila miliardi di dollari. Rispondendo al piano fiscale repubblicano con un discorso all’università privata George Washington, il presidente Usa ha assicurato di essere disposto a ridurre importanti voci di spesa. Ma non ad abbracciare la visione di un’America che non può permettersi di aggiustare le strade, di far studiare giovani svantaggiati o di assicurare una pensione minima ai suoi vecchi. Obama ha anche respinto la scelta che molti economisti hanno posto di fronte all’America. "Non dobbiamo scegliere fra un futuro in una spirale di debito e uno in cui rinunciamo ad investire nella gente e nel nostro Paese – ha affermato con forza –. Per risolvere la sfida fiscale dobbiamo fare sacrifici. Ma non sacrificare l’America nella quale crediamo". È stato un discorso politico, il primo discorso elettorale di Obama nella campagna per la sua rielezione. Invece di ribattere punto per punto al progetto fiscale presentato dal Grand Old Party, il capo della Casa Bianca ha scelto infatti di spiegare agli americani che tipo di America descrive il loro documento, a suo parere. "La loro visione consiste non nel ridurre il deficit ma nel cambiare il patto del governo con i suoi cittadini – ha detto –. Non c’è niente di serio in un piano che spende mille miliardi di dollari in tagli alle tasse per i miliardari e che chiede di sacrificarsi agli anziani, ai malati, ai bambini e ai disabili". Obama non ha perso l’opportunità di attribuire la colpa dell’attuale disastro fiscale al suo predecessore. Ha iniziato il suo intervento proprio spiegando, senza fare nomi, che, dal 2000 in avanti, "abbiamo aumentato la spesa pubblica drammaticamente con due guerre e un programma di medicine gratis che non potevamo permetterci, peggiorando le cose con migliaia di miliardi in incentivi fiscali ai più abbienti". Incentivi che, ha tuonato, "mi rifiuto di prorogare". L’approccio proposto da Obama non contiene dunque tagli a Medicare e Medicaid (sanità per poveri e over 65), Social security (pensione minima di vecchiaia) che, insieme al Pentagono, assorbono due terzi delle uscite del governo. Ma va alcuni passi più in là di quanto molti democratici sono pronti a concedere. Il presidente è disposto a riformare quei programmi rendendoli più efficienti e competitivi, e generando risparmi per 480 miliardi entro il 2023. Inoltre è aperto a continuare sulla via delle sforbiciate alla spesa discrezionale (scuole, infrastrutture, energia, ricerca, ambiente), al ritmo di 770 miliardi entro il 2023. Il resto del deficit verrà contenuto limitando le deduzioni fiscali per il 2% di americani che guadagnano più di tutti gli altri. La sua speranza è che il resto venga da un’economia in crescita a un passo maggiore di quel "moderato" che la Fed, nel suo Beige Book, ha fotografato ieri per febbraio e marzo. Ma i repubblicani hanno già promesso battaglia. Elena Molinari
13 aprile 2011 EGITTO Mubarak arrestato con i figli Peggiorano le condizioni di salute I giudici egiziani hanno stabilito che l'ex presidente Hosni Mubarak resti in custodia cautelare per 15 giorni, evitando così nuove proteste di piazza contro i generali, sospettati di voler coprire il loro ex comandante. Mubarak, costretto a lasciare la presidenza l'11 febbraio dopo le proteste di massa contro il suo governo trentennale, è ricoverato in ospedale a Sharm el-Sheikh dopo aver accusato quella che i media di stato hanno definito "una crisi cardiaca". Ma la tv satellitare al Jazeera ha reso noto che un elicottero militare è atterrato vicino al nosocomio per trasportarlo al Cairo, anche se per il momento non si hanno conferme indipendenti della notizia. Una fonte medica successivamente ha invece detto che l'ex presidente egiziano si trova ancora in ospedale a Sharm el-Sheikh e che la sua salute è "instabile". "L'ex presidente Hosni Mubarak rimane qui in ospedale e la sua salute è instabile", ha detto la fonte a Reuters. Sulle condizioni di Mubarak si sono susseguite versioni contrastanti. Secondo alcune notizie Mubarak sarebbe stato ricoverato in terapia intensiva dopo una "crisi cardiaca" durante l'interrogatorio. Secondo altre notizie, invece, Mubarak era in condizione di sostenere l'interrogatorio direttamente in ospedale, a Sharm el-Sheikh. I pubblici ministeri hanno convocato domenica l'ex presidente egiziano per interrogarlo sull'uccisione dei contestatori e sulle accuse di appropriazione indebita di fondi pubblici. I suoi due figli, Alaa e Gamal, sono stati a loro volta convocati per essere interrogati sulle accuse di corruzione e posti in custodia cautelare per 15 giorni, ha riferito la tv di stato. Mubarak, nella prima dichiarazione pubblica dopo le dimissioni, trasmessa domenica da Al Arabiya, ha respinto tutte le accuse. Una fonte della sicurezza ha detto che probabilmente Mubarak resterà per ragioni di sicurezza in carcere a Sharm el-Sheikh, dove si trova da quando ha lasciato l'Egitto. Una fonte aeroportuale di Sharm el-Sheikh, invece, ha detto che i figli hanno lasciato la città per essere condotti in una prigione del Cairo. I militari egiziani, al governo da quando Mubarak si è dimesso, hanno dovuto subire le sempre più decise pressioni da parte dei contestatori di piazza Tahrir, che chiedono che Mubarak e i suoi alleati siano processati. Ieri i soldati hanno interrotto un sit-in che durava da cinque giorni, nella piazza diventata l'epicentro delle rivolte a gennaio. Durante le proteste di massa che hanno portato alle dimissioni di Mubarak sono state uccise più di 380 persone.
13 aprile 2011 TRAGEDIA Scontri in Yemen: almeno quattro morti Nello Yemen forze rivali si sono scontrate oggi nella capitale Sanaa, causando la morte di due persone, mentre l'opposizione aspetta che i mediatori del Golfo Arabo chiariscano i tempi del trasferimento di poteri contenuto nel loro piano di mediazione. Scontri si sono verificati anche nella città portuale di Aden, nel sud del paese, quando le forze di sicurezza hanno cercato di interrompere una manifestazione di protesta contro il presidente Ali Abdullah Saleh, al potere da 32 anni, come hanno riferito testimoni. I ministri degli Esteri del Golfo Arabo hanno invitato le due fazioni che si contrappongono in Yemen a incontrarsi in Arabia Saudita per discutere del trasferimento di poteri e per porre fine a due mesi di proteste per le strade. L'opposizione inizialmente aveva rifiutato il piano del Golfo Arabo ma ieri si è incontrata con ambasciatori di Arabia Saudita, Kuwait e Oman per avere chiarimenti sui dettagli della proposta. A Sanaa, però, la tensione rimane alta vicino all'accampamento del generale Ali Mohsen, le cui forze stanno proteggendo migliaia di contestatori di Saleh che si sono accampati vicino all'Università di Sanaa. "Le forze della polizia centrale hanno ingaggiato degli scontri con le forze della prima divisione armata, e due soldati sono rimasti uccisi, mentre altri quattro sono in condizioni critiche", ha detto una fonte militare. Uno dei due morti faceva parte delle forze del generale Mohsen, mentre l'altro apparteneva alle truppe governative. Almeno una persona, poi, è stata uccisa ad Aden quando la polizia ha aperto il fuoco per fermare una manifestazione di protesta, mentre nella provincia meridionale di Lahej, dove sono attivi anche i separatisti e i militanti di al Qaeda, una persona è stata uccisa mentre tentava di impedire ad alcune persone di portare armi attraverso un checkpoint nella città di Yafie.
2011-04-12 11 aprile 2011 GUERRA CIVILE Costa D'Avorio, le forze francesi arrestano Gbagbo Le forze speciali francesi hanno arrestato oggi il presidente uscente della Costa d'Avorio Laurent Gbagbo e lo hanno consegnato ai leader dell'opposizione, dopo che i carri armati di Parigi hanno fatto irruzione nella residenza di Gbagbo. Lo ha riferito un consigliere del presidente uscente in Francia. "Gbagbo è stato arrestato dalle forze speciali francesi nella sua residenza ed è stato consegnato ai leader ribelli", ha detto a Reuters Toussaint Alain. Il presidente uscente e sua moglie Simone sono stati condotti all'Hotel del Golf, quartier generale delle forze del suo rivale Alassane Ouattara ad Abidjan. La notizia è stata confermata dall'ambasciatore di Francia, Jean-Marc Simon. Una fonte del ministero degli Esteri francese ha confermato la notizia dell'arresto di Gbagbo. Questa mattina una colonna di oltre 30 veicoli armati è avanzata verso la residenza di Gbagbo a Abidjan, ha detto a Reuters un testimone, e Alain ha fatto sapere che i veicoli sono penetrati nell'edificio. "Si tratta di forze francesi che stanno portando dentro i ribelli", ha detto Alain. "Le forze speciali francesi sono dentro la residenza". Ieri gli elicotteri delle Nazioni unite e francesi hanno attaccato il palazzo presidenziale di Gbagbo, accusato di usare armi pesanti contro civili.
2011-04-09 9 aprile 2011 RIVOLTE IN NORD AFRICA L'Egitto di nuovo in bilico La polizia spara al Cairo La polizia militare egiziana ha sparato alcuni colpi di pistola in aria stamani per disperdere un centinaio di manifestanti che si trovava ancora in piazza Tahrir, al Cairo, all'indomani della giornata "delprocesso e della purificazione". Lo riferiscono alcuni testimoni. Degli "elementi del ministero dell'Interno", sostenuti da civili, hanno sgomberato i "fuorilegge" da piazza Tahrir, ha detto l'esercito in un comunicato citato dall'agenzia di stampa ufficiale Mena. Due mesi dopo la caduta del presidente egiziano Hosni Mubarak più di 100mila persone hanno manifestato ieri per chiedere che venga processato, criticando allo stesso tempo la leadership militare che guida il Paese. Sfidando le istruzioni dei propri superiori di non manifestare in uniforme, sette luogotenenti hanno preso la parola per chiedere "il giudizio dei corrotti" e una epurazione dell'esercito. A mezzanotte, gli ufficiali dissidenti erano ancora sul posto, riuniti in una tenda e protetti da manifestanti che dicevano di voler impedire loro di essere arrestati.
9 aprile 2011 RIVOLTE IN MEDIO ORIENTE Proteste in Siria, oltre trenta vittime tra polizia e manifestanti "Non permetteremo azioni di sabotaggio che minaccino l'unità nazionale e destabilizzino le fondamenta della politica siriana". È quanto si legge in un comunicato emesso dal ministero dell'Interno di Damasco a commento delle proteste e degli scontri di ieri, in cui si torna ad accusare "gruppi armati" di aver agito come provocatori e aver sparato contro i manifestanti. Il comunicato, diffuso dall'agenzia Sana, parla di "cospiratori spinti da forze straniere che rifiutano le riforme" avviate dal presidente Bashar al-Assad. "Questa gente si è infiltrata tra i manifestanti per seminare discordia tra cittadini e forze di sicurezza - si legge ancora - Ha dato fuoco alle istituzioni pubbliche, ha attaccato i soldati e gli agenti di sicurezza che invece hanno evitato di aprire il fuoco. Questo ha causato un gran numero di morti e feriti tra i militari". Ieri, sempre tramite l'agenzia Sana, Damasco ha diffuso un comunicato in cui affermava che 19 agenti sono stati uccisi da "uomini armati" negli scontri verificatisi a Daraa, nel sud della Siria. Diversa la versione degli attivisti e dei testimoni, che parlano di una trentina di morti tra i manifestanti.
Sarebbero invece 24 i manifestanti uccisi in nelle proteste anti-governative di venerdì, secondo il capo dell'organizzazione nazionale per i diritti umani, Ammar Qurabi. "Abbiamo i nomi di 19 manifestanti uccisi a Deraa e abbiamo notizia di due morti a Homs e tre a Harasta", ha spiegato Qurabi dal Cairo, dove vive in esilio. Qurabi ha anche denunciato l'impiego da parte delle forze di sicurezza di un gas che provoca lo svenimento.
9 aprile 2011 LA CRISI NEL MAGHREB Libia, al via la mediazione dell'Unione africana Una delegazione di presidenti di Paesi africani, tra i quali il sudafricano Jacob Zuma, sarà in Libia domenica per incontrare le parti in conflitto e tentare di ottenere un cessate il fuoco. Lo ha annunciato il ministero degli Esteri sudafricano. Zuma e i colleghi di Congo, Mali, Mauritania e Uganda - che formano un 'panel' di mediatori all'interno dell'Unione africana (Ua) -, si incontrano sabato in Mauritania, prima di andare domenica in Libia per colloqui con Muammar Gheddafi e con i responsabili dell'insurrezione a Bengasi. "Il comitato ha avuto il benestare della Nato per entrare in Libia e per incontrare a Tripoli il Colonnello. La delegazione dell'Ua incontrerà inoltre il Cnt a Bengasi il 10 e l'11 aprile", si legge nel comunicato del ministero degli Esteri sudafricano. "Il punto chiave all'ordine del giorno sarà l'applicazione immediata di un cessate il fuoco dalle due parti e l'apertura di un dialogo politico", spiega il documento. La visita del gruppo di mediatori dell'Ua era prevista per il mese scorso, ma era stata annullata a causa della mancata autorizzazione a penetrare nella no fly zone decretata dai Paesi occidentali. La missione giunge dopo la condanna, martedì, da parte del presidente dell'Ua, Teodoro Obiang Nguema, degli interventi militari stranieri in Costa D'Avorio e in Libia e la riaffermazione che l'Africa deve risolvere i propri conflitti. GLI INSORTI VERSO BREGA I ribelli libici hanno detto di essersi spinti in avanti verso il porto petrolifero di Brega, città chiave nei combattimenti con le forze di Gheddafi. Secondo la loro versione, avrebbero fatto due prigionieri dopo gli scontri all'università della città. Il campus è fuori dell'area in cui si trovano le strutture del petrolio controllate dal governo, ma segna un progresso notevole da parte dei ribelli che lottano per respingere le truppe del regime. La città, nell'est del Paese, è passata sotto il controllo delle varie fazioni più di cinque volte dall'inizio della rivolta a febbraio. Le raffinerie del petrolio e il porto sono strategici per entrambe le parti. L'opposizione è tornata ad attaccare dopo il ritiro di giovedì, quando gli attacchi degli aerei della Nato hanno accidentalmente colpito un gruppo di ribelli armati. L'ITALIA E I RAID "L'Italia deciderà a metà della prossima settimana se partecipare ai bombardamenti. Lo farà dopo che avrò incontrato i ministri della Difesa di Francia e Gran Bretagna". Lo ha affermato il Ministro della Difesa Ignazio La Russa. "Il Governo esaminerà le richieste degli alleati poi, nella sua autonomia, farà una scelta anche se l'orientamento - spiega il Ministro - è quello di continuare ad appoggiare la missione senza un coinvolgimento diretto nei raid contro le truppe di Gheddafi". La Russa conferma i due pilastri, ovvero, "moderazione e prudenza, raccomandati dal Parlamento e la volontà di dare piena attuazione alla risoluzione Onu per proteggere i civili". Il Ministro della Difesa sottolinea che "lo scenario militare sul terreno è cambiato, la guerra sta rifluendo negli spazi cittadini e la mia idea è che quella tenuta dall'Italia finora, è stata una buona linea. Deciderà il Governo nella sua autonomia ma noi potremmo anche optare per modalità di protezione aggiuntive che contribuiscano a rendere sempre più efficace l'azione della coalizione a tutela della popolazione".
9 aprile 2011 TERRA SANTA SENZA PACE Nuovi raid isrealiani: 17 morti a Gaza da giovedì Nuovi raid aerei israeliani nella Striscia di Gaza hanno fatto altri quattro morti, portando a 17 il numero dei palestinesi uccisi da quando giovedì un missile anti-carro ha centrato uno scuola-bus nel sud di Israele. Nella notte un capo di Hamas e due guardie del corpo sono stati uccisi da un missile che ha centrato l'auto su cui viaggiavano nella zona di Rafah, vicino al confine con l'Egitto. All'alba un altro palestinese è morto alla periferia est di Gaza per un colpo sparato da un carro armato israeliano. In totale dal 20 marzo sono 35 i palestinesi uccisi nella Striscia di Gaza in rappresaglia alla pioggia di razzi sul sud di Israele, il bilancio più pesante dall'offensiva Piombo fuso del dicembre 2008 in cui morirono 1800 palestinesi. I feriti degli ultimi giorni sono 57, di cui 12 in modo grave. HAMAS INVOCA UNA TERZA INTIFADA Hamas ha invocato l'inizio di una terza Intifada in Cisgiordania dopo quelli che ha bollato come i "crimi di guerra" di Israele. In un comunicato dai toni minacciosi, Hamas ha accusato il governo israeliano per l'escalation che ha portato al lancio di razzi sul sud di Israele e ai durissimi raid di rappresaglia che hanno fatto decine di morti in pochi giorni. Di qui l'invito ai palestinesi della Cisgiordania, che vivono sotto l'Anp del presidente Abu Mazen, a rivoltarsi contro gli israeliani. Toni duri anche da Israele: il ministro dell'Educazione, Gideon Saar, ha avvertito che il suo Paese non tollererà più lanci di razzi dalla Striscia di Gaza e continuerà a bombardare l'enclave palestinese finchè non cesseranno: "Continueremo", ha dichiarato alla radio, non permetteremo lanci sporadici o turbative alla vita dei nostri cittadini". Hamas ha replicato che, se i raid continueranno, allargherà gli obiettivi dei suoi attacchi contro Israele. "Se l'escalation di Israele continua, nel silenzio e nella complicità della comunità internazionale, le reazioni dei gruppi della resistenza si estenderanno", ha affermato il portavoce del movimento islamico, Sami Abu Zuhri, che ha sottolineato come queste azioni si renderebbero necessarie per proteggere i civili.
2011-04-05 5 aprile 2011 LIBIA Raid alleati a Brega, gli insorti avanzano Un attacco aereo delle forze occidentali ha distrutto oggi due veicoli militari delle truppe di Gheddafi nel centro petrolifero di Brega, consentendo ai ribelli di avanzare, mentre gli sforzi diplomatici per porre fine al conflitto vivono una fase di stallo. La battaglia sul campo, che da circa una settimana era concentrata nell'area intorno a Brega, ha visto i raid delle forze occidentali cancellare il vantaggio acquisito dalle forze di Gheddafi. Né i ribelli né le potenze occidentali accetteranno l'offerta del governo libico di elezioni libere e di una nuova Costituzione, fatta salva la permanenza di Gheddafi al potere. Ma dopo una serie di rapide avanzate dei ribelli, seguite da altrettante lunghe ritirate, i rivoltosi sono riusciti quantomeno a portare le loro truppe meglio organizzate a Brega, tenendo i volontari disorganizzati lontani dal campo di battaglia. ESPORTAZIONI PETROLIFERE PER I RIBELLI I ribelli libici sperano di realizzare oggi la loro prima esportazione petrolifera, con la speranza di dare nuova linfa alle casse della Libia orientale, svuotate dalla rivolta contro Muammar Gheddafi. La petroliera Equator, che può trasportare un milione di barili di greggio, deve arrivare infatti nel porto di Marsa el Hariga, nella parte orientale del Paese, secondo quanto mostrato ieri dai dati del satellite La coalizione ribelle ha reso noto che il Qatar ha dato il via libera al commercio di petrolio dai giacimenti della Libia orientale, che non sono più sotto il controllo di Gheddafi, dopo che il piccolo stato del Golfo ha riconosciuto il consiglio rivoluzionario di Bengasi come governo legittimo del Paese. L'Italia, che pure è un importante investitore per quanto riguarda il petrolio libico, ha garantito ieri il suo appoggio ai ribelli, non escludendo di consegnare armi ai rivoltosi e invocando l'immediato addio di Gheddafi e della sua famiglia alla Libia. Una prima esportazione di petrolio, del valore di oltre 100 milioni di dollari, servirebbe al consiglio dei ribelli per pagare gli stipendi e per far crescere a livello pubblico l'immagine del consiglio come governo credibile della Libia, dopo che le forze occidentali hanno mostrato il loro appoggio con i raid aerei contro le forze di Gheddafi. TURCHIA: NESSUNA SVOLTA DIPLOMATICA Gli sforzi diplomatici per porre fine al conflitto sembrano essere ad un punto morto. Il portavoce del governo Mussa Ibrahim ha detto che la Libia è pronta per una "soluzione politica" con le potenze mondiali. "Possiamo avere qualsiasi sistema politico, sostenere qualsiasi cambiamento: costituzione, elezioni, tutto. Ma il leader (Gheddafi ndr) deve portare avanti (queste riforme)", ha detto ai giornalisti Mussa Ibrahim quando gli è stato chiesto delle trattative con gli altri paesi. Il vice-ministro degli Esteri Abdelati Obeidi ha concluso il suo viaggio tra Grecia, Turchia e Malta per fare chiarezza sulle posizioni del governo ma non c'è stata alcuna svolta. "Le posizioni di entrambe le parti sono rigide", ha detto un funzionario del ministero degli Esteri turco dopo la visita di Obeidi. "Una parte, l'opposizione, insiste che Gheddafi deve andarsene. L'altra insiste per la permanenza di Ghedadfi, per cui ancora non c'è stata alcuna svolta". Il primo ministro maltese Lawrence Gonzi ha detto all'inviato libico che Gheddafi e la sua famiglia devono abbandonare il potere. Gonzi ha anche espresso "disgusto" per quanto sta avvenendo a Misurata, accerchiata dalle forze governative. Gli sfollati da Misurata hanno descritto la città come un "inferno" e hanno detto che le truppe di Gheddafi stanno utilizzando carri armati e cecchini contro i residenti, riempiendo le strade di cadaveri e gli ospedali di feriti. Misurata, terza città della Libia, si è sollevata insieme ad altre località a metà febbraio contro Gheddafi, ma ora è circondata dalle truppe governative, dopo che la repressione violenta ha messo fine alle proteste nella maggior parte dell'ovest. Il Dipartimento di Stato Usa ha fatto sapere di aver espresso le proprie preoccupazioni ai ribelli libici in merito alla possibilità che gruppi islamici acquistino armi nella Libia orientale, dove la coalizione ribelle sta combattendo le forze di Gheddafi.
5 aprile 2011 L'INTERVISTA Il vescovo Magro: "Noi continuiamo a pregare Ma la riconciliazione sarà lenta e difficile" "I cristiani della mia diocesi erano quindicimila, poi via via si sono ridotti a meno di un terzo. Ma da quando è scoppiata l’insurrezione non so se arriviamo a trecento...". Silvestro Magro, vescovo di una diocesi che va da Sirte a Brega, a Ras Lanuf e a Tobruk, è moderatamente speranzoso. "Quando è cominciata l’insurrezione ci avevano proposto di fuggire. Ma io e miei coadiutori – siamo in sei, cinque francescani e un salesiano –, abbiamo detto no, abbiamo risposto che volevamo restare qui al nostro posto, perché il nostro primo scopo è stare vicino ai malati e ai sofferenti". La curia e la chiesa di Santa Maria Immacolata sono nel centro di Bengasi, proprio nella città vecchia, ma è difficile accorgersene: nessun segno, nessun simbolo denuncia la presenza cristiana. "Questa chiesa – dice monsignor Magro – è stata costruita nel 1872 sotto il califfato ottomano, a condizione che sulla strada non fosse visibile alcun simbolo. E così hanno preteso anche i libici. Del resto la cattedrale è stata spogliata tanti anni fa e ridotta a un magazzino". Come vi siete comportati nei giorni della guerra civile? Siamo rimasti nelle nostre case. Quando è stato possibile uscire molti fedeli sono venuti da queste parti e sono rimasti sorpresi: si aspettavano che avessimo abbandonato la chiesa e fossimo fuggiti. C’è un ospedale a Bengasi dove voi assistete gli infermi. Sì, se ne occupano cinque suore di varie congregazioni. Anche loro sono rimaste. La domenica avete ricominciato a dire Messa? Sì, ma non qui. Ci sono stati dei danni in seguito alla rivolta e al ritorno delle truppe di Gheddafi. Allora la Messa la celebriamo nella cappella dell’ospedale. Cosa dice ai suoi fedeli, monsignore? Di pregare. Per la pace e perché finisca questa stagione di violenze. Lo facciamo quasi ogni giorno, invitando le famiglie alla preghiera e al rosario. In che condizioni sono? Molti ci chiedono aiuto. Di che tipo? Prevalentemente cibo e generi di prima necessità, qualche volta anche denaro, ma è molto raro. Ci sono state vittime fra i cristiani? Per fortuna no. Avete avuto contatti con il Consiglio Nazionale di Transizione? Al momento non ancora. Ma noi siamo una piccola realtà rispetto al milione e mezzo di abitanti di Bengasi. Avete subito atti ostili? Qualche inevitabile fastidio, qualche vetro rotto nella chiesa. Ma niente di importante. Che cosa si attende dal futuro, monsignore? La ricostruzione e la riconciliazione. Ma sarà un processo lento e difficile. Ora i libici forse assaporeranno la libertà... Purché sappiano cosa farne... Giorgio Ferrari
5 aprile 2011 AFRICA Costa D'Avorio, battaglia finale Resa più vicina per Gbagbo Il presidente uscente della Costa d'Avorio, Laurent Gbagbo, "starebbe negoziando la sua resa", secondo quanto ha dichiarato a Radio France International Ally Coulibay, l'ambasciatore in Francia nominato dal suo rivale, il presidente riconosciuto dalla comunità internazionale Alassane Ouattara. Le forze leali ad Alassane Ouattara, che la comunità internazionale ritiene il vincitore legittimo delle elezioni presidenziali in Costa d'Avorio, hanno sferrato un violento attacco oggi contro il palazzo presidenziale di Abidjan, colpendo il centro del potere di Laurent Gbagbo, dopo che gli elicotteri Onu e francesi hanno lasciato le basi militari del presidente uscente in fiamme. Ad Abidjan, capitale commerciale della Costa d'Avorio, colpi d'arma da fuoco sono risuonati nelle vicinanze del palazzo presidenziale, negli scontri più violenti da quando le forze di Ouattara sono entrate in città cinque giorni fa. Un portavoce del governo di Ouattara ha detto ieri sera che le truppe hanno già preso il controllo della residenza ufficiale di Gbagbo, ma non è stato possibile verificare in maniera indipendente questa notizia. Gbagbo non ha accettato di dimettersi dopo le elezioni del 28 novembre, vinte dal rivale secondo i risultati riconosciuti dall'Onu, e da allora i morti sono più di 1.500. Gbagbo ha denunciato brogli durante il voto e ha accusato le Nazioni Unite di parzialità. Le forze di pace delle Nazioni Unite in Costa d'Avorio, supportate dall'esercito francese, hanno preso di mira ieri le capacità militari di Gbagbo con attacchi aerei, condotti con elicotteri, dopo le morti civili dei giorni scorsi. I raid aerei sono stati concentrati sulle basi militari della città, ma anche sui lanciarazzi "molto vicini" alla residenza di Gbagbo nel quartiere di Cocody, ha detto ieri sera il capo delle forze di pace Onu Alain Le Roy.
2011-04-04 4 aprile 2011 LA CRISI Libia, Frattini riconosce il Consiglio dei ribelli L'Italia riconosce il Consiglio nazionale di transizione dei ribelli libici come unico "interlocutore legittimo" e invita Muammar Gheddafi e la sua famiglia a lasciare il potere. Lo dice il ministro degli Esteri Franco Frattini durante una conferenza stampa alla Farnesina al termine dell'incontro con Ali Al Isawi, rappresentante dei ribelli libici. Frattini ha aggiunto che l'Italia non esclude di fornire armi ai ribelli. "L'Italia è pronta a fare di più di quello che ha già fatto" per risolvere la situazione in Libia, ha continuato Frattini. "Aiuteremo i feriti con l'invio di dottori e porteremo le persone che versano in gravi condizioni negli ospedali italiani. 5 dottori e 3 paramedici italiani sono stati inviati a Misurata, una delle città più duramente attaccate dalle forze del regime di Gheddafi. Gino Strada e la sua organizzazione Emergency sono già sul posto". SUL CAMPO Sono ripresi i combattimenti a Marsa el Brega, terminal petrolifero a sud di Bengasi che i ribelli libici affermano di aver già riconquistato. Almeno una persona è stata uccisa a Misurata, bombardata dalle truppe fedeli a Muammar Gheddafi. Secondo testimoni le forze governative avrebbero bombardato anche Yafran, una cittadina a circa 100 km a sudovest di Tripoli: 2 i morti e 4 i feriti. "Ci attaccano da ieri, già due persone sono morte, altre quattro ferite", hanno riferito testimoni ad Al Arabiya. La Difesa francese ha reso noto ieri in un comunicato che le proprie truppe hanno distrutto diversi blindati dell'esercito libico nella regione di Ras Lanuf. SAIF GHEDDAFI PROPONE LA TRANSIZIONE Il New York Times, citando fonti diplomatiche libiche, ha rivelato inoltre che Saif Islam Gheddafi, figlio del rais, ha proposto di prendere il comando del Paese ed aprire un processo di transizione in Libia che porti verso una nuova democrazia costituzionale, anche se "né il colonnello Gheddafi e né i ribelli sembrano pronti ad accettare la proposta". Stando a fonti riservate del Daily Mail il figlio di Gheddafi Saif al-Islam avrebbe anche cercato di mettersi in contatto con i servizi segreti di Italia e Gran Bretagna. Sono circa 160 le persone rimaste uccise nell'ultima settimana nel corso degli scontri tra insorti e lealisti. Lo riferiscono fonti mediche. Sul fronte diplomatico il vice ministro degli Esteri libico è partito alla volta di Atene per consegnare un messaggio di Gheddafi al premier greco. A riferirlo fonti ufficiali del governo greco, secondo cui Abdelati Obeidi avrebbe detto a Papandreou di volere la fine dei combattimenti. A quanto si apprende, inoltre, una "delegazione" britannica sarebbe arrivata in questi giorni a Bengasi, bastione dei ribelli nella Libia orientale. Nel frattempo arrivano due nuove defezioni all'interno del regime: l'alto diplomatico Ali Triki si è dimesso dalla carica di consigliere del colonnello Gheddafi, diventando l'ennesimo degli uomini vicini al leader libico ad abbandonare il regime; mentre testimoni hanno affermato che il vice ministro degli Esteri e degli Affari europei libico, Abdelati Laabidi, è entrato in Tunisia per il valico di frontiera di Ras Jdir.
4 aprile 2011 AFRICA Costa D'Avorio, Gbagbo non cede Il Paese nel caos, scontri e disordini "Centinaia di persone sono state massacrate" alla fine di marzo a Duekouè, nell'ovest della Costa d'Avorio, e "le violenze continuano", ha dichiarato ieri all'Afp a Parigi in una telefonata da Duekouè il direttore generale della Ong Action contre la Faim (Acf), Francois Danel. "Confermo che ci sono stati massacri di centinaia di persone a Duekouè" fra il 27 e il 29 marzo, ha precisato Danel, che si è recato ieri nella città. Ennesima giornata, quella di domenica, convulsa in Costa D'Avorio dove, seppure sempre più isolato diplomaticamente, economicamente strangolato e militarmente indebolito, il presidente uscente Laurent Gbagbo non cede al legittimo vincitore Alassane Ouattara e chiama a raccolta i fedelissimi intorno ai simboli del potere: il palazzo presidenziale e la tv di Stato. Ai soldati chiede di combattere all'ultimo sangue, ai civili di trasformarsi in "scudi umani" per difenderlo. Nessun esito hanno quindi avuto, finora, le dure prese di posizione degli Stati Uniti che, attraverso il segretario di Stato Hillary Clinton, hanno stamane ingiunto a Gbagbo di ritirarsi "immediatamente" visto che il suo irrigidimento senza dialogo sta facendo precipitare il Paese "nell'anarchia". E neppure gli appelli del segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, sono andati a buon fine, tant'è che i responsabili della missione Onu (Onuci) proprio oggi hanno deciso di trasferire il personale non essenziale da Abidjan, capitale economica del Paese, a Bouakè, seconda città per importanza e roccaforte di Ouattara, il vincitore delle elezioni dello scorso novembre, presidente riconosciuto dalla comunità internazionale. Uno spostamento "temporaneo" - è stato sottolineato - per evitare altri attacchi dopo quelli ripetuti degli ultimi giorni contro i caschi blu e gli uffici di Abidjan. Non si sono limitati agli appelli invece i francesi della 'Liocornò, l'altra missione straniera presente in Costa D'Avorio: i militari hanno oggi preso il controllo dell'aeroporto di Abidjan per permettere - ha spiegato un portavoce - agli stranieri che vogliono lasciare il Paese di andarsene con voli speciali, organizzati per sostituire quelli di linea da giorni soppressi. Circa 170 le persone che sarebbero già partite. Virulenta la reazione di Gbagbo. I francesi, ha accusato, "agiscono come una forza di occupazione al di fuori di qualsiasi mandato delle Nazioni Unite". Nello stesso momento, a Parigi il presidente Nicolas Sarkozy era in riunione con i vertici militari e politici per "fare il punto della situazione", sollecitato da Ouattara che - sul terreno militare - ha il controllo di gran parte del Paese ma non riesce a dare il 'colpo di grazià al suo avversario. E auspica, quindi, un maggiore coinvolgimento di Francia e Onu. Intanto la situazione nel Paese resta esplosiva ma anche poco verificabile sul campo. Da Abidjan i civili lamentano scarsità di materie prime e viveri, da Duekouè le centinaia di vittime denunciate da varie organizzazioni vanno dai 330 dichiarati dall'Onu agli 800 segnalati dalla Croce Rossa Internazionale. Per ora, senza colpevoli.
2011-04-02 2 aprile 2011 LA CRISI LIBICA Libia, i ribelli riprendono Brega Dieci morti in raid Nato I ribelli anti-Gheddafi affermano di aver riconquistato Marsa el Brega, il terminal petrolifero a sudest di Bengasi. La notizia non può essere attualmente verificata sul posto. Lungo la strada che porta alla città sono visibili i segni dei duri combattimenti dei giorni scorsi. Dieci ribelli libici sono rimasti uccisi in un raid aereo della coalizione alla periferia di Brega, città in cui sono in corso furiosi combattimenti con le forze di Muammar Gheddafi. Lo hanno reso noto gli stessi ribelli. I FIGLI DI GHEDDAFI TRATTANO A LONDRA Dato che le bombe e gli agenti della Cia non sembrano per ora sufficienti a spingere in esilio Muammar Gheddafi, da Londra si lavora per trasformare la defezione del ministro degli Esteri libico, Moussa Koussa, nell’inizio di un effetto domino che sgretoli il regime. Anche i figli del rais a quanto pare fanno il loro gioco: secondo il quotidiano britannico Guardian, un emissario di Saif al-Islam, terzogenito del Colonnello, avrebbe visitato la capitale britannica in gran segreto alla ricerca di una exit strategy, anche contro la volontà del padre. D’accordo con i fratelli Saadi e Mutassim, Saif avrebbe spedito a Londra Mohammed Ismail, un abile e discreto funzionario, per sondare il terreno. Una delle proposte messe sul tavolo sarebbe stata quella di costringere il padre alle dimissioni per insediare al suo posto Mutassim quale capo di un governo di unità provvisorio. Una soluzione, osserva il Guardian, che non piacerebbe né agli insorti né alla comunità internazionale. Fonti del governo britannico hanno sì confermato l’abboccamento, ma un portavoce di Downing Street ha escluso che vi siano stati "accordi", lasciando intendere che Saif al-Islam sarà trattato alla stregua di suo padre. L’"unico messaggio" trasmesso è che "i prossimi passi necessari devono essere la fine delle violenze e l’uscita di scena di Gheddafi", ha precisato il portavoce senza confermare che il libico coinvolto nei colloqui sia Mohamed Ismail. Dopo la fuga di Koussa in Gran Bretagna, Londra sarebbe peraltro in trattative con altre dieci figure di primo piano del regime libico per organizzarne la defezione, secondo quanto riferisce l’Independent. Le indiscrezioni suffragano quelle circolate giovedì a Tripoli su fughe possibili del capo dei servizi segreti esterni Omar Dudali, del segretario del Congresso del Popolo Mohammed Zwei, del ministro del Petrolio Shokriu Ghanem e del numero due di Koussa, Abdul Ai Obeidi, che avrebbe accompagnato il suo capo almeno fino a Tunisi. Tra gli uomini di punta che avrebbero abbandonato Gheddafi ci sarebbe anche l’ex ambasciatore all’Onu ed ex ministro degli Esteri Ali Abdussalam el-Treki, adesso in Egitto, mentre sarebbe fuggito in Tunisia l’ex premier Abu Zayed Dordah. Intanto Koussa viene interrogato in una località segreta e sicura di Londra (ma per l’Independent si troverebbe nel castello di Farnham, nel Surrey) da agenti dell’MI6 e diplomatici britannici. Preoccupato per lo stato mentale dell’ex ministro, definito "debole e vulnerabile", il governo lo ha circondato di personaggi a lui familiari come l’ambasciatore a Tripoli Richard Northern. Allo stato attuale Koussa viene considerato da Londra come "testimone". Stando al Daily Telegraph, l’ex ministro degli Esteri libico aveva pensato all’Italia come alternativa alla Gran Bretagna per la sua fuga dalla Libia, ma Downing Street puntò i piedi: "Non ce lo volevamo assolutamente far scappare – ha detto al quotidiano una fonte del governo di Londra – Era vitale per noi che non andasse in Italia". Il Telegraph scrive che il premier David Cameron parlò con le autorità americane per ottenere il loro appoggio affinché Koussa fuggisse in Gran Bretagna. Il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, ha risposto con un laconico "non ve lo dico" a chi ieri gli chiedeva conferme sull’ipotesi che Koussa avesse intenzione di venire in Italia. "Anche noi abbiamo le nostre iniziative" diplomatiche "altrettanto importanti". Ma "con una differenza: non le raccontiamo ai giornali", ha chiosato Frattini. Paolo M. Alfieri GHEDDAFI RIFIUTA IL CESSATE IL FUOCO I ribelli libici si dicono disposti a un cessate il fuoco. Lo ha annunciato ieri il presidente del Cnt (Consiglio nazionale transitorio), Mustafa Abdel Jalil, dopo un incontro con l’inviato speciale delle Nazioni Unite Abdelilah al-Khatib. È uno spiraglio di tregua – sebbene celi a fatica le difficoltà operative e la debolezza strategica degli insorti – che contrasta con quanto accade sul campo di battaglia, visto che si combatte accanitamente a Misurata e attorno a Brega. Ma è comunque un segnale politico e insieme un riconoscimento implicito del governo transitorio, che peraltro pone delle condizioni precise: "Che nelle città della parte occidentale del Paese – ha detto Jalil – i cittadini libici godano di piena libertà di espressione; che le forze fedeli a Muammar Gheddafi cessino di militarizzare i centri abitati della Tripolitania e che siano allontanati i mercenari". Il presidente del Cnt ha precisato poi che i rivoltosi non rinunceranno mai alla loro richiesta principale, cioè l’esilio per il Colonnello. Che però non ha alcuna intenzione di andarsene. E nemmeno di accettare una tregua: ieri in serata il regime ha respinto l’offerta di cessate il fuoco dei ribelli ribadendo che le truppe governative resteranno nelle città libiche. Restano le aspirazioni degli insorti. "Vorremmo – ha detto la portavoce del Cnt, Imman Bugaighis – che la Libia diventasse un Paese civile, con libertà di parola, rispetto dei diritti umani e rispetto delle minoranze. La chiameremo Repubblica libica e non parleremo più di Repubblica islamica. Vorremo anche avere una Costituzione, dei partiti e rispetteremo ogni accordo siglato con le organizzazioni internazionali. Non ci sono dubbi sul fatto che Gheddafi ormai è finito. Lui stesso non capisce cosa succede e anche le persone che lo hanno aiutato per questi 42 anni lo stanno abbandonando". Ma c’è anche un appello al nostro Paese: "Vorremmo che l’Italia avesse un ruolo più importante e che facesse pressione su Gheddafi chiedendogli di lasciare la Libia e di ritirare le sue truppe. L’Italia ci ha sempre dato un sostegno. Vorremo avere relazioni di lungo termine perché in futuro questo ci aiuterà a ricostruire il nostro nuovo Paese". Ma insieme al ramoscello d’ulivo Jalil mostra il volto armato della rivolta. "Abbiamo bisogno di armi – dice – per battere militarmente Gheddafi". È il parere anche di Ahmed Bani, portavoce militare dell’insurrezione. "Non possiamo confrontarci con i carri armati di Gheddafi con degli Rpg – granate che arrivano al massimo a 100 metri –: occorrono armi più potenti e precise". Bani, generale di brigata, ex pilota, ha defezionato "dopo che ho visto lanciare getti di acqua bollente sulla folla e sparare ai giovani che manifestavano. Quei giovani che voi giornalisti chiamata armata Brancaleone e dite che noi dell’esercito non sappiamo addestrare. Ma questa è una rivoluzione, non una guerra e non si possono guidare i civili in una rivoluzione". E mentre la diplomazia muove i suoi passi, la Nato si organizza e il terreno formicola della silenziosa attività dei servizi segreti di ogni nazione, si fa strada con sempre maggior nettezza un’ipotesi, che forse è semplicemente un wishful thinking, ovvero un desiderio più che una congettura, ma che qualche tragica veridicità deve pur averla: che cioè Gheddafi, che a giudizio dei più non accetterebbe mai di farsi spontaneamente da parte, possa essere messo fuori gioco fisicamente da qualcuno della sua cerchia più ristretta. Capitò a suo tempo anche a Caligola, ucciso da un pretoriano a lui vicino, perché mai escludere che possa avvenire oggi? La fine di Gheddafi del resto la invoca anche lo stesso imam di Bengasi, nel suo rovente sermone del venerdì: "Il popolo – ha tuonato sotto il plumbeo cielo della Cirenaica che ieri mattina rovesciava refoli di pioggia gelida – ha conosciuto se pure per un breve istante il sapore della libertà, e non è più disposto a fare un passo indietro". Giorgio Ferrari
1 aprile 2011 Il senso dell'intervento Urgenza di sapere Mentre gli aerei e le navi della coalizione internazionale avviavano l’azione contro le forze armate del colonnello Gheddafi, su questa prima pagina – elencando "Incognite e doveri" dell’escalation bellica che aveva avuto inizio su mandato dell’Onu – Luigi Geninazzi richiamava con forza la motivazione umanitaria e le conseguenti regole d’ingaggio di un rischioso eppure, a quel punto, inevitabile intervento militare. L’obiettivo primario e – per la nostra visione – essenziale della forza aeronavale schieratasi sul mare e nei cieli della Libia era ed è di porre fine alla guerra scatenata dal rais di Tripoli contro gran parte del suo stesso popolo, limitando al massimo le sofferenze dei libici e dei tanti lavoratori stranieri residenti in quel Paese. Ieri il comando Nato, che aveva da poche ore assunto il controllo delle operazioni militari, ha preso due decisioni assai importanti: non rifornirà di armi i ribelli anti-Gheddafi e indagherà sulla morte di alcune decine di civili, che sarebbe stata provocata dal bombardamento di un’abitazione e che il vicario apostolico di Tripoli, monsignor Martinelli, aveva reso nota con doverosa prontezza, giusta cautela e immenso dolore. Queste decisioni inducono ad altrettante riflessioni. La prima è che l’embargo sulle armi decretato contro il regime di Gheddafi non poteva che specchiarsi in un’identica misura nei confronti dei suoi avversari. Il compito assegnato dall’Onu alla coalizione internazionale scesa in campo è, infatti, di fermare una guerra civile, non di alimentarla. L’azione delle truppe ora finalmente a guida Nato (e non più, di fatto, francese) non è certamente "neutrale", ma è e sarà giusta solo se resta orientata ad agevolare l’apertura di una fase negoziale tra le parti in lotta e la fine del regime dittatoriale che da oltre quarant’anni vige in Libia. La seconda riflessione riguarda la denuncia – giunta non da sospetti portavoce di regime, ma da fonti serene e indipendenti – di un possibile e drammatico "danno collaterale" quantificabile in almeno 40 vittime totalmente innocenti di bombe o missili. Comunque sia, si tratta di "memento" terribile e potente. La missione militare internazionale anti-Gheddafi è, come abbiamo avvertito sin dal primo giorno, una missione di guerra. Produce comunque dolore e distruzione e se non difende il "bene" per cui è stata autorizzata e avviata – l’incolumità della popolazione inerme e la sua libertà dalla paura e dalla costrizione – si dimostra insensata e ingiusta. Perché si rivela incontestabilmente condotta secondo finalità diverse da quelle del mandato Onu (un edificio civile di Tripoli non è un aereo del rais e non "minaccia" i cittadini di Bengasi o di Sirte) e si converte nel suo contrario. Diventa, cioè, aggressione. Il comando Nato fa benissimo a indagare con urgenza, le autorità politiche che "comandano" il comando Nato si preparino a trarne le conseguenze e a renderne conto alle pubbliche opinioni. Interrogativi, preoccupazioni e giudizi già incalzano. Marco Tarquinio
2 aprile 2011 AFRICA IN FIAMME Costa D'Avorio, Croce rossa: 800 uccisi in una settimana Almeno 800 persone sono rimaste uccise in un unico quartiere della cittadina di Duekoue in Costa d'Avorio questa settimana, denuncia il Comitato internazionale della Croce rossa citato dalla Bbc. Una delegazione della Croce rossa ha visitato Duekoue giovedì e venerdì per raccogliere elementi su quanto sembra sia avvenuto martedì, il frutto di violenza interetnica. "Questo incidente è particolarmente scioccante per le sue dimensioni e per la brutalità degli assassini", ha dichiarato il capo della delegazione. Circa 150 preti che erano rimasti bloccati nel grande seminario di Anyama a nord di Abobo, quartiere "caldo" di Abidjan controllato da miliziani pro-Alassane Ouattara, sono stati portati in salvo da funzionari delle Nazioni Unite e condotti alla cattedrale Saint Paul di Abidjan. Lo conferma all'agenzia Misna Guillaume Ngefa, responsabile della sezioni per i diritti umani della missione delle Nazioni Unite (Onuci). "Abbiamo recuperato i religiosi e i cinque autobus che membri del cosiddetto "Comando invisibile" avevano sequestrato martedì quando si è verificato anche il rapimento di Richard Kissi, prete ivoriano e direttore diocesano di Caritas nella capitale economica". "La maggior parte dei religiosi, tra cui non solo ivoriani ma anche burundesi, congolesi e di altre nazionalità, sono stati trasferiti, mentre alcuni di loro sono rimasti per sorvegliare il grande seminario internazionale, punto di riferimento per molti abitanti della zona, e per fornire un minimo di assistenza alla popolazione locale" aggiunge, confermando che nel quartiere la situazione "è estremamente volatile". Fin dai primi scontri nei due quartieri di Anyama e Abobo (pro-Ouattara) "la gente ha abbandonato le proprie abitazioni e chiesto accoglienza presso le missioni cattoliche dove si sente più al sicuro" hanno confermato fonti della Misna sul posto, secondo cui, in queste ore, le popolazioni sono rinchiuse dentro casa, temendo gli scontri ma anche rappresaglie e saccheggi. La tensione non è mai stata così alta nella capitale economica ivoriana, Abidjan. Da mercoledì notte il palazzo presidenziale è sotto assedio, accerchiato dalle Forze repubblicane (Frci) del leader dell’opposizione Alassane Ouattara. "Sono arrivati stanotte, verso l’una e mezza – ha confermato ieri alla Misna padre Dario Dozio, provinciale della Società delle missioni africane – Abbiamo sentito pesanti cannonate che hanno fatto tremare la casa e ci siamo svegliati di soprassalto". Il presidente uscente, Laurent Gbagbo, di cui non è stata ancora resa nota l’esatta ubicazione, non sembra però voler cedere il potere. "Secondo i suoi principi, Gbagbo non se ne andrà fino alla fine – ha assicurato alla stampa Alain Toussaint, il consigliere europeo di Gbagbo intervistato ieri a Parigi – Non ha nessuna intenzione di lasciare, per questo nelle prossime ore proporrà in televisione il piano per un’opposizione armata". Per molti è invece ormai la fine della presidenza di Gbagbo, spinto dalla timida Unione Africana ad "arrendersi immediatamente". Secondo gli analisti, però, il peggio potrebbe ancora arrivare. Sono migliaia i sostenitori di Gbagbo che girano armati per la città in cerca di vendetta. "C’è il rischio che Abidjan si trasformi in un bagno di sangue – ha commentato Mahamat Amadou, giornalista dell’emittente britannica Bbc – Anche con la fuga di Gbagbo, i suoi alleati potrebbero scontrarsi con quelle frange più indisciplinate delle forze di Ouattara". Sebbene gran parte dell’apparato militare e poliziesco abbia lasciato il presidente per arruolarsi nei ranghi dell’opposizione, sono migliaia le persone che, sotto il nome di "Giovani patrioti" sembrano voler continuare la lotta di Gbagbo. Sono quindi ore d’inferno per uno dei maggiori centri dell’economia in Africa occidentale, dove da diverse ore la popolazione civile si è rinchiusa in casa temendo il peggio, e la televisione di Stato ha cessato di trasmettere notizie. Ouattara, sostenuto dalle Nazioni Unite e dalle truppe francesi, ha avviato un coprifuoco dalle nove di sera alle sei di mattina. Nonostante ciò, non mancano le vittime. Giovedì sera ad Abidjan è stata colpita da un proiettile vagante Zhara Abidi, un’operatrice svedese dell’Onu, mentre era a casa sua sul balcone. La donna è morta ieri in ospedale per le ferite riportate, aveva solo 34 anni. Le minacce da parte delle forze di Gbagbo sono state anche dirette agli espatriati, soprattutto francesi, presenti nel Paese, tanto da costringere le truppe speciali del Quai d’Orsay in missione ad Abidjan (Licorne) ad adottare misure d’emergenza. Circa 500 stranieri sono stati trasferiti in un campo militare, e molti stanno tentando l’evacuazione attraverso l’aeroporto controllato dalla Licorne e dai caschi blu. Un insegnante di nazionalità francese è invece stato ucciso nella capitale Yamoussoukro. L’hanno dichiarato delle fonti governative da Parigi senza chiarire se la morte fosse connessa alle violenze in corso. La tanto agognata vittoria dell’opposizione ivoriana potrebbe essere solo l’inizio di un periodo ancora più cupo per la Costa d’Avorio. Matteo Fraschini Koffi
2011-04-01 1 aprile 2011 LA STRAGE Afghanistan, attacco a sede Onu "Almeno venti i morti" Undici persone - fra cui otto impiegati delle Nazioni Unite di nazionalità rumena, norvegese e svedese - sono morte in un attacco contro il quartier generale dell'Onu a Mazar-i-Sharif, in Afghanistan, da parte di dimostranti che manifestavano contro il gesto provocatorio di un pastore Usa, che aveva bruciato il Corano. Come ha riferito il portavoce della polizia afghana, Lal Mohammad Ahmadzai, le altre tre vittime erano manifestanti. E due degli stranieri uccisi sono stati decapitati. L'Afghanistan aveva già condannato il gesto del predicatore evangelico Wayne Sapp in una chiesa della Florida, dove dieci giorni fa ha dato alle fiamme una copia del testo sacro della religione musulmana con la supervisione di un altro pastore, Terry Jones, che l'anno scorso aveva annunciato la stessa intenzione, salvo poi ripensarci dopo le enormi pressioni internazionali, compresa quella del presidente Usa, Barack Obama. L'attacco alla sede Onu è avvenuto al termine di una marcia di protesta guidata dai leader religiosi a Kabul. I manifestanti, al termine delle preghiere del pomeriggio, hanno anche bruciato una bandiera americana. JONES E SAPP, I PASTORI INCENDIARI Mesi fa finì tutto in una farsa di cattivo gusto. Oggi invece è tragedia. E in Afghanistan si contano i morti. Già lo scorso settembre Padre Terry Jones e il suo aiutante Wayne Sapp, questa coppia di 'pastori fai da te' dalla lontana Florida, avevano attirato l'attenzione mondiale minacciando di bruciare pubblicamente il Corano, proprio in occasione dell'11 settembre. All'epoca tutto si risolse in una barzelletta. Ora invece è tutto diverso. Dieci giorni fa, questi due assurdi campioni d'islamofobia hanno portato a termine la loro bravata. Un gesto irresponsabile, un oltraggio blasfemo, che oggi ha provocato la strage di Mazar-i-Sharif. Il mondo imparò a conoscere questa setta di esaltati l'anno scorso. La loro intenzione era di umiliare l'Islam proprio nell'anniversario dell'attentato alle Torri. Tutto il pianeta trattenne il fiato. In quei giorni si mobilitò l'Fbi. Gli Usa discussero all'infinito se Padre Jones avesse il diritto di bruciare un testo sacro. Insomma, se la sua scelta folle fosse tutelata o meno dal primo emendamento che difende la libertà d'espressione. E perfino Barack Obama pregò Padre Terry Jones di fermarsi. Inseguito da decine di telecamere, da vero attore consumato, mantenne la suspance sino alla fine. E mentre centinaia di troupes tv si piazzarono davanti alla sua chiesetta, quel giorno Padre Jones partì per New York, dove disse, sempre in diretta tv, che aveva cambiato idea. Terry Jones ha il mito di 'Braveheart'. Nel suo ufficio, al secondo piano del Dove World Outreach Center, di Gainesville, una sperduta cittadina della Florida, ha appeso il manifesto del film, vincitore di 5 Oscar nel 1995, in cui Mel Gibson interpretava la storia romanzata dell'eroe nazionale scozzese William Wallace. Una passione vera, tanto che questo 58/enne dai baffoni alla Cecco Beppe, che ha dichiarato guerra non solo a Maometto ma in passato anche a gay, trans e lesbiche, ha 'postato' su Youtube una serie di suoi video dal titolo 'The Braveheart Show'. Accanto a questo poster, alcuni dipinti di presidenti americani, George Washington, Abraham Lincoln e George W. Bush. Il centro religioso, frequentato da non più di 30 fedeli, si trova in una tranquilla cittadina di 120 mila anime, sede dell'Università della Florida. Tranquilla sino a quando padre Jones non si è messo in testa di onorare le vittime delle Torri Gemelle bruciando pubblicamente copie del Corano. Un giorno d'estate ha deciso di stendere uno striscione sulla facciata della Chiesa su cui c'è scritto: "Islam è il diavolo". E da allora, man mano che l'11 settembre s'avvicinava, la zona venne invasa da centinaia di giornalisti al bivacco. Ma quando arrivò il gran giorno, si dovettero accontentare di parlare con il figlio, non meno esaltato del padre. Terry Jones è alla guida di questa Chiesa da circa 25 anni. Da quando, a luglio, ha lanciato l'idea di organizzare l'International Burn a Koran Day, ha ricevuto almeno 100 minacce di morte. Così ha deciso di non staccarsi mai da un revolver calibro 40.
1 aprile 2011 LIBIA I ribelli pronti alla tregua "Ma Gheddafi lasci" Mentre in Libia si continua a combattere, soprattutto intorno a Misurata in Tripolitania e a Marsa el-Brega in Cirenaica, da Bengasi i ribelli hanno aperto a un cessate-il-fuoco. Tuttavia hanno fissato precise condizioni e hanno avvertito che mai rinunceranno alla richiesta di esilio per Muammar Gheddafi e la sua famiglia. Un punto, questo, su cui hanno insistito anche gli interlocutori britannici dell'intermediario del regime Mohammed Ismail, inviato segretamente a trattare a Londra da Saif al-Islam, secondogenito e virtuale delfino di Muammar Gheddafi. "Non abbiamo alcuna obiezione rispetto a un cessate-il-fuoco", ha dichiarato Mustafa Abdel Jalil, presidente del Consiglio Nazionale Transitorio che governa le aree libertae, nel corso di una conferenza stampa tenuta oggi a Bengasi insieme all'inviato speciale delle Nazioni Unite, l'ex ministro degli Esteri giordano Abdelilah al-Khatib. "A condizione però", ha puntualizzato, "che i nostri fratelli nelle città della parte occidentale del Paese godano di piena libertà di espressione". Abdel Jalil ha chiesto inoltre che le forze fedeli a Gheddafi "si ritirino e levino l'assedio" dalle località attualmente circondate; e ancora, che siano allontanati i "mercenari" di qualsiasi provenienza. "Il nostro obiettivo principale", ha dichiarato il capo del Consiglio insurrezionale ad Al-Jazirà, "è conseguire una tregua che duri nel tempo". In alternativa, peraltro, ha rinnovato la richiesta di forniture di armi: "Per sconfiggere Gheddafi ne abbiamo bisogno", ha sottolineato. Intanto le ostilità sul terreno proseguono incessatemente, al pari dei raid aerei della coalizione multinazionale sotto comando Nato, sia pure rallentati dal maltempo che rende difficile individuare i bersagli. Forse anche per tale ragione, stando a quanto denunciato da un medico locale, in un bombardamento su Zawia el-Argobe, a 15 chilometri da Brega, sono morti sette civili giovanissimi di età compresa fra i 12 e 20 anni. Gli insorti stanno d'altra parte impedendo a chiunque, giornalisti stranieri compresi, di lasciare Agedabia per raggiungere la città teatro degli scontri più violenti: non è nemmeno chiaro dove passi attualmente la linea del fronte, tanto continui e repentini ne sono i rovesciamenti. Al contempo, a deta di fonti dei rivoltosi, Misurata è stata sottoposta a uno dei martellamenti più massicci dall'inizio della crisi: i lealisti la starebbero bombardando "a casaccio", senza alcun rispetto per i civili, con un fuoco concentrico di carri armati, mortai, lancia-granate e missili. Il ministro degli Esteri di Gheddafi, Moussa Koussa, fuggito a Londra, non avrà alcun salvacondotto, ha detto il Foreign Office. E già dalla magistratura scozzese è partita una richiesta di interrogatorio: lui dietro l'attentato di Lockerbie. Da Londra primo conteggio delle vittime della guerra sul campo: mille i morti nei combattimenti t ra lealisti e insorti. Lunedì una delegazione degli insorti sarà a Roma per un incontro con il ministro Franco Frattini. LA NATO, VITTIME CIVILI? APRIAMO INCHIESTA I "raid cosiddetti umanitari hanno fatto decine di vittime tra i civili in alcuni quartieri di Tripoli". Solo mercoledì il vicario apostolico della capitale libica, Giovanni Innocenzo Martinelli, aveva lanciato l’allarme: impossibile colpire obiettivi militari senza coinvolgere anche i civili. Ieri la denuncia, a conferma di quello che forse già mercoledì per il vescovo era più che un semplice presentimento. "Ho raccolto diverse testimonianze di persone degne di fede al riguardo" precisa Martinelli. "In particolare, nel quartiere di Buslim, a causa dei bombardamenti, è crollata un’abitazione civile, provocando la morte di 40 persone. Mercoledì – continua lo stesso Martinelli – avevo riferito che i bombardamenti avevano colpito, sia pure indirettamente, alcuni ospedali. Preciso che uno di questi ospedali si trova a Misda". Una conferma dell’attacco a obiettivi civili viene pure dal sito Internet l’emittente Euronews : a Misda, a sud di Tripoli, l’esplosione di un deposito di munizioni colpito durante un raid, ha investito anche un ospedale e alcune case, provocando, secondo fonti ospedaliere, 13 feriti. "Se è vero che i bombardamenti sembrano alquanto mirati, è pur vero che colpendo obiettivi militari, che si trovano in mezzo a quartiere civili, si coinvolge anche la popolazione ", ripete ancora Martinelli. Il vicario apostolico ribadisce la sua preoccupazione per il continuo deterioramento delle condizioni di vita: "La situazione a Tripoli diventa ogni giorno più difficile. La scarsità di carburante si è aggravata, come testimoniano le code interminabili di automobili ai distributori di benzina. Sul piano militare sembra esserci un’impasse, perché anche i ribelli non sembrano avere la forza sufficiente di avanzare". Il rischio è di un isolamento della città che porterebbe a un inevitabile inasprimento della già precaria sopravivenza. "Per questo – prosegue Martinelli – la soluzione diplomatica è la strada maestra per mettere fine allo spargimento di sangue tra i libici, offrendo a Gheddafi una via di uscita dignitosa". Le parole di denuncia di Martinelli non sono passate inosservate. Il generale Charles Bouchard, comandante di tutte le operazioni dalla base militare di Napoli, ha dichiarato che l’Alleanza è consapevole delle notizie di stampa e le considera "molto seriamente". "Condurremo un’inchiesta nella catena di comando per vedere se ci sono prove", ha aggiunto Bouchard. "Noi faremo quanto possiamo per determinare se qualcosa è successo". Ad una richiesta di precisazioni, ha aggiunto il generale Bouchard: "Investigheremo per vedere se forze Nato siano state coinvolte o meno", precisando però che solo da ieri mattina alle 8 l’Alleanza Atlantica ha assunto il pieno comando delle operazioni. Vittime civili nei raid che sinora il regime non ha denunciato con particolare veemenza, anche se l’allarme sul deterioramento della situazione ieri è stato rilanciato dallo stesso colonnello Muammar Gheddafi. Se gli occidentali "continuano, il mondo entrerà in una vera e propria crociata ", ha dichiarato Gheddafi all’agenzia di Stato libica Jana. "Hanno avviato una cosa grave che non possono controllare", ha aggiunto il Colonnello e che "finirà fuori del loro controllo, quali che siano i mezzi di distruzione di cui dispongono". Luca Geronico
1 aprile 2011 Il senso dell'intervento Urgenza di sapere Mentre gli aerei e le navi della coalizione internazionale avviavano l’azione contro le forze armate del colonnello Gheddafi, su questa prima pagina – elencando "Incognite e doveri" dell’escalation bellica che aveva avuto inizio su mandato dell’Onu – Luigi Geninazzi richiamava con forza la motivazione umanitaria e le conseguenti regole d’ingaggio di un rischioso eppure, a quel punto, inevitabile intervento militare. L’obiettivo primario e – per la nostra visione – essenziale della forza aeronavale schieratasi sul mare e nei cieli della Libia era ed è di porre fine alla guerra scatenata dal rais di Tripoli contro gran parte del suo stesso popolo, limitando al massimo le sofferenze dei libici e dei tanti lavoratori stranieri residenti in quel Paese. Ieri il comando Nato, che aveva da poche ore assunto il controllo delle operazioni militari, ha preso due decisioni assai importanti: non rifornirà di armi i ribelli anti-Gheddafi e indagherà sulla morte di alcune decine di civili, che sarebbe stata provocata dal bombardamento di un’abitazione e che il vicario apostolico di Tripoli, monsignor Martinelli, aveva reso nota con doverosa prontezza, giusta cautela e immenso dolore. Queste decisioni inducono ad altrettante riflessioni. La prima è che l’embargo sulle armi decretato contro il regime di Gheddafi non poteva che specchiarsi in un’identica misura nei confronti dei suoi avversari. Il compito assegnato dall’Onu alla coalizione internazionale scesa in campo è, infatti, di fermare una guerra civile, non di alimentarla. L’azione delle truppe ora finalmente a guida Nato (e non più, di fatto, francese) non è certamente "neutrale", ma è e sarà giusta solo se resta orientata ad agevolare l’apertura di una fase negoziale tra le parti in lotta e la fine del regime dittatoriale che da oltre quarant’anni vige in Libia. La seconda riflessione riguarda la denuncia – giunta non da sospetti portavoce di regime, ma da fonti serene e indipendenti – di un possibile e drammatico "danno collaterale" quantificabile in almeno 40 vittime totalmente innocenti di bombe o missili. Comunque sia, si tratta di "memento" terribile e potente. La missione militare internazionale anti-Gheddafi è, come abbiamo avvertito sin dal primo giorno, una missione di guerra. Produce comunque dolore e distruzione e se non difende il "bene" per cui è stata autorizzata e avviata – l’incolumità della popolazione inerme e la sua libertà dalla paura e dalla costrizione – si dimostra insensata e ingiusta. Perché si rivela incontestabilmente condotta secondo finalità diverse da quelle del mandato Onu (un edificio civile di Tripoli non è un aereo del rais e non "minaccia" i cittadini di Bengasi o di Sirte) e si converte nel suo contrario. Diventa, cioè, aggressione. Il comando Nato fa benissimo a indagare con urgenza, le autorità politiche che "comandano" il comando Nato si preparino a trarne le conseguenze e a renderne conto alle pubbliche opinioni. Interrogativi, preoccupazioni e giudizi già incalzano. Marco Tarquinio
1 aprile 2011 DIETRO IL FRONTE L’ombra di al-Qaeda sui ribelli: addestratori sospetti a Bengasi Tenete bene a mente questo nome: Abdel Akim al-Hassiri. Perché da un po’ ha fatto perdere le sue tracce e sta turbando il sonno della Cia e dell’MI6 britannico. I quali sanno bene che quando uno come al Hassiri lascia l’Afghanistan è sicuramente per un buon motivo. Al Hassiri è libico d’origine. Nessuno ce ne parla, nessuno ne sa niente qui a Bengasi. Eppure – sarà una sensazione – ma una traccia, un filo esile che ci porta a lui lo abbiamo trovato in un desolato insediamento militare, appena sfiorato dalla rivolta della Cirenaica. Una volta questa caserma si chiamava "7 Aprile". A eterna memoria – macabro umorismo libico – di un eccidio di studenti che protestavano contro il regime nel 1977.
È qui, alle porte di Bengasi che i "Ligian Thaouria", ovvero i comitati rivoluzionari – i più ligi guardiani della Jamahiria, in pratica i pasdaran di Gheddafi – deportavano, chiunque fosse sospettato di non amare abbastanza il rais per metterlo nelle mani della polizia segreta, che provvedeva a torturarli e, il più delle volte, a farli sparire. Ora questa caserma è diventata un campo di addestramento per shabaab, i giovani guerrieri della rivoluzione. Visitarlo ha richiesto una procedura complicata e non priva di qualche rischio. Ma ne è valsa la pena, perché abbiamo visto qualcosa che potrebbe convalidare molti sospetti che piovono da tutte le cancellerie occidentali. La convinzione cioè che accanto a quei giovani che ricevono un sommario addestramento militare, quanto basta per usare un’arma e recarsi al fronte, si muova silenziosa ma onnipresente l’ombra di un radicalismo islamico che corrisponde perfettamente all’identikit di al-Qaeda. Il primo a parlare è Najib Alì, 50 anni, tecnico petrolifero, sei figli, due dei quali in procinto di arruolarsi anche loro. "Non sono propriamente un novellino, lo so. Arrivo qui alle 9 del mattino e ci resto fino al tramonto. Ciascuno di noi sceglie un’arma e si occuperà solo di quella. Può essere il kalashnikov o il lanciarazzi, o anche la mitragliatrice pesante. Io ho scelto il lanciarazzi". Giriamo lo sguardo. Una drappello si shabaab è accucciato a terra, un istruttore sta spiegando il funzionamento di una piccola katiusha. "È di fabbricazione coreana – spiega – modello recentissimo, del 2006, molto facile da adoperare, con una gittata che supera i 7 chilometri, ma a volte arriva anche a 9". Nell’occhio un po’ febbrile di questi giovani c’è un misto di ansia e di orgoglio. Come in quelli di Ahmed Kamis, 22 anni, studente. L’università è proprio a un isolato di distanza, ma qui nella caserma 7 Aprile è come aver cambiato mondo. "Ho visto scomparire molti giovani, molti amici. Quando sono arrivati qui i mercenari di Gheddafi avevano solo bastoni e coltelli, poi è arrivata la polizia segreta e l’esercito, e ci sono stati dei morti. La via Nasser (una delle arterie principali di Bengasi, ndr) era piena di sangue". "Abbiamo armi vecchie, Gheddafi non si fidava della Cirenaica e ci lasciava ferraglia degli anni Sessanta – spiega il colonnello Mohammed Shebi – ma qualcuna gliela abbiamo portata via, come questa bellissima contraerea: con questa nessun aereo ha più scampo". Attorno a noi ci sono almeno sei o sette gruppi di giovani che vengono ammaestrati al mestiere delle armi. Nessun occidentale nei dintorni, nessun volto europeo. In compenso l’atmosfera si fa di colpo rarefatta quando arriva un uomo inturbantato di nero, la feritoia de- gli occhi scuri che taglia l’aria, lo sguardo che sembra paralizzare le parole di ciascuno, anche degli istruttori anziani che interrompono il proprio lavoro. L’esperienza ci insegna che quelle fattezze, quel piglio, quel volto dissimulato (che potremmo tranquillamente vedere fra gli estremisti delle brigate Ezzedin al Qassam a Gaza come fra gli Hezbollah nel Sud del Libano, o fra i jihadisti nello Yemen o in Sudan) appartengono sicuramente a un militante radicale islamico. Il suo ruolo nel campo è quello di una sorta di commissario politico, la sua penetrante autorità – silenziosa quanto pervasiva – non è minimamente in discussione. La sua occhiata basta a far sorgere una sorda ostilità nei nostri confronti. Due shabaab (ma forse sono ex militari dell’esercito libico) ci stringono cor- tesemente, accompagnandoci all’uscita. Il radicale islamico è scomparso. Ma l’intelligence americana è in allarme: per quando esigua, la cellula qaedista libica conta, secondo le loro stime, almeno duecento affiliati. Quasi tutti fuoriusciti e al riparo in Afghanistan, in Pakistan, nello Yemen. "Ma ora sembra che siano tornati – dice con voluta prudenza Shamir Rezzani, ex funzionario della polizia urbana di Bengasi – anche se dubito che possano far presa su di noi. Noi siamo islamici moderati, al-Qaeda è fatta di fanatici". Vero, ma se ci accontentiamo di ciò che i nostri occhi hanno visto, ne basta uno per mettere in soggezione un’intera brigata di giovani shabaab, per irregimentarli e magari piegarli a scopi che non sono soltanto quelli di liberare il Paese dal giogo quarantennale del rais. L’abbiamo buttato là, quel nome, al-Hassiri... Non si può nemmeno raccontarlo, il lampo che per un istante ha attraversato gli occhi di ossidiana dell’uomo incamiciato di nero. Giorgio Ferrari
1 aprile 2011 AFRICA IN FIAMME Scontri in Costa D'Avorio, messi in salvo150 preti Circa 150 preti che erano rimasti bloccati nel grande seminario di Anyama a nord di Abobo, quartiere 'caldo' di Abidjan controllato da miliziani pro-Alassane Ouattara, sono stati portati in salvo da funzionari delle Nazioni Unite e condotti alla cattedrale Saint Paul di Abidjan. Lo conferma all'agenzia MISNA Guillaume Ngefa, responsabile della sezioni per i diritti umani della missione delle Nazioni Unite (Onuci). "Abbiamo recuperato i religiosi e i cinque autobus che membri del cosiddetto 'Comando invisibile' avevano sequestrato martedì quando si è verificato anche il rapimento di Richard Kissi, prete ivoriano e direttore diocesano di Caritas nella capitale economica". "La maggior parte dei religiosi, tra cui non solo ivoriani ma anche burundesi, congolesi e di altre nazionalità, sono stati trasferiti, mentre alcuni di loro sono rimasti per sorvegliare il grande seminario internazionale, punto di riferimento per molti abitanti della zona, e per fornire un minimo di assistenza alla popolazione locale" aggiunge, confermando che nel quartiere la situazione "è estremamente volatile". Fin dai primi scontri nei due quartieri di Anyama e Abobo (pro-Ouattara) "la gente ha abbandonato le proprie abitazioni e chiesto accoglienza presso le missioni cattoliche dove si sente più al sicuro" hanno confermato fonti della MISNA sul posto, secondo cui, in queste ore, le popolazioni sono rinchiuse dentro casa, temendo gli scontri ma anche rappresaglie e saccheggi.
2011-03-30 30 marzo 2011 LIBIA Controffensiva di Gheddafi I ribelli perdono Brega Non si ferma la controffensiva delle forze pro Gheddafi. Fonti vicine ai ribelli ad Ajdabiya riferiscono che i soldati del rais hanno ripreso la città di Brega, nell'est della Libia. La notizia arriva dopo che l'artiglieria delle forze lealiste ha dato il via a un attacco contro Misurata con razzi e cannoni dei carri armati. Gli insorti affermano invece di aver riconquistato il sito petrolifero di Ras Lanuf. Il governo libico ha annunciato che farà causa a qualsiasi azienda internazionale che concluderà affari con i ribelli nel settore dell'energia. Dura la posizione del presidente cinese Hu, che al presidente Sarkozy, in visita in Cina, ha detto che "se le azioni militari colpiscono popolazioni innocenti e provocano gravi crisi umanitarie, allora violano il mandato originale del Consiglio di sicurezza dell' Onu". AL ARABIYA, UGANDA DISPOSTA AD ASILO GHEDDAFI L'Uganda accoglierebbe un'eventuale richiesta di asilo da parte di Muammar Gheddafi. Lo ha riferito l'emittente Al Arabiya. RIBELLI, FINITO BLOCCO DEL PORTO È stata posta fine al blocco del porto di Misurata imposto dalle forze pro-Gheddafi, consentendo così l'arrivo di aiuti via mare e l'evacuazione di feriti. Lo ha annunciato un portavoce dei ribelli. Il portavoce, contattato per telefono, ha precisato che la fine del blocco da parte delle forze di Gheddafi - oltre all'evacuazione di feriti - consente l'arrivo di due navi di aiuti umanitari. Nel confermare che ieri i lealisti hanno ucciso 18 civili, il portavoce ha riferito che le truppe pro-Gheddafi continuano a sparare colpi di artiglieria e a ingaggiare scaramucce con i ribelli . GOVERNO, CAUSE AD AZIENDE IN AFFARI CON RIBELLI Il governo libico farà causa a qualsiasi azienda internazionale che concluderà affari con i ribelli nel settore dell'energia. Lo riferisce l'agenzia Jana. "La società nazionale per il petrolio... è l'entità autorizzata dalla legge per trattare con gli esterni. Per via dell'importanza strategica di questi beni - petrolio e gas - a livello globale, nessun Paese può lasciare la sua gestione a delle bande armate", si legge in un comunicato diffuso dall'agenzia Jana. "Lo Stato libico farà causa a chiunque concluda accordi sul petrolio con altri fuori dalla società nazionale", si precisa. HU A SARKOZY, RAID POTREBBERO VIOLARE RISOLUZIONE Gli attacchi aerei della coalizione in Libia potrebbero violare il mandato dell'Onu, secondo il presidente cinese Hu Jintao, che oggi ha ricevuto quello francese Nicolas Sarkozy. "Se le azioni militari colpiscono popolazioni innocenti e provocano gravi crisi umanitarie, allora violano il mandato originale del Consiglio di sicurezza dell' Onu", ha affermato Hu citato dalla Cctv, la tv di Stato cinese. "La storia ha dimostrato che l'uso della forza non risolve i problemi, ma che anzi non fa che complicarli", ha aggiunto Hu. Ricevendo il presidente francese, uno dei promotori della risoluzione che ha autorizzato gli attacchi aerei contro le forze di Muammar Gheddafi, Hu ha sottolineato che "sono il dialogo e gli altri mezzi pacifici a fornire la risoluzione ultima dei problemi". Il presidente cinese ha aggiunto che Pechino "appoggia gli sforzi politici per il miglioramento della situazione in Libia". Sarkozy è in Cina per partecipare a un seminario informale dei ministri economici e dei banchieri centrali del G20 sul sistema monetario internazionale che si terrà a Nanchino, nel sud del Paese. GB ESPELLE CINQUE DIPLOMATICI LIBICI La Gran Bretagna ha espulso cinque diplomatici libici dal Regno Unito. Lo ha reso noto il ministro degli esteri William Hague alla Camera dei Comuni. Hague ha detto che ieri una missione diplomatica britannica si è recata a Bengasi: era guidata da Christopher Prentice, l'ambasciatore a Roma. Tra i diplomatici esplusi c'è l'addetto militare. I cinque - ha detto Hague - potevano porre "un pericolo per la nostra sicurezza". IL FRONTE DIPLOMATICO Il sipario sulla Conferenza tenuta ieri a Londra sulla Libia è calato con lo scenario di un possibile esilio del rais di Tripoli. Ma si è cominciato anche a parlare di armare i ribelli. "La risoluzione Onu - ha detto il segretario di Stato Hillary Clinton - permetterebbe di farlo". E non lo ha escluso nemmeno il presidente americano Barack Obama il quale ha aggiunto che il cappio intorno a Gheddafi si sta stringendo e che è troppo presto per parlare di negoziati con il Colonnello. Il Regno Unito "non tratta una partenza di Muammar Gheddafi", dice il ministro degli Esteri britannico William Hague, ma "questo non impedisce ad altri di farlo": il sipario sulla Conferenza tenuta ieri a Londra sulla Libia è calato con lo scenario di un possibile esilio del rais di Tripoli. "È l'unico modo di fermare il bagno di sangue", ha detto Hamad bin Jabr al-Than, premier e ministro degli esteri del Qatar, primo Paese arabo che, dopo la Francia, ha riconosciuto i ribelli del Cnt proponendosi anche come tramite per vendere il petrolio libico e in questo modo finanziare gli sforzi dell'opposizione. In Libia le cose per gli insorti si mettono male: le forze di Gheddafi "attaccano dal mare e da terra" Misurata, ha gettato l'allarme il primo ministro David Cameron inaugurando la riunione di Londra. Cecchini del dittatore "sparano addosso agli abitanti e poi li lascia morire dissanguati in strada", ha detto Cameron mentre la Cnn parla di "carneficina". Come proteggere gli abitanti della città libica? A Londra non è stato rafforzato il dispositivo militare. E' stato costituito invece un Gruppo di Contatto sulla Libia di una ventina di paesi che si riunirà al più presto in Qatar, ma si è cominciato anche a parlare di armare i ribelli, come aveva proposto l'ambasciatore americano all'Onu Susan Rice trovando convergenza nel ministro degli esteri francese Alain Juppe. "La risoluzione Onu - ha detto il segretario di Stato Hillary Clinton - permetterebbe di farlo". E non lo ha escluso nemmeno il presidente americano Barack Obama. "È in esame ogni ipotesi", ha detto alla Nbc. Secondo i media britannici, tuttavia, non si escludono clamorose spaccature tra gli alleati su questo argomento. Il segretario generale della Nato Andres Fogh Rasmussen, ed esempio, ha detto a SkyNews che la risoluzione dell'Onu non prevede di rifornire gli insorti e che la Nato sarà in Libia "per proteggere le popolazioni, non per armarle". Al di là dei risultati di ieri, modesti sulla carta, l'obiettivo di Londra era mostrare a Gheddafi una profusione di bandiere: quasi 40 nazioni sovrane, oltre alla Lega Araba, l'Organizzazione della Conferenza Islamica, la Ue, l'Onu e la Nato che domani assumerà il comando delle operazioni militari. Una prova di coesione uniti convincere il rais che è ora di togliere le tende. Grande assente era l'Unione Africana, che fino a ieri doveva esserci: divergenze interne, come ha spiegato Juppe, oppure forse la discrezione di chi dietro le quinte sta negoziando per la partenza del rais da Tripoli? "È stato un giorno importante per la Libia", ha detto Hague: "Abbiamo allargato e approfondito la coalizione". È stata anche l'occasione per un maxi-spot del Cnt in versione giacca e cravatta. Tra i ribelli potrebbero esserci ex tirapiedi di Gheddafi e, come ha detto il comandante supremo della Nato ammraglio James Stadviris, "guizzi" di al Qaida e, per capirci di più, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia hanno annunciato l'invio di diplomatici esperti di mondo arabo a Bengasi. Ma intanto Hague ha tenuto a battesimo la nuova compagine portando il portavoce Mahmoud Jibril a incontrare la Clinton e Cameron. Si è parlato, tra l'altro di come fare fronte ai bisogni finanziari dell'opposizione, dopo che pubblicamente, in una conferenza stampa organizzata dal Foreign Office, i ribelli di sono impegnati tenere, nel dopo Gheddafi, libere elezioni. La riunione, nella scenografica Lancaster House, si è chiusa sulle note di un obiettivo comune: Gheddafi non ha più legittimità e se deve andare. "Idealmente" tutti i partecipanti di Londra, Cameron, la Clinton, perfino il Cnt, vorrebbero processarlo per crimini di guerra ma se il dittatore accettasse di levarsi di torno di suo nessuno sarebbe scontento: come ha detto oggi alla Bbc Hague, "non sta a noi decidere dove Gheddafi vuole andare in pensione". Quello di un possibile esilio Gheddafi "è uno degli argomenti di cui abbiamo parlato", ha confermato il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini precisando comunque che non gli si potrà "promettere un salvacondotto". Frattini è tornato a rilanciare di un ruolo dell'Unione africana: "Non è un segreto che possa fare da leva ma queste cose per avere successo devono essere fatte con discrezione". E Hillary Clinton ha fatto sapere che un inviato dell'Onu andrà presto a Tripoli per chiedere a Gheddafi di attuare un vero cessate il fuoco e per discutere con lui anche l'opzione dell'esilio
30 marzo 2011 DIPLOMAZIA E CONFLITTO Ecco i ribelli: i leader della rivoluzione tra ideali, petrolio, libertà A pensarci bene la chiave ce l’avevamo letteralmente sotto il naso. Bastava dar retta ai sensi e considerare quel lezzo leggero di idrocarburi aromatici che esala dalla laguna di Bengasi e di fronte al quale non c’è riparo alcuno. Bastava seguire quel filo sottile e saremmo arrivati – il praesidium del (Cnt) Consiglio Nazionale di Transizione libico non ce ne voglia – al cuore, anzi, al core business come si chiama in gergo, dell’insurrezione. Che certamente parte dal cuore profondo della nazione, (della Cirenaica senza dubbio, ma certamente il malcontento è di statura nazionale), arma i giovani di esaltata volontà di battersi, mobilita schiere di volontari che vanno a punzecchiare le armate di Gheddafi fermandosi sull’orlo del precipizio in attesa che l’assistenza aerea della coalizione occidentale faccia il suo lavoro, ma altrettanto certamente oltre alla mano sul cuore ne ha anche una sul portafoglio. E la ricchezza della Libia, lo sappiamo, è sostanzialmente una sola, il petrolio. Una qualità solforosa che vanta 46,5 miliardi di barili di riserve accertate, la più grande economia petrolifera del continente, altro che la scatola di cartone piena di sabbia come pensavano scelleratamente gli italiani all’epoca dell’impero. E non basta: "Il petrolio libico è di qualità "sweet – spiega Ahmed Zaiani, ingenere minerario della Libyan Oil Company, fino a ieri al soldo di Gheddafi ed ora prontamente al servizio del Consiglio di transizione – cioè a basso contenuto di zolfo, il che vuol dire che ha dei costi di raffinazione molto contenuti rispetto al petrolio iracheno o saudita. E quindi dei margini di guadagno molto elevati. E non stiamo parlando solo del petrolio, c’è anche il gas". Partiamo dal petrolio nel raccontare lo strano caso della rivolta libica, perché di tutte le rivolte finora conosciute, questa pare autenticamente senza leader, senza guida, senza un’ossatura che ci faccia intuire un comitato rivoluzionario o qualcosa di simile, con le sue regole, la sua ferocia, il suo integralismo. Ci sono "segnali" della presenza di membri di Al-Qaeda e di Hezbollah nelle fila dei ribelli libici – ha detto ieri l’Alto Comandante della Nato, ammiraglio James Stavridis, alla Commissione per le Forze Armate del Senato Usa – anche se i leader dell’opposizione a Ghedaffi appaiono persone "responsabili". Qui a Bengasi è tutto diverso. La sede del Consiglio è in Piazza del Tribunale, ribattezzata piazza della Rivoluzione, a ridosso del porto e di una serie di vie sonnolente, niente a che vedere con il traffico caotico del Cairo o di Beirut. Ma soprattutto, guardando questo Consiglio non possiamo non notare la teatrale diversità fra gli anziani che lo guidano e gli shabab – i volontari in armi che ogni giorno spingono la rivolta verso ovest lungo l’autostrada. "Perché i vari Abdel Jalil (il presidente del Cnt) – spiega Omar Beddawi, avvocato che si è messo a disposizione del governo provvisorio – sono un pezzo di Libia che da sempre ha fatto la fronda al governo di Tripoli, pur facendone parte come ministri o viceministri". A considerarlo nel suo insieme, il Cnt più che un governo provvisorio sembrerebbe un comitato di quartiere, capace comunque di proclamare ai microfoni di Porta a porta: "Parteciperemo allo sforzo per fermare l’immigrazione clandestina impedendo ai clandestini l’ingresso in Libia e combattendo le organizzazioni criminali che trafficano in questo settore". Per poi aggiungere, e qui torniamo al core-business cirenaico: "La Libia del dopo-Gheddafi rispetterà tutti i trattati firmati con Eni e le altre aziende". Parola di Abdel Jalil, ex ministro della Giustizia di Muhammar Gheddafi. Il quale promette elezioni libere per assicurare una transizione verso la democrazia quando Gheddafi sarà costretto a lasciare il potere. Jalil ha tutto per piacere all’Occidente. Avvocato, aspetto rassicurante, da giovane è stato attaccante della nazionale di calcio libica, non è filo-islamista, ma piuttosto molto vicino alla sensibilità occidentale e si è guadagnato la stima di Amnesty International e Right Watch per il suo dissenso nei confronti del trattamento dei prigionieri politici. Non appena Gheddafi ha cominciato a sparare sugli insorti Jalil ha abbandonato la sua poltrona, guadagnandosi una taglia di 500mila dinari (circa 290mila euro) in quanto "pericolosa spia" e in subordine 200mila dinari di ricompensa per chi invece fornirà informazioni utili alla sua cattura. In realtà Gheddafi sta tentando di venire a patti con lui. Non è un caso che abbia scelto proprio l’ex primo ministro Jadallah Azzouz Talhi per mediare con i ribelli di Bengasi, in quanto cugino di Abdel Jalil e nato sotto lo stesso tetto di famiglia a al-Baydha, in Cirenaica. Ci vorrà tempo prima che la fisionomia del Cnt sia più chiara e molti giorni per capire se avrà un futuro politico oppure l’insurrezione libica resterà un tragico capitolo nella storia del Paese. Quello che è certo è che a scatenare gli appetiti non è stata soltanto la giusta voglia di libertà e di democrazia di un popolo. Ripensiamo alla città-giardino di Ras Lanouf, da cui ieri siamo fuggiti precipitosamente di fronte al contrattacco notturno dei lealisti: un piccolo paradiso costruito a misura dei tecnici del petrolio, una faccia della Libia ignota al resto del Paese. "All’Occidente è quello che interessa", considerano a Bengasi i più disillusi. L’odore lieve dello zolfo che soffia sotto la laguna non è in grado di smentirli. Giorgio Ferrari
30 marzo 2011 MEDIO ORIENTE Siria, Assad accusa i media di cospirazione Resta lo stato di emergenza Con un discorso insolitamente breve tenuto in Parlamento, il presidente siriano Bashar Assad ha accusato le tv satellitari e altri media di avere fabbricato bugie e ha detto che la Siria supererà le cospirazioni che le vengono costruite contro. Sul discorso di Assad erano concentrate molte aspettative perché si pensava che avrebbe annunciato una serie di riforme e avrebbe revocato lo stato d'emergenza, ma il presidente siriano non ha offerto alcuna particolare concessione per placare l'ondata di dissenso diffusasi nel Paese. In particolare, il presidente non ha revocato lo stato d'emergenza nel Paese, nonostante le richieste dei dimostranti antiregime. Quello di Assad è stato il primo intervento pubblico dall'inizio delle proteste scoppiate in Siria il 15 marzo scorso. Il Parlamento e il nuovo governo si incaricheranno di attuare le riforme annunciate. Ieri il rais aveva accettato le dimissioni del governo, come primo atto concreto di timido cambiamento dopo due settimane di proteste senza precedenti contro il regime al potere da quasi mezzo secolo.
2011-03-28 28 marzo 2011 EMERGENZA SULL'ISOLA Tensione a Lampedusa, proteste anti-immigrati Alcuni pescatori stanno trainando quattro barconi usati dai migranti e sequestrati per posizionarli all'ingresso del porto di Lampedusa. Lo scopo è impedire il transito delle motovedette che soccorrono gli immigrati. Dal molo una cinquantina di donne sta incitando l'azione, invitando altri uomini alla partecipare alla protesta. Sulla banchina la tensione è altissima. Un gruppo di lampedusani, tra cui alcune donne, ha rivoltato tre cassonetti davanti il varco militare al porto, bloccando il transito e chiedendo al governo soluzioni per mettere fine all'emergenza immigrazione nell'isola. In strada sono stati gettati anche due grossi recipienti usati per contenere acqua, vasi e pietre. Alcuni dei manifestanti si sono seduti davanti al cumulo di macerie, alzando due bandiere: quella della Trinacria, simbolo della Sicilia, e quella a scacchi di Lampedusa. La polizia osserva. "Non vogliamo entrare in quarantena", urla un ragazzo. Altri invocano "lo sciopero generale". "Noi siamo il popolo di Lampedusa, lo sappiano i leghisti che ci costringono a vivere in questa situazione - dice uno dei manifestanti - Rivogliamo indietro la nostra libertà, solo questo chiediamo. Difendiamo la nostra dignità, siamo stanchi". Una coppia di coniugi di Lampedusa sostiene di essere stata aggredita e derubata nella sua abitazione da un gruppetto di immigrati tunisini che avrebbe fatto irruzione nell'appartamento dei due. A raccontarlo questa mattina durante una affollata assemblea cittadina è stato il figlio della coppia. Sembra che il padrone di casa, Luigi Salina, ex pescatore, sia stato colpito con un pugno dall'extracomunitario che poi avrebbe portato via dei preziosi. GLI SBARCHI Un barcone con circa 300 persone a bordo si trova in difficoltà a 7 miglia al largo di Lampedusa. Verso il barcone, che starebbe imbarcando acqua, si stanno dirigendo le motovedette della Capitaneria di porto. A bordo ci sono anche donne e bambini. Intanto è piena crisi a Lampedusa: circa 6.200 i tunisini arrivati negli ultimi giorni. Il governatore siciliano Raffaele Lombardo ha ottenuto dal premier Silvio Berlusconi un Consiglio dei ministri straordinario per affrontare l'emergenza. "Le tendopoli le facciano pure in Val Padana, non solo in Sicilia", ha detto Lombardo a Berlusconi in un'accorata telefonata . Oggi arrivano gli ispettori sanitari della Regione per verificare le condizioni igieniche in tutti i centri d'accoglienza ed effettuare sopralluoghi nei punti più critici. In arrivo a Linosa un barcone proveniente dalla Libia, con oltre 200 persone a bordo: verranno portate oggi in Sicilia. E un altro barcone con 300 profughi sarebbe ancora in acque libiche. Sono 1.933 i migranti arrivati nelle ultime 24 ore a Lampedusa. E' il numero più alto di arrivi da quando sono ripresi gli sbarchi. Impressionante anche il dato degli ultimi tre giorni: da venerdì sull'isola sono arrivati 3.721 migranti. Di fronte alle nuove ondate di immigrati, In Italia "ci sono ogni tanto delle posizioni, delle reazioni un po' sbrigative a livello di opinione pubblica" alle quali non bisogna indulgere. Piuttosto bisogna ricordare il nostro passato di paese numero uno in Europa per numero di emigranti e "governare" la nuova situazione che si è creata, anche se "non è semplice". ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, rispondendo a una domanda a margine della inaugurazione dello spazio espositivo "Industria Gallery" a New York. "Proprio perché c'é stata un'accelerazione, che - ha aggiunto Napolitano - nel giro di vent'anni ci ha fatto passare da una quota minima di immigrati ad una presenza pari al 7 per cento della popolazione, e quindi ci sono state delle scosse dal punto di vista sociale e psicologico, bisogna governarle". Quali sono gli elementi in comune fra quella emigrazione storica italiana e questa oggi in arrivo in Italia? "C'é la stessa ricerca talvolta disperata di lavoro e di vita decente" ha risposto Napolitano invitando a considerare che "nel frattempo è cambiato il contesto mondiale". "Oggi - ha spiegato - c'é un incrocio fra l'Italia e l'Africa che prima non c'era. E l'Italia è in Europa uno degli ultimi paesi che dopo essere stati paese di emigrazione, e l'Italia in passato è stato il numero uno, sono diventati luogo di immigrazione".
28 marzo 2011 GUERRA Libia, battaglia per Sirte Russia: raid non autorizzati Gli attacchi operati dalla coalizione occidentale contro le forze armate leali al colonnello Gheddafi costituiscono niente altro che un intervento nella guerra civile a fianco delle forze ribelli al regime libico, un'operazione che non è supportata dalla risoluzione adottata dal Consiglio di sicurezza dell'Onu. Lo ha detto il ministro degli esteri, Sergei Lavrov, nel corso di una conferenza stampa. "Consideriamo questo intervento della coalizione - ha detto Lavrov - per quello che essenzialmente è, vale a dire un intervento all'interno di una guerra civile che non è previsto dalle Nazioni Unite". La Russia, ha poi aggiunto Lavrov, chiede un'immediata verifica delle notizie che parlano di vittime civili causate dalle operazioni della coalizione occidentale in Libia. "Siamo preoccupati per le notizie di vittime tra i civili, anche se si tratta di notizie che non è possibile confermare al momento; chiediamo, tuttavia, che siano verificate". BATTAGLIA PER SIRTE. LA NATO ASSUME IL COMANDO L'avanzata dei ribelli libici è stata fermata questa mattina dalle forze pro-Gheddafi all'uscita da Ben Jawad, situata a 140 chilometri dalla città di Sirte. I ribelli hanno preso ieri il controllo di Ben Jawad, dopo aver conquistato il sito petrolifero di Ras Lanuf, aiutati anche dai raid aerei della coalizione internazionale. Ma questa mattina sono stati fermati dalle forze leali al colonnello Gheddafi, che erano a bordo di pick-up, sulla strada che conduce da Ben Jawad a Nofilia, in direzione di Sirte. Gli insorti sono quindi confluiti verso Ben Jawad prima di rispondere con l'artiglieria pesante. Lo scambio di fuoco è durato fino a mattina inoltrata. Sirte rimane il prossimo obiettivo dei ribelli. Un altro giornalista della France Presse ha constatato che la città è sempre in mano alle forze leali al colonnello Gheddafi. E sarà la Nato a difendere i civili e le aree popolate della Libia dalle minacce di attacchi delle forze del colonnello. I 28 alleati hanno approvato ieri sera i piani per assumere il comando di tutte le operazioni in Libia: l'operazione 'Odissea all'alba' diventa 'Protezione unificata'. Il generale canadese Charles Bouchard, che guiderà da Napoli le forze impegnate nella missione, incontra oggi la stampa nella base napoletana dell'Alleanza. Atteso negli Stati Uniti il discorso tv di Barack Obama sull'intervento in Libia.
28 marzo 2011 TENSIONI Siria, carri armati circondano Daraa La polizia spara sui manifestanti Carri armati dell'esercito siriano hanno circondato Daraa, capoluogo della regione meridionale e teatro da dieci giorni di accese proteste anti-regime. Lo riferiscono testimoni oculari citati dalla tv panaraba Al Arabiya. Le forze di sicurezza siriane hanno aperto il fuoco su centinaia di dimostranti che protestavano contro le leggi di emergenza nella città meridionale di Daraa. Lo affermano testimoni. Secondo testimoni citati anche dalla tv panaraba al Jazira, centinaia di residenti di Daraa, capoluogo della regione meridionale epicentro delle proteste anti-regime iniziate due settimane fa, sono tornati oggi in strada, scandendo slogan contro il partito Baath. Da dodici giorni scosso da proteste interne senza precedenti, il regime siriano torna a promettere la fine dello stato di emergenza in vigore da quasi mezzo secolo, ma intanto è costretto a mantenere schierato l'esercito a Latakia, porto della regione nord-occidentale da cui proviene la famiglia presidenziale, mentre non si placano le proteste dei residenti della città meridionale di Daraa. In attesa del più volte annunciato discorso alla nazione del rais Bashar al-Assad, il suo consigliere presidenziale Buthayna Shaaban è riapparsa sugli schermi delle tv panarabe per assicurare che la direzione del Baath, al potere da 48 anni, ha deciso di abrogare la legge d'emergenza, in vigore dall'avvento dello stesso partito "arabo socialista".Da dodici giorni scosso da proteste interne senza precedenti, il regime siriano torna a promettere la fine dello stato di emergenza in vigore da quasi mezzo secolo, ma intanto è costretto a mantenere schierato l'esercito a Latakia, porto della regione nord-occidentale da cui proviene la famiglia presidenziale, mentre non si placano le proteste dei residenti della città meridionale di Daraa. In attesa del più volte annunciato discorso alla nazione del rais Bashar al-Assad, il suo consigliere presidenziale Buthayna Shaaban è riapparsa domenica sugli schermi delle tv panarabe per assicurare che la direzione del Baath, al potere da 48 anni, ha deciso di abrogare la legge d'emergenza, in vigore dall'avvento dello stesso partito "arabo socialista". La decisione - hanno però affermato "fonti ufficiali" - sarà formalizzata dopo l'approvazione della "legge anti-terrorismo". Altre non meglio precisate fonti ufficiali siriane hanno assicurato che "martedì prossimo" 29 marzo il governo siriano si dimetterà, e che "entro la settimana", ovvero entro il primo aprile, "sarà annunciata una nuova legge sulla stampa e un'altra sui partiti". Quest'ultima dovrebbe preparare la strada al tanto atteso emendamento dell'articolo n.8 della Costituzione, che dal 1973 affida al Baath il ruolo "di guida del Paese e della società". Su Internet attivisti e dissidenti hanno intanto convocato nuove manifestazioni di protesta: a Damasco, il raduno anti-regime è indetto nella centrale Grande Moschea degli Omayyadi, teatro il 18 e il 25 marzo scorso delle prime manifestazioni esplicite di dissenso, sopraffatte per numero da cortei di lealisti. Il ministro degli interni domenica è intervenuto di persona sulla tv di Stato e tramite l'invio di SMS "ai cittadini", invitandoli a non partecipare ai raduni, definendo "menzogneri" e "tendenziosi" gli appelli e i volantini. Secondo organizzazioni umanitarie internazionali e locali dall'inizio delle proteste sono morte oltre 120 persone, per lo più a Daraa, capoluogo della regione meridionale epicentro della dura repressione, e della vicina Samnayn, ma anche a Latakia (6 morti accertati), Damasco (3 ) e Homs (2). Il governo continua ad attribuire a "bande armate" le violenze di questi giorni. Dopo aver accusato "parti straniere" di aver armato e istigato i "gruppi di sabotatori" a Daraa e Samnayn, i media ufficiali affermano che ignoti uomini armati hanno ucciso ieri a Latakia 12 persone, dieci dei quali agenti di polizia. L'agenzia di notizie Sana aveva diffuso da sabato sera la notizia dell'arresto di un americano, di origini egiziane, accusato di avere legami con Israele e di esser coinvolto negli scontri. In serata, sempre il consigliere Shaaban ha puntato esplicitamente il dito contro "fondamentalisti", confermando l'arresto nelle ultime ore di un numero di "stranieri". Secondo testimoni oculari di Latakia citati da Human Rights Watch, gli ignoti cecchini che ieri avrebbero ucciso "almeno sei manifestanti" sarebbero membri della Guardia presidenziale, la forza d'elite comandata da Maher al-Assad, fratello del presidente. Nella città portuale mista sunnita e alawita, abitata anche da cristiani, stazionano da 24 ore i blindati dell'esercito siriano, giunto in soccorso ieri sera delle forze di sicurezza. E all'esercito era stato affidato da giorni anche il controllo degli ingressi ai villaggi meridionali attorno a Daraa, diventato ormai il luogo simbolo della rivolta. Nella città meridionale anche domenica, in occasione di tre diversi funerali di "martiri" uccisi dalle forze di sicurezza (in tutto solo a Daraa sarebbero 60 i morti civili), folle di residenti sunniti hanno scandito lo slogan ormai non più tabù contro il potere centrale: "Il popolo vuole la caduta del regime!". E all'indomani della scarcerazione di 260 prigionieri politici, per lo più islamici, stamani in segno di distensione verso la rivolta del sud il governo ha rimesso in libertà un'attivista originaria di Daraa. Diana Jawabira è tornata libera assieme ad altri 15 dissidenti che erano finiti in carcere lo scorso 16 marzo durante il sit-in nei pressi del ministero degli Interni. Una dozzina di loro compagni rimangono però dietro le sbarre, in forza proprio della legge d'emergenza.
2011-03-27 26 marzo 2011 OPERAZIONE "ALBA DELL'ODISSEA" Libia, i ribelli avanzano con l'aiuto dei raid La città libica di Ajdabiya è caduta sabato mattina nelle mani degli insorti. La città ha risuonato dei clacson delle milizie, che festeggiavano il successo militare. Un portavoce degli insorti a Bengasi, roccaforte dell'opposizione nella Libia orientale, ha detto che le forze fedeli a Gheddafi sono fuggite da Ajdabiya, incalzate dagli antigovernativi sulla strada per Brega, 75 chilometri più ad ovest.
Le forze fedeli a Muammar Gheddafi hanno effettuato una "ritirata tattica" da Ajdabiyia, dove le forze ribelli avanzano "solo grazie ai raid occidentali". Lo ha affermato il viceministro degli Esteri libico, Khaled Kaaim. "È solo una ritirata, le nostre forze torneranno a Ajdabiya", ha sottolineato Kaaim in conferenza stampa. Le forze dei ribelli libici hanno offerto "la resa ai soldati di Muammar Gheddafi", ma questi si sono rifiutati e sono stati attaccati. Lo ha detto un portavoce dei ribelli, il colonnello Ahmed Omar Bani. La missione in Libia "sta avendo successo". "Una catastrofe umanitaria è stata evitata e le vite di civili, innocenti uomini, donne e bambini, sono state salvate". Lo ha detto il presidente americano Barack Obama nel discorso settimanale alla nazione, sottolineando che gli "americani devono essere orgogliosi delle vite salvate in Libia e dell'operato dei nostri uomini e delle nostre donne in uniforme che ancora una volta hanno dimostrato di difendere i nostri interessi e i nostri idealI.
"GIA' 8 MILA I MORTI NELLA RIVOLTA" Bombardamenti di notte, combattimenti di giorno. Tutto potrebbe decidersi ad Ajdabiya, città strategica perché ultimo presidio degli insorti prima di Bengasi. Se cade Adjabiya, i 160 chilometri che la separano dalla "capitale della rivolta" potrebbero essere consumati in un soffio dalle truppe di Gheddafi. Da più di una settimana la città è terreno di scontro, teatro di un continuo alternarsi di avanzate e ritirate, dell’una e dell’altra parte. I governativi restano ammassati alla porta occidentale. I ribelli controllano i quartieri più orientali. All’interno, la popolazione, intrappolata in una situazione critica: è sempre più complicato trovare cibo, acqua, elettricità. Quel che accade è difficile da capire, impossibile da verificare. La propaganda – quella di regime, quella degli insorti – amplifica e distorce i dati di fatto. Persino, o forse soprattutto, il bilancio delle persone uccise – a causa dei bombardamenti alleati o dell’offensiva di terra del Colonnello – è "strumento" di guerra. Le ultime cifre sono state dichiarate ieri da un portavoce del Consiglio nazionale transitorio (Cnt), l’organo politico degli oppositori: ha parlato di "otto-diecimila morti dall’inizio della rivolta", il 17 febbraio. "Ma temiano che il bilancio possa essere molto più grave", ha aggiunto. In effetti, non si sa nemmeno quante siano le vittime degli scontri di questi giorni Ad Ajdabiya. Nella città, i ribelli, nonostante un equipaggiamento insufficiente e poco o zero addestramento, riescono a "tenere". Quantomeno a "tenere" le truppe del rais – che ieri ha promosso in massa tutti i soldati e gli ufficiali dell’esercito per "incentivarne" l’azione – ferme sulle loro posizioni a ovest della città. Questo anche grazie ai raid della coalizione, che hanno bombardato per tutta la notte i tank dei governativi, indebolendo la loro stretta. Un portavoce del Cnt ha fatto sapere che Ajdabiya potrebbe essere presto "liberata". Ma la situazione è estremamente instabile. I ribelli hanno radunato quanti più uomini possibili a difendere la città. E in tarda serata sono riusciti a consolidare le posizioni nella parte orientale. Fonti dell’opposizione hanno anche detto che molti miliziani del rais sarebbero stati catturati. Al-Jazeera ha parlato infine di una "mediazione" in corso per la resa delle brigate di Gheddafi ad Ajdabiya, ma la notizia non ha trovate conferme. Mentre una secca smentita è arrivata da Bengasi all’ipotesi di un negoziato con il rais. Il Cnt – che ieri ha, tra le altre cose, incassato l’apprezzamento dell’ambasciatore americano inviato in Libia, Gene Cretz, che ha elogiato la visione dei diritti umani e delle donne contenuta in un documento degli insorti – ha bocciato senza mezzi termini l’ipotesi di accogliere una delegazione che il Colonnello avrebbe inviato in città per "negoziare la pace". "Non esiste nulla di simile, non crediamo al doppio gioco di Gheddafi, che finora ci ha mandato solo armi e distruzione", ha spiegato un portavoce ufficiale. Le notizie arrivate da Zawia, la città a una quarantina di chilometri da Tripoli (ovest del Paese) riconquistata pochi giorni fa dalle truppe governative, confermano e rafforzano la decisione. Ribelli a Zawia e residenti che ne sono fuggiti hanno infatti reso testimonianze concordanti su continui pestaggi, rapimenti e sparizioni messi in atto dai miliziani del rais. "Sequestrano i giovani, chiunque abbia meno di 50 anni. Tutti vengono portati via: migliaia di abitanti sono scomparsi in questo modo", ha denunciato un portavoce degli oppositori che vive a Zawia. Sempre nell’Ovest della Libia, resta delicata la situazione a Misurata. Dopo dopo la sanguinosa battaglia di mercoledì, sembra che gli insorti siano riusciti a prendere il controllo della città. Ma le truppe di Gheddafi continuano a mantenere l’assedio dall’esterno e, soprattutto, nel centro sono sempre in azione centinaia di cecchini. Ieri, comunque, alcune organizzazioni umanitarie sono riuscite a consegnare i primi aiuti alla popolazione. Barbara Uglietti
26 marzo 2011 PROFUGHI Immigrazione, via ai soccorsi per barcone partito dalla Libia Due motovedette della Guardia Costiera hanno lasciato il porto di Lampedusa per soccorrere il barcone con circa 350 migranti, partito due giorni fa dalle coste libiche e che si trova a una sessantina di miglia dalla costa. Un elicottero EH101 della Marina militare è intervenuto per prestare soccorso a una donna che oggi ha partorito a bordo. Madre padre e figlio sono stati portati a Lampedusa, mentre l'imbarcazione è diretta verso Linosa. Partita due giorni fa dalla Libia con 350 migranti, tra cui 200 donne, l'imbarcazione ieri sera aveva lanciato l'Sos con una telefonata a Don Mosè Zerai, presidente dell'agenzia Habeshia che si occupa di assistenza a rifugiati e richiedenti asilo. I profughi avevano segnalato di avere il motore in avaria e di imbarcare acqua, dopo essere stati soccorsi da una unità della Nato impegnata nelle operazioni legate alla missione "Odissey Dawn". Secondo quanto riferito dagli immigrati l'equipaggio della nave, battente bandiera canadese, li avrebbe abbandonati dopo il loro rifiuto a essere trasferiti in Tunisia. Una versione smentita dal Comando Marittimo Nato di Napoli (Allied Maritime Command Naples). "La nave della Nato - ha detto all' ANSA un portavoce del Comando marittimo - ha soccorso una imbarcazione con il motore in avaria. A bordo c' erano circa 150 persone. Il personale della nave Nato è salito a bordo dell' imbarcazione per due volte per accertare l' eventuale presenza di persone in pericolo di vita o di emergenze sanitarie. A bordo è stato constatato che non vi era nessuna emergenza. Il motore dell'imbarcazione è stato rimesso in funzione e l' imbarcazione rifornita di benzina. È stato anche accertato che a bordo vi erano viveri sufficienti per proseguire la navigazione".
26 marzo 2011 La guerra d’interesse in Libia e il ruolo delle nazioni I punti oscuri della crisi Dinanzi alla crisi libica un fatto appare evidente: su quello che sta realmente accadendo non sappiamo molto. Alcune fonti sono di parte, altre sono necessariamente approssimative. In mancanza di informazioni sicure, può essere utile elencare un paio di punti oscuri. Prima di tutto i ribelli. Chi sono? La vulgata dei primi giorni tendeva ad accomunarli ai manifestanti tunisini ed egiziani. Con il passare del tempo è diventato più chiaro che ci siamo coinvolti in una guerra civile: Cirenaica contro Tripolitania (le due regioni storiche della Libia), divise secondo lealtà di tipo tribale. Ciò non toglie che gli insorti vogliano rompere con una dittatura soffocante e reclamino maggiori libertà, ma suggerisce un quadro un po’ più complesso di "giovani che chiedono la democrazia". La Libia, a differenza di Egitto o Tunisia, non è uno Stato-Nazione. Non ha un passato comune di lunga data. Non ci sono partiti politici significativi, l’esercito, a differenza dei Paesi confinanti, vede una forte presenza di mercenari e l’islam stesso era finora veicolato dall’interpretazione di Gheddafi (fatta salva la presenza clandestina degli islamici militanti, non estranei alla rivolta). Da ultimo, non è chiara neppure la reale consistenza numerica degli insorti. Tanto poco si conoscono i ribelli quanto bene il colonnello Gheddafi. Negli anni scorsi gli si perdonava tutto. Ora si è deciso di presentargli il conto. O meglio, lo ha deciso la Francia, la Gran Bretagna ha acconsentito, gli Stati Uniti hanno lasciato fare, la Germania si è astenuta, l’Italia ha pensato che era un male minore stare dentro piuttosto che stare fuori e la Lega araba ha cercato di mediare tra posizioni contrastanti al suo interno, salvo poi esprimere il proprio stupore (e quello turco) di fronte al fatto che la no-fly zone venisse imposta con l’uso della forza e non con un grazioso schiocco di dita. Conciliare le varie posizioni ha richiesto tempo e così si sono lasciati affondare i ribelli per poi lanciare con grande precipitazione un intervento militare dai contorni mal definiti. Ufficialmente lo scopo è evitare violenze di Gheddafi su "civili e aree popolati da civili minacciate di attacco nella Jamahiriyya araba libica, Bengasi inclusa". L’unico punto chiaro nella formulazione Onu è la protezione di Bengasi, che è già stata raggiunta. Da lì ci si può allargare al resto della Cirenaica in mano ai ribelli, obiettivo in corso di raggiungimento. Il testo però si presta anche a un’interpretazione più ampia in cui le aree minacciate di attacco vengono a coincidere con l’intera Libia. In altre parole, l’obiettivo diventa la cacciata di Gheddafi. L’esperienza della Serbia dice che difficilmente si riesce a rovesciare un regime con una serie di raid aerei mirati. Come è già stato ampiamente ricordato, l’Iraq mostra che cosa significa intervenire sul terreno. A decidere l’interpretazione della risoluzione Onu sarà perciò la reale consistenza militare dei ribelli, sempre più armati e riforniti. Se avanzano, si parlerà di guerra per la democrazia. Se non progrediscono, sarà una guerra umanitaria. Una guerra e basta, una guerra d’interesse, sembra brutta al giorno d’oggi. Che diversi Paesi europei, prima fra tutti la Francia, cercassero un maggiore spazio economico in Libia è cosa risaputa. Per Parigi c’era anche da riscattare la pessima gestione della rivoluzione tunisina e probabilmente si è pensato di approfittare dei movimenti che percorrono il mondo arabo per regolare la faccenda. Ma Gheddafi si è dimostrato più radicato sul terreno di quanto si pensava. Il gioco è diventato pericoloso, Francia e Gran Bretagna hanno scelto di giocarlo lo stesso e gli altri hanno seguito. I risultati finora sono confusione negli obiettivi, spregiudicatezza nei mezzi, valutazioni strategiche errate e l’inevitabile coinvolgimento di civili, mentre si fa finta di non pensare all’intervento terrestre. Non sono buone premesse e renderanno un po’ più sospette le prossime dichiarazioni di appoggio ai movimenti democratici nei Paesi arabi. Martino Diez - Direttore della Fondazione Oasis
26 marzo 2011 GUERRA Libia, Azione Cattolica: subito il cessate il fuoco L'Azione Cattolica auspica che "l'intervento internazionale in terra libica riesca nell'obiettivo immediato di far cessare il fuoco e impedire al regime libico atrocità contro la popolazione". "È necessario - afferma però in una nota - che tale intervento sia depurato da motivazioni di ordine esclusivamente economico-commerciale, e che le azioni militari, sempre foriere di povertà e sofferenza per l'inerme popolazione civile, siano subordinate all'iniziativa diplomatica e politica delle Nazioni Unite". Secondo l'associazione ecclesiale, non deve cioè essere lasciato cadere nel vuoto l'appello di Benedetto XVI, per il quale si devono avere a cuore "anzitutto l'incolumità e la sicurezza dei cittadini" e "l'accesso ai soccorsi umanitari". "I responsabili - si legge nel testo - siano soprattutto operatori di giustizia e di solidarietà, vicini al popolo libico che soffre e spera". "Chiediamo - conclude infine l'Azione Cattolica - che un'autentica unione d'intenti in sede internazionale, unita al pieno riconoscimento della libertà del popolo libico, sia la strada maestra per una soluzione democratica e positiva per il futuro del paese".
25 marzo 2011 L'ONDA LUNGA DEL MAGHREB "In Siria 150 vittime" La Ue: stop alla violenza Più di 150 persone sarebbero state uccise nel sud della Siria in sette giorni di repressione da parte delle forze di sicurezza: lo hanno affermato alla tv panaraba al Jazira fonti mediche di Daraa, epicentro delle rivolte anti-regime. Il dato non è confermato. Il presidente Bashar Assad ha fatto ritirare polizia ed esercito dal centro di Daraa nel tentativo di riappacificare la situazione con i manifestanti. Ma centinaia di giovani sono di nuovo scesi in piazza; nel sobborgo di Tafas, durante i funerali di un manifestante ucciso venerdì, i dimostranti hanno preso d'assalto e dato alle fiamme un edificio del partito Baath e una stazione di polizia. La polizia ha usato i lacrimogeni per disperdere la folla. Manifestazioni anche a Homs, 180 km a nord di Damasco, e a Latakia, principale porto a nord-ovest di Damasco e capoluogo della regione alawita a cui appartiene il clan degli Assad al potere da quarant'anni. Qui la folla è scesa in strada durante i funerali di due giovani uccisi venerdì. Numerosi video presenti su Youtube e sugli altri social network mostrano "l'uccisione a Latakia" di un numero imprecisato di persone; si parla di due vittime. L'agenzia ufficiale siriana Sana conferma la presenza di cecchini sui tetti di alcuni palazzi della città costiera, che hanno aperto il fuoco contro la gente, cittadini e forze di sicurezza. Giovedì il regime di Assad aveva annunciato una serie di riforme per "promuovere la libertà" in Siria, ma i dimostranti hanno dichiarato che continueranno a protestare fino a quando le loro richieste non saranno soddisfatte. Sabato sono state convocate in Rete "rivolte popolari" antigovernative: un gruppo Facebook, nato a supporto dei rivoltosi e che conta già 86 mila fan, ha annunciato che "l'intifada è appena cominciata" e che l'obiettivo degli insorti è "la libertà". Il governo siriano afferma di non avere informazioni sul presunto rilascio di oltre 200 detenuti politici, per lo più islamici, annunciato invece da un'organizzazione umanitaria locale. L'Alto rappresentante della politica estera della Ue ha chiesto la cessazione "immediata" delle violenze in Siria, dicendosi "scioccata" per la "brutale" risposta del governo di Damasco alle manifestazioni. La Ashton ha lanciato un appello alle autorità siriane affinché vengano soddisfatte "le legittime aspirazioni del popolo attraverso il dialogo e le riforme politiche e socio economiche".
2011-03-25 25 marzo 2011 GUERRA IN LIBIA Parigi e Londra aprono a soluzione politica della crisi Il trasferimento alla Nato del comando delle operazioni militari in Libia relegherà la Francia "ai margini". È la valutazione del premier turco Recep Tayyip Erdogan. "Trovo positivo che la Francia cominci ad essere ai margini, soprattutto in Libia", ha detto Erdogan, parlando con i giornalisti. Intantio aerei da guerra del Qatar "hanno sorvolato" il territorio "della Libia nostra sorella" nell'ambito dell'operazione della coalizione multinazionale per imporre la 'no fly-zonè autorizzata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: lo ha reso noto l'Aeronautica Militare del piccolo emirato del Golfo Persico attraverso un breve comunicato, ripreso dall'agenzia di stampa ufficiale 'Qna'. Il Qatar è così diventato il primo Stato arabo a prendere concretamente parte all'intervento militare contro il regime di Muammar Gheddafi. Contributi soltanto logistici hanno offerto Giordania e Kuwait. Gli Emirati Arabi Uniti, che dapprima avevano limitato la propria partecipazione all'assistenza umanitaria, ieri hanno annunciato di aver messo a disposizione della coalizione sei caccia-bombardieri F-16 e altrettanti Mirage, che peraltro raggiungeranno il teatro operativo solo "nei prossimi giorni". L'UNIONE AFRICANA CHIEDE LA FINE DELLE OSTILITA' Un immediato cessate il fuoco e l'avvio di un dialogo tra il governo di Muammar Gheddafi e i ribelli libici. È quanto ha chiesto oggi il presidente dell'Unione Africana, Jean Ping, aprendo la conferenza internazionale sulla Libia ad Addis Abeba. "L'azione dell'Unione Africana è un deciso passo politico che mira a facilitare un dialogo tra le parti sulle riforme da intraprendere per affrontare alla radice le cause del conflitto che sta dilaniando il Paese", ha detto Ping nella riunione di Addis Abeba. Ping ha aggiunto che l'Unione Africana chiede che venga stabilita una fase di transizione che porti a elezioni democratiche, sostenendo che "è importante che ci si trovi d'accordo su questo tipo di approccio che mira a promuovere in Libia una pace duratura, sicurezza e democrazia". Un appello per la fine dell'ostilità è stato rivolto ai rappresentanti presenti delle parti in causa. Al summit era rappresentato il Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, così come erano rappresentati tutti i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, i Paesi nordafricani vicini della Libia e i partner della coalizione internazionale che ha imposto la no-fly zone. IL COMANDO NATO La Nato assumerà il comando di tutte le operazioni militari in Libia. L'annuncio è arrivato in una giornata di grande fermento diplomatico, con un incontro a Addis Abeba tra l'Unione africana e il regime di Muammar Gheddafi per studiare la possibilità di convocare elezioni nel Paese nordafricano. L'Alleanza atlantica ha comunicato che entro "qualche giorno" avrà non solo il controllo completo per quanto riguarda la No fly zone, ma per tutte le operazioni militari contro gli obiettivi di terra per garantire il rispetto della risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza dell'Onu. "Garantiremo il coordinamento per evitare conflitti con la coalizione", ha spiegato una portavoce, mentre i vertici militari hanno assicurato che per il rispetto della No fly zone occorrerà impiegare "decine di aerei, non centinaia". Una soluzione sostenuta con forza dall'Italia, e che ha "assolutamente" soddisfatto il premier Silvio Berlusconi. Da Tunisi, il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha confermato che il comando dovrebbe passare alla Nato tra domenica e lunedì. FRANCIA E LONDRA APRONO A SOLUZIONE DIPLOMATICA Da Bruxelles, dove si è svolto il Consiglio europeo, il presidente francese, Nicolas Sarkozy, ha riferito che Parigi e Londra stanno approntando "una soluzione politica e diplomatica" per la Libia. A Addis Abeba una delegazione del regime guidata dal segretario del Congresso generale del popolo, Mohammed al-Zwai, ha partecipato ad una riunione straordinaria dell'Unione Africana a cui hanno preso parte i ministri degli Esteri di Repubblica del Congo, Sudafrica, Mali, Mauritania e Uganda e rappresentanti di Onu, Lega araba, Cina, Francia, Russia e Stati Uniti. Lo scopo dell'Ua è favorire il dialogo tra regime e ribelli. All'incontro però mancavano esponenti del Consiglio nazionale di transizione dei ribelli, che ha ribadito la contrarietà ad ogni tipo di trattativa con il regime, ma anche con le tribù. Il ministro degli Esteri britannico William Hague ha precisato che le truppe lealiste dovranno ritirarsi dalle città cinte d'assedio, come Misurata, per dare una dimostrazione credibile di rispettare la tregua. Ma da Agedabia i ribelli hanno fatto sapere che sono ripresi i bombardamenti. Il governo libico invece ha comunicato che i raid di giovedì su Tajura hanno causato 15 morti tra militari e civili e i cadaveri sono stati mostrati nell'obitorio dell'ospedale di Shara al Zaweya.
25 marzo 2011 LA GUERRA SPORCA Tutti i mercenari di Gheddafi. Si poteva bloccarli Fin dai primi giorni della rivolta libica, sono circolate informazioni riguardanti la presenza di combattenti stranieri con caratteristiche somatiche "afro", alcuni dei quali anglofoni, altri francofoni, altri ancora arabofoni. Ma chi sono questi militari, schierati a fianco delle truppe lealiste, prima impiegati nel soffocare le dimostrazioni di piazza e poi utilizzati dallo stato maggiore libico nella riconquista della Cirenaica con obiettivo finale Bengasi? Si tratta di mercenari al soldo del colonnello Muammar Gheddafi, veri professionisti della guerra, molti dei quali già in passato hanno combattuto in una sorta di legione straniera voluta dal rais per difendere i propri interessi in giro per il mondo, soprattutto nel continente africano. A scanso di equivoci, non stiamo parlando di un’organizzazione libica di reclutamento, come ad esempio nel caso della sudafricana Executive Outcomes, quanto piuttosto di un sistema militare messo a punto nel tempo dal regime. Tutto ebbe inizio durante la guerra fredda, nei pressi di Bengasi, quando venne istituito il "Centro Rivoluzionario Mondiale" (Wrc). Basta leggere il saggio dello storico Stephen Ellis The Mask of Anarchy: The Destruction of Liberia and the Religious Dimension of an African Civil War per comprendere di cosa stiamo parlando. La Cia considerava il Wrc come un sito estremamente pericoloso, trattandosi di una base di addestramento per gruppi ribelli capaci di destabilizzare numerosi Paesi in cui Gheddafi intendeva affermare la propria egemonia geopolitica. SI pensi a Foday Sankoh, fondatore del Fronte Unito Rivoluzionario (Ruf), il movimento antigovernativo che negli anni 90 mise a ferro e fuoco la Sierra Leone. Fonti ben informate riferiscono che la tecnica di reclutamento dei "bambini-soldato" venne suggerita a Sankoh durante i corsi al Wrc. Lo stesso vale per l’ex dittatore liberiano Charles Taylor il quale, a detta delle stesse fonti, dimostrò grande perspicacia non solo nell’apprendimento delle tecniche di combattimento, ma anche nello studio delle scienze politiche, che al Wrc si richiamavano agli ideali della rivoluzione libica. Attualmente, sono ancora in carica due capi di Stato africani passati per questa controversa accademia militare: il burkinabé Blaise Compaoré e il ciadiano Idriss Déby. Da rilevare che i corsi potevano durare da un periodo di poche settimane ad oltre un anno di studi e che erano aperti anche a reclute provenienti dalla lontana America Latina. Ad esempio, alcuni dei quadri del movimento sandinista di Manuel Ortega come anche delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) sono passati sui banchi del Wrc. Sta di fatto che con il trascorrere degli anni, Gheddafi ha gradualmente realizzato in Africa un vero network di uomini scaltri e sanguinari, disposti a difendere a pagamento i suoi interessi. In oltre quarant’anni di potere, lo scenario internazionale è mutato considerevolmente, ma l’entourage di Gheddafi è riuscito a mantenere buoni rapporti con gruppi e formazioni di varia estrazione, dalla Mauritania al Niger, dal Ciad al Ghana, dal Sudan alla Somalia, dall’Etiopia, alla Repubblica Centrafricana, dalla Liberia alla Sierra Leone, dalla Costa d’Avorio al Burkina Faso, fino allo Zimbabwe. Insomma, un’area di reclutamento vastissima, dove il rais libico, in passato ma anche recentemente, ha stretto alleanze e combattuto al fianco o contro formazioni rivali. Per non parlare dei Zaghawa – presenti sia in Ciad (il presidente Déby è uno di loro) sia nel Darfur –, un’etnia che per anni è stata foraggiata dal Colonnello e al cui interno hanno operato in base stabile i servizi segreti libici. Ed è proprio questa la peculiarità del cosiddetto "sistema Gheddafi": anziché dispiegare stabilmente i militari libici nei vari Paesi, grazie ai suoi agenti sul campo, ha sempre tenuto i collegamenti con gruppi di mercenari e formazioni armate. Un’operazione d’ingaggio resa possibile da una quantità smisurata di denaro in possesso del clan presidenziale, un tesoro stimato attorno ai 70 miliardi di dollari, ricavato dal business degli idrocarburi di cui è ricchissima la Libia. Non è però sempre stato così: in alcuni casi infatti nell’Africa Subsahariana si è verificata una presenza relativamente stabile di militari libici, soprattutto istruttori, in aree sensibili come lungo il confine tra il Burkina Faso e la Costa d’Avorio. Fonti ben informate della società civile locale riferiscono che il movimento antigovernativo denominato Forze Nuove, attualmente impegnato nel sostenere il presidente internazionalmente riconosciuto Alassane Ouattara, sia tuttora finanziato e addestrato, almeno in parte, da Tripoli. Stabilito dunque che Gheddafi può disporre, pagando, di un’armata panafricana, come ha fatto a far confluire così tanti uomini in Libia in un lasso di tempo relativamente breve tra febbraio e marzo? Il quotidiano inglese The Guardian ha riportato la notizia, riferita da un comandante dell’aviazione di Gheddafi, di circa 4mila mercenari africani giunti in Libia già il 14 febbraio. Secondo altri fonti, vi sarebbero stati addirittura collegamenti giornalieri tra la capitale ciadiana N’Djamena e Tripoli. L’inquadramento di queste truppe sarebbe avvenuto in centri militari quali al-mathaba al-alamiyya, il "Centro mondiale di lotta contro il razzismo e il fascismo", una struttura di supporto a gruppi ribelli, nelle vicinanze di Tripoli. Successivamente, una buona parte di queste migliaia di soldati di ventura, che ricevono dai 350 ai 500 dollari il giorno, sarebbero stati inquadrati nella brigata comandata da Khamis Gheddafi, il figlio del rais a capo di un’unità speciale dei reparti di sicurezza. Va comunque precisato che sono ancora disparate le valutazioni sulla reale consistenza della legione straniera del rais. Jean-Philippe Daniel, dell’Institut des relations internationales et stratégiques (Iris) di Parigi, ritiene che i mercenari sarebbero gruppi di militari stranieri che collaborano con il regime da una trentina d’anni. All’inizio dell’insurrezione sarebbero venuti di propria iniziativa a vendere i propri servigi al Colonnello e non a seguito di un suo appello. In effetti, Gheddafi ha sempre avuto attorno a sé una rete di soldati altamente addestrati, provenienti un po’ da tutta l’Africa. Rimane il fatto che in Libia, a partire da giorni della sommossa popolare, sono giunte truppe aviotrasportate proprio per l’assenza di una "No-fly zone" che, se fosse stata autorizzata in tempo dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, avrebbe facilitato l’avanzata della ribellione libica e forse scongiurato i raid aerei della coalizione internazionale di questi giorni. Giulio Albanese
25 marzo 2011 DAMASCO Siria, polizia spara su manifestanti: 15 morti Sono 15 i manifestanti uccisi dalle forze di sicurezza oggi a Samnin, località nei pressi di Daraa, nel sud della Siria ed epicentro delle proteste anti-regime. Lo riferiscono testimoni oculari citati dalla tv panaraba al Arabiya. Manifestazioni di piazza antiregime in Siria, dove la polizia ha disperso dei raduni ed arrestato decine di persone nella capitale. In migliaia ad Homs, 180 km a nord di Damasco, hanno chiesto la "caduta del governatore", rappresentante del regime baatista al potere in da quasi mezzo secolo, e manifestazioni anche all'estremo nord-est, al confine con Turchia e Iraq e abitato in prevalenza da curdi. A Daraa, slogan contro la famiglia presidenziale al Assad, al potere da quarant'anni: secondo testimoni, 15 manifestanti sono stati uccisi dalle forze di sicurezza che hanno aperto il fuoco. Ieri decine di civili erano caduti sotto i colpi delle forze di sicurezza, e poi il regime aveva annunciato una serie di riforme. Proteste anche nello Yemen, l'esercito spara in aria per disperdere la folla.
25 marzo 2011 MEDIO ORIENTE Siria, Assad: riforme e fine dello stato di emergenza Almeno 20mila siriani hanno partecipato ieri al funerale di nove tra i manifestanti uccisi a Daraa, nel sud del Paese, gridando slogan per la libertà. I militanti anti regime hanno sostenuto ieri che le vittime dell’assalto di mercoledì mattina contro la moschea al-Omari sono "oltre cento persone". Fonti ospedaliere parlano invece di 25 cadaveri, tutti con ferite di arma da fuoco, mentre una Ong basata a Damasco afferma che le vittime sono 36. Secondo il quotidiano al-Sharq al-Awsat, che cita testimoni oculari, oltre ai gas lacrimogeni "le truppe anti-sommossa siriane hanno sparato cartucce di gas che colpiscono il sistema nervoso e paralizzano il corpo". "Ma noi andremo avanti con la rivoluzione", ha assicurato un attivista siriano che ha chiesto l’anonimato. "La nostra iniziativa – spiega l’attivista – si muove sulla scia delle altre rivolte che hanno in questi mesi rivoluzionato il mondo arabo. Anche noi chiediamo innanzitutto un cambio di regime, libertà e lavoro in un Paese dove il 60% delle famiglie vive sotto la soglia di povertà. La repressione del regime non ci fa paura". Nuovo appuntamento per oggi al "Venerdì della dignità", nella piazza centrale di Daraa, denominata Piazza dei martiri, in aperta sfida alla legge di emergenza che vieta le manifestazioni pubbliche. Testimoni locali descrivono Daraa una città fantasma, con traffico quasi inesistente e scuole e banche chiuse. Le Ong siriane e i gruppi di difesa dei diritti umani riferiscono di arresti massicci in diverse regioni del Paese. Amnesty international ha preparato una lista di 93 nomi di persone arrestate questo mese a Damasco, Aleppo, Banyas, Deraa, Hama, Homs, per le loro attività su Internet. "Ma il numero dei fermati – si legge nella nota di Amnesty – potrebbe essere molto più alto". Si tratta di studenti, intellettuali, giornalisti e attivisti di età compresa tra i 15 e i 45 anni. L’Osservatorio siriano per i diritti umani, con base a Londra, ha denunciato l’arresto di Ahmad Hadifa, blogger 27enne colpevole di aver appoggiato su Facebook le proteste di Daraa. Il giovane era già stato fermato più volte nel mese scorso per la sua attività sulla rete. Unica nota positiva ieri una breve dichiarazione della portavoce del presidente Bashar al-Assad. "La Siria – ha affermato Buthaina Shaaban – prenderà decisioni importantissime per rispondere alle aspirazioni del suo popolo". "Non apriremo più il fuoco sui cittadini e toglieremo in tempi brevissimi lo stato di emergenza" in vigore dal lontano 1963, ha detto la portavoce anticipandone alcune nel corso di un’affollatissima conferenza stampa con moltissimi giornalisti siriani e stranieri. Shaaban ha tuttavia affermato che il presidente siriano "non ha mai dato l’ordine di sparare contro i manifestanti" di Daraa. Non solo: il presidente ha dato ordine a una speciale commissione di preparare una nuova legge sui partiti e un’altra sulla stampa e ordinato il rilascio di tutte le persone arrestate. Il quotidiano al-Baath, portavoce dell’omonimo partito al potere da 48 anni, ha dal canto suo esaltato "l’ambizioso progetto riformatore avviato da Assad figlio sin dal suo arrivo al potere" nel 2000, e ha avvertito "i giovani appassionati a diffidare dalle mani straniere e peccaminose che vogliono convincervi che l’uso della forza è a vostro favore". Il premier Muhammad Naji al-Utari ha ribadito l’accusa a "parti straniere" di "sfruttare a propri fini le manifestazioni di cittadini che avanzano rivendicazioni legittime". L’allusione è alla Giordania, vicinissima alla città-simbolo di Daraa dove sono accampati, da oltre una settimana, migliaia di persone per dire basta al regime. L’esercito ha allestito attorno alla città dei posti di blocco dove procede ad accurati controlli d’identità, per impedire l’arrivo di altri manifestanti. Camille Eid
25 marzo 2011 Pezzo chiave del puzzle delle rivolte Variabile Damasco Nel lunghissimo, sanguinoso domino delle rivolte arabe tocca ora alla Siria sperimentare grandi dimostrazioni di protesta popolari e contare i morti, uccisi nelle piazze dalle forze di polizia. Al di là del lugubre balletto sulle cifre reali, il dato politico che emerge è la volontà del regime baathista, al potere dal 1963, di reprimere duramente le proteste, avviando in parallelo un dialogo con le forze tribali insoddisfatte. Bashar al-Assad non è Mubarak o Ben Ali, e a Damasco non siede un presidente autocrate, bensì il capo di una dittatura complessa e articolata, all’interno della quale i gruppi più rigidi hanno in passato posto un freno alle velleità riformiste dello stesso presidente. Riforme che forse ora verranno rilanciate, sia pure calate dall’alto. Siamo al cospetto di una dittatura che non è solo politica: al di sotto dell’ufficialità del potere, rappresentato dal partito della resurrezione araba (il Ba’ath), vi è la realtà di una comunità estremamente minoritaria sul piano numerico – gli alawiti – che controlla buona parte delle forze armate e del partito unico. La durezza sempre dimostrata da Damasco – oggi come in passato – verso tutti gli oppositori si spiega anche così: per gli alawiti, riformare il sistema significherebbe probabilmente rischiare di finire travolti dal cambiamento. Meglio quindi cercare di limitare cambiamenti e aperture, imponendo un controllo ossessivo sui cittadini e sul dibattito politico. Nel 1982, il padre dell’attuale presidente e creatore della Siria attuale, Hafez, non esitò a distruggere una città del suo Paese, bombardandola, per estirpare l’opposizione islamica radicale. Un "esempio" ancora vivo. Ma, ben più che a livello interno, le tensioni siriane preoccupano per le conseguenze regionali: la Siria è uno degli snodi fondamentali delle vicende mediorientali: ciò che accade a Damasco può riverberarsi drammaticamente in tutte le capitali vicine. Innanzitutto in Israele, di cui la Siria rappresenta l’arci-nemico e con cui non è mai stata firmata una pace. A Gerusalemme e a Tel Aviv, nessuno piangerebbe per il crollo del Ba’ath; ma quanto verrebbe dopo non sarebbe necessariamente meglio per lo Stato ebraico. E soprattutto, nulla nuocerebbe ai manifestanti quanto un sostegno – anche solo verbale – del governo israeliano. Meglio quindi che Gerusalemme non faccia e dica nulla. E oltre al nodo irrisolto del conflitto israelo-palestinese in quasi tutte le partire regionali Damasco è un attore di peso: è la potenza che esercita ancora la maggior influenza sulla fragile democrazia libanese; assieme all’Iran dell’ultraradicale Mahmoud Ahmadinejad sostiene le milizie sciite radicali di Hezbollah e si è opposta ai governi più moderati e filo-occidentali; mantiene buoni rapporti con Mosca, suo storico protettore, e sta sviluppando crescenti legami con la Turchia di Erdogan, sempre meno legata all’Occidente e sempre più autonoma e attenta alle ragioni dei suoi vicini regionali. Né infine può essere dimenticato il ruolo che svolge nelle vicende irachene. Insomma, in un mondo arabo scosso da continue rivolte, con la guerra in Libia e con l’Egitto lungi da aver consolidato un nuovo assetto dopo la caduta di Mubarak, la debolezza siriana sembra più fonte di inquietudine che di compiacimento internazionale. O per lo meno, questo è quanto segnala la prudenza delle reazioni occidentali. In una Washington come stordita dai troppi impulsi (e dai puzzle irrisolti) che arrivano dal Medio Oriente, c’è chi comincia a dire che una politica di dialogo per favorire le riforme in Siria sia più saggia della "demonizzazione" del regime attuata in passato. Ed è probabilmente quello che si augura la numerosa minoranza cristiana presente in Siria: un crollo improvviso del regime, per quanto detestato, esporrebbe i cristiani agli attacchi del radicalismo islamico. Le decine di migliaia di profughi iracheni rifugiatisi in terra siriana sono una testimonianza eloquente e assai convincente. Riccardo Redaelli
25 marzo 2011 EMERGENZA Individuato barcone con eritrei Arrivati 500 migranti a Lampedusa Sono stati accompagnati in un centro di prima accoglienza i 44 migranti intercettati ieri sera su una barca a vela da un pattugliatore della Guardia di Finanza, a circa 6 miglia dalle coste siracusane. Gli extracomunitari, tra i quali vi sono 11 donne, due delle quali incinte, e sette bambini, sono di nazionalità turca, siriana e irachena. L'imbarcazione, un motoveliero di circa 12 metri, è stata scortata fino al porto di Siracusa e posta sotto sequestro. Nel corso dell'operazione, coordinata dal Gruppo aeronavale della Guardia di Finanza di Messina, sono stati fermati anche i due presunti scafisti. Indagini sono in corso per risalire agli organizzatori del traffico di immigrati. E' stato individuato il barcone del quale da diversi giorni era stata segnalata l'avvenuta partenza dalle coste libiche. La situazione è attualmente sotto controllo, costantemente monitorata dalla Centrale Operativa delle Capitanerie di porto. Lo riferisce la Guardia Costiera. Il barcone si troverebbe ancora in acque non di competenza italiana e, secondo quanto si apprende, sarebbe diretto verso le nostre coste. I movimenti dell'imbarcazione vengono comunque costantemente seguiti dai mezzi navali che si trovano nel Canale di Sicilia e dalla centrale operativa delle Capitanerie di porto. Il barcone con a brodo 330 eritrei partito dalla Libia nei giorni scorsi sarebbe stato individuato ad una trentina di miglia a nord di Tripoli. L'imbarcazione, secondo quanto si apprende da fonti a Lampedusa, sarebbe stato intercettato da una nave militare, di cui, però, ancora non è stata resa nota la nazionalità. L'Unione Europea e i suoi paesi sono "pronti a dimostrare la loro concreta solidarietà" agli stati più direttamente investiti dai movimenti migratori e a fornire il necessario sostegno in base all'evoluzione della situazione''. E' quanto si legge nella bozza delle conclusioni del Consiglio Europeo che questa mattina sul tavolo dei leader dei 27. La Commissione Europea, si legge nel testo, preparera' un piano per la gestione dei flussi degli immigrati e dei rifugiati prima del Consiglio Europeo di giugno. Inoltre si lavorera' per raggiungere un accordo sul rafforzamento della capacita' operativa di Frontex entro giugno. I ministri degli Interni e degli Esteri, Roberto Maroni e Franco Frattini, sono giunti a Tunisi per una serie di incontri istituzionali con l'obiettivo di frenare gli sbarchi di tunisini verso Lampedusa (circa 15 mila nei primi tre mesi dell'anno). Frattini e Maroni incontreranno il premier tunisino Beji Caid Essebsi ed altri ministri. L'obiettivo è tornare in Italia con un'intesa che preveda il ripristino dei controlli di polizia alle frontiere marittime - ora praticamente azzerati - ed avviare i rimpatri dei migranti già sbarcati. I due ministri sono pronti a mettere sul piatto aiuti economici, uomini e mezzi (motovedette, apparecchiature, radar, etc.), nonché un'adeguata quota di ingressi legali. Non sarà tuttavia agevole ottenere impegni vincolanti dalle autorità tunisine: il governo in carica è infatti transitorio in attesa delle elezioni previste per il prossimo luglio. E' arrivata di nuovo a Lampedusa nave S.Marco, l'unità anfibia della Marina utilizzata in questi giorni per portare via da Lampedusa gli immigrati. La S.Marco dovrebbe imbarcare circa 400 immigrati, che potrebbero essere portati in Puglia, nella tendopoli che i vigili del fuoco stanno allestendo a Manduria. Sull'isola, intanto, restano ancora più di quattro mila immigrati, anche se nella notte appena trascorsa non ci sono stati sbarchi. Lo ha detto il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, durante la riunione del Consiglio di Sicurezza sulla Libia. Finora, ha riferito Ban Ki-moon nel suo intervento al Consiglio di Sicurezza, il Palazzo di Vetro ha contato 335.658 che "hanno lasciato la Libia dall'inizio della crisi". Oltre a costoro, secondo stime dell'Onu altri 9 mila migranti rimangono bloccati ai confini del Paese con l'Egitto o con la Tunisia.
2011-03-22 22 marzo 2011 ALBA DELL'ODISSEA - 4° GIORNO Libia: scontro tra jet Obama "chiama" la Nato La cooperazione tra Italia e Francia sulla crisi libica "è eccellente" e Parigi è "molto grata" per la partecipazione italiana alle operazioni militari nell'ambito della risoluzione 1973 dell'Onu. Lo ha dichiarato il portavoce del Quai d'Orsai, Bernard Valero, che ha anche invitato a "non perdere tempo in polemiche sterili e artificiose". Il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, ha confermato che la Nato ha"deciso di lanciare un'operazione per imporre l'embargo sulle armi contro la Libia". Il comando delle navi e degli aerei dell'Alleanza atlantica nel Mediterraneo centrale è affidato all'ammiraglio Stavridis. Rasmussen ha riferito che la Nato ha anche "completato i piani per imporre una no-fly zone per portare il nostro contributo, se necessario al vasto sforzo internazionale per proteggere il popolo libico dalla violenza del regime di Gheddafi". Il presidente americano Barack Obama e il premier turco Tayyip Erdogan hanno concordato che i "contributi nazionali" per l'attuazione della risoluzione 1973 sulla Libia "sono resi possibili dalle capacità di controllo e dal comando unico e multinazionale della Nato". Lo ha reso noto la Casa Bianca. Jet delle forze della coalizione occidentale hanno attaccato oggi un velivolo da guerra appartenente alle forze armate di Gherddafi mentre era in volo verso la città di Bengasi. Lo riferisce al-Jazeera citando un proprio corrispondente sul posto. Tripoli, Zintan, Misurata, Sirte, Sabha e una zona a est di Bengasi. È su questi obiettivi che si è concentrata oggi la terza ondata di attacchi della coalizione occidentale sulla Libia. Dieci chilometri dalla capitale è stata colpita la base della Marina militare di Bussetta. Sono stati colpiti porti e aeroporti a Sirte e su Sabha, entrambe roccheforti politiche e militari di Muammar Gheddafi. A Sabha sarebbero stati bombardati un deposito militare e una colonnna militare lealista in movimento verso Zintan, 120 km a sudest di Tripoli.
Nonostante ciò, la città di Zintan è di nuovo sotto i colpi dell'artiglieria pesante lealista. "Diverse case sono state distrutte, un minareto è crollato ed è in corso un assedio: 40 carri armati stazionano sulle colline", hanno detto testimoni. Nuovi attacchi amche alla città di Misurata, controllata dai ribelli. Le forze fedeli a Gheddafi hanno aperto il fuoco uccidendo 40 persone, tra cui quattro bambini, morti dopo che l'auto su cui viaggiavano è stata colpita. "La situazione è drammatica. I carri armati hanno cominciato a sparare in città stamani", ha raccontato un testimone. "Anche i cecchini stanno prendendo parte all'operazione. È stata distrutta un'auto e sono morti quattro bambini che erano a bordo, il più grande aveva 13 anni", ha detto ancora l'uomo. Gli insorti in lotta contro le forze fedeli a Muammar Gheddafi chiedono agli avversari "un rapido cessate-il-fuoco" e "la fine degli assedi governativi intorno alle città libiche" da essi controllate: lo ha riferito l'inviato speciale delle Nazioni Unite per la Libia, l'ex ministro degli Esteri giordano Abdel Elah al-Khatib, all'indomani del proprio incontro con una delegazione dei rivoltosi a Tobruk, nella Cirenaica orientale. I colloqui, ha spiegato Khatib, sono serviti ad "ascoltare il punto di vista e la posizione dei ribelli sulla situazione" nel loro Paese. Sono 120 i morti e 250 i feriti nell'attacco delle forze di Gheddafi sabato mattina contro Bengasi. Lo ha detto Abdel Hafiz al Ghogha, portavoce del Consiglio transitorio libico, l'organo politico della Rivoluzione del 17 febbraio. Il bilancio delle vittime, fornito da Ghogha, riguarda civili e rivoluzionari armati. Nessun bilancio, invece, sui morti da parte delle forze governative, stimate in "decine". Tre giornalisti occidentali sono stati arrestati dalle forze armate libiche. Lo ha reso noto il loro autista. Si tratta di due reporter dell'agenzia France Presse e un fotografo della Getty Images, fermati il 19 marzo nella zona di Tobruk. Un cacciabombardiere F-15 statunitense è precipitato in Libia durante un raid, a quanto pare per un'avaria, e il pilota, eiettatosi dall'abitacolo, è stato salvato dai ribelli libici. Lo rende noto il quotidiano britannico Daily Talegraph che cita un suo inviato sul posto. L'OFFENSIVA AEREA Uno dopo l’altro i Paesi coinvolti nell’operazione militare Alba dell’Odissea contro il regime di Muammar Gheddafi prendono concretamente parte alle operazioni. Ieri, nel terzo giorno dell’intervento, anche quattro cacciabombardieri F-16 del Belgio, due dei quattro F-18 spagnoli e quattro F-18 canadesi hanno effettuato la loro prima missione in Libia, unendosi così ai raid dei mezzi britannici, francesi e italiani e alle unità navali americane nel Mediterraneo. Per ora, lo ha precisato il generale Carter Ham, dell’Usa Africa Command, la missione non prevede l’impiego di truppe di terra. La no-fly zone sarà invece estesa sia a ovest sia a sud della Libia e presto arriverà a coprire un migliaio di chilometri quadrati. Domenica notte, nel corso di un raid, è stata distrutta parte del complesso di Bab al Aziziya a Tripoli, residenza militare del Colonnello. L’edificio sarebbe stato preso di mira in quanto sede della catena di comando e controllo del regime. Gheddafi "non è assolutamente un obiettivo" degli alleati dal momento che la risoluzione Onu non lo permette, ha spiegato ieri il responsabile del personale della Difesa britannica, David Richards. Nella serata di ieri proprio dalla zona di Bab al Aziziya sono partite nuove raffiche di colpi della contraerea libica e la tv di stato ha detto che un nuovo attacco ha colpito la capitale, in particolare la zona del porto con due forti esplosioni. Secondo il governo libico la coalizione ha bombardato ieri anche l’aeroporto di Sirte, Tripoli e la città di Sabah, roccaforte della tribù cui appartiene Gheddafi, nel sud. Il capo del Pentagono Robert Gates ha annunciato che gli Usa ridurranno presto la loro partecipazione alle operazioni in Libia e che sarebbe un errore per la coalizione prefigurarsi l’obiettivo di uccidere Gheddafi. Per il dipartimento di Stato Usa l’obiettivo finale è la resa del Colonnello. I bombardamenti hanno permesso finora di neutralizzare "gran parte della contraerea libica", ha sottolineato il premier britannico David Cameron. I bersagli dell’operazione "devono essere in linea con la risoluzione dell’Onu", ha spiegato Cameron, che preme perché il comando delle operazioni passi alla Nato.Il capo degli stati maggiori riuniti Usa, Mike Mullen, ha negato la notizia diffusa dalla tv libica secondo cui circa "60 civili sono morti" negli attacchi. Paolo M. Alfieri TORNADO IN AZIONE, BERLUSCONI: "NON SPARERANNO MAI" Questione di punti di vista: per il premier Silvio Berlusconi "una delle cose certe è che i nostri aerei non hanno sparato e non spareranno". Per il sito internet dell’Aeronautica militare già domenica i Tornado "hanno portato a termine la loro missione di soppressione delle difese aeree presenti sul territorio libico (in gergo tecnico dette Sead - Suppression of Enemy Air Defense) che viene condotta mediante l’impiego di missili aria-superficie Agm-88 Harm (High-speed Anti Radiation Missile)". Le operazioni sono iniziate domenica e sono proseguite ieri. I caccia – quattro tornado Ecr (Electronic Combat Reconnaissance) supportati da due tornado tanker con funzioni di rifornitore in volo (Aar - Air-to-Air Refuelling) – sono decollati e atterrati dopo circa due ore nella base militare di Trapani Birgi. I velivoli appartengono al 37° stormo dell’Aeronautica militare e si sono sollevati in volo per perlustrare lo spazio aereo libico nella zona di Bengasi, dove era in azione anche un Awacs. F-16 ed elicotteri hanno compiuto invece "normali operazioni di addestramento" mentre alcuni Eurofighter avrebbero scortato i tornado. F-16 e Eurofighter infatti possono essere impiegati nell’ambito di operazioni aeree complesse per garantire la difesa degli altri aerei contro eventuali velivoli ostili. Quella del pomeriggio di ieri è stata la seconda missione degli italiani in poche ore. Le operazioni cui partecipano i Tornado rientrano nell’operazione "Odyssey dawn". I nostri sei velivoli sono stati utilizzati domenica per colpire la contraerea fedele a Gheddafi a Tripoli mentre gli aerei francesi e britannici attaccavano nella zona della capitale dove si trova il bunker del colonnello. "La missione è stata raggiunta positivamente e gli obiettivi sono stati raggiunti", ha spiegato domenica sera il colonnello Mauro Gabetta, comandante del 37° stormo della base militare di Trapani. In poco più di due ore, i caccia hanno effettuato un’operazione che comporta la soppressione di apparati di difesa aerea con missili aria-superficie. In pratica, hanno sparato i missili contro le postazioni radar del Colonnello. Dei sei tornado, due tanker, che appartengono al 6° stormo di Ghedi (Brescia), sono stati i primi a rientrare alla base dopo aver effettuato il rifornimento aereo degli altri velivoli, gli Ecr, che provengono dal 50° stormo di Piacenza. "L’operazione condotta dai nostri velivoli è stata un’operazione di soppressione delle difese aeree avversarie", confermano i militari. "I nostri aerei hanno operato nei pressi di Bengasi – ha detto il comandante –. Sentiamo la nostra responsabilità nei confronti di tutti i cittadini italiani, e la volontà di aiutare la popolazione libica". Giulia Isola FRATTINI: "SENZA NATO, COMANDO ITALIANO SEPARATO" "Hai ragione. L’obiettivo è uno solo: il comando delle operazioni deve passare in fretta alla Nato. E non devono dirci di no, non possono dirci di no". Silvio Berlusconi guarda dritto negli occhi Franco Frattini e, con altre parole, affonda un nuovo colpo contro Francia e Gran Bretagna: "Il coordinamento non può più essere quello attuale. Va cambiato. Ripeto: cam-bia-to". Il ministro degli Esteri ascolta e annuisce. Poi, nelle ore che seguono, rilancia la linea del governo e l’arricchisce con un ultimatum che le agenzie di stampa rilanciano alle 16 e 47: se la missione non passerà sotto il comando Nato l’Italia si riprenderà il controllo delle basi. È una posizione netta. Dura. E la risposta della Francia non si fa attendere. "Alle autorità italiane non ho nulla da rispondere", fa sapere da Parigi il generale Philippe Ponthies, portavoce del ministero della Difesa. E aggiunge: "Per il momento la Nato non ha alcun ruolo in questa vicenda". Italia e Francia si sfidano. Frattini passa da una telefonata a un’altra e spiega la sua posizione con energia. "Senza Nato decidiamo noi sulle nostre basi. Tocca a noi la gestione. A trecentosessanta gradi. Insomma saremo noi a decidere su tutto: chi atterra, chi decolla, chi le può usare e chi no". Una pausa prepara il nuovo affondo: "Comando Nato o potremmo valutare l’idea di un comando nazionale separato". È un affondo contro il "protagonismo" di Sarkozy. Un messaggio al presidente francese che - per dirla con il premier - "vuole usare il conflitto libico per frenare il crollo interno in vista della nuova corsa all’Eliseo". La Francia però non molla e Ponthies ripete: "Siamo in un’operazione voluta dalle Nazioni Unite, portata avanti da una coalizione ad hoc, e alla quale la Nato potrebbe eventualmente portare il suo sostegno". Insomma, nessun passaggio di testimone. Sono ore complicate. Berlusconi e Frattini si muovono a tutto campo per cercare di isolare la posizione francese e anche a Bruxelles trovano sponde. "Il vostro atteggiamento è sproporzionato e va corretto in fretta", "ruggisce" il segretario della Nato Andres Fogh Rasmussen gelando l’ambasciatore francese all’alleanza atlantica. Berlusconi guarda da Roma e continua a muoversi in un lavoro diplomatico senza pause. "La linea francese è decapitare Gheddafi, la nostra no. Noi crediamo che ci sia ancora spazio per garantirgli un’uscita non drammatica", ripete sottovoce in più di una telefonata. Il premier sa che l’Italia non potrà più avere un ruolo di mediazione, ma sa anche che Lega Araba e Russia ancora possono dire la loro. I contatti tra Roma e Mosca si accavallano nelle ultime ore e c’è il lavoro diplomatico del premier dietro l’inattesa disponibilità di Dmitri Medvedev: "Possiamo compiere sforzi da mediatore per ricomporre il conflitto. Le possibilità ce l’abbiamo". È una partita dall’esito imprevedibile: da una parte l’Italia, dall’altra la Francia. A Bruxelles i cronisti aspettano Frattini e la prima domanda è quasi una provocazione: ministro c’è rammarico per il fatto che i francesi siano stati i primi a intervenire in Libia? Frattini è gelido: "All’Italia non piace avere il ruolo di <+corsivo>first striker<+tondo>, di chi sferra il primo colpo, e questo vale sempre". Poi torna a insistere sul passaggio del comando alla Nato. "Ha l’esperienza, la capacità e la struttura per potere garantire la condivisione delle responsabilità da parte di tutti gli alleati", ripete il ministro degli Esteri che chiosa: "Siamo solo al terzo giorno: saranno i fatti a parlare". E, intanto, Berlusconi in vista della trasferta al consiglio europeo in scena nel fine settimana a Bruxelles si prepara a sferrare un altro affondo: noi abbiamo le basi e le mettiamo a disposizioni ma quando arriverà l’ondata di immigrati nessuno potrà tirarsi indietro, nessun potrà dire "ci pensa solo l’Italia". Arturo Celletti
22 marzo 2011 ALBA DELL'ODISSEA - 4° GIORNO Scontro tra jet in Libia Parigi: stop a polemiche sterili La cooperazione tra Italia e Francia sulla crisi libica "è eccellente" e Parigi è "molto grata" per la partecipazione italiana alle operazioni militari nell'ambito della risoluzione 1973 dell'Onu. Lo ha dichiarato il portavoce del Quai d'Orsai, Bernard Valero, che ha anche invitato a "non perdere tempo in polemiche sterili e artificiose". Il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, ha confermato che la Nato ha"deciso di lanciare un'operazione per imporre l'embargo sulle armi contro la Libia". Il comando delle navi e degli aerei dell'Alleanza atlantica nel Mediterraneo centrale è affidato all'ammiraglio Stavridis. Rasmussen ha riferito che la Nato ha anche "completato i piani per imporre una no-fly zone per portare il nostro contributo, se necessario al vasto sforzo internazionale per proteggere il popolo libico dalla violenza del regime di Gheddafi". Il presidente americano Barack Obama e il premier turco Tayyip Erdogan hanno concordato che i "contributi nazionali" per l'attuazione della risoluzione 1973 sulla Libia "sono resi possibili dalle capacità di controllo e dal comando unico e multinazionale della Nato". Lo ha reso noto la Casa Bianca. Jet delle forze della coalizione occidentale hanno attaccato oggi un velivolo da guerra appartenente alle forze armate di Gherddafi mentre era in volo verso la città di Bengasi. Lo riferisce al-Jazeera citando un proprio corrispondente sul posto. Tripoli, Zintan, Misurata, Sirte, Sabha e una zona a est di Bengasi. È su questi obiettivi che si è concentrata oggi la terza ondata di attacchi della coalizione occidentale sulla Libia. Dieci chilometri dalla capitale è stata colpita la base della Marina militare di Bussetta. Sono stati colpiti porti e aeroporti a Sirte e su Sabha, entrambe roccheforti politiche e militari di Muammar Gheddafi. A Sabha sarebbero stati bombardati un deposito militare e una colonnna militare lealista in movimento verso Zintan, 120 km a sudest di Tripoli.
Nonostante ciò, la città di Zintan è di nuovo sotto i colpi dell'artiglieria pesante lealista. "Diverse case sono state distrutte, un minareto è crollato ed è in corso un assedio: 40 carri armati stazionano sulle colline", hanno detto testimoni. Nuovi attacchi amche alla città di Misurata, controllata dai ribelli. Le forze fedeli a Gheddafi hanno aperto il fuoco uccidendo 40 persone, tra cui quattro bambini, morti dopo che l'auto su cui viaggiavano è stata colpita. "La situazione è drammatica. I carri armati hanno cominciato a sparare in città stamani", ha raccontato un testimone. "Anche i cecchini stanno prendendo parte all'operazione. È stata distrutta un'auto e sono morti quattro bambini che erano a bordo, il più grande aveva 13 anni", ha detto ancora l'uomo. Gli insorti in lotta contro le forze fedeli a Muammar Gheddafi chiedono agli avversari "un rapido cessate-il-fuoco" e "la fine degli assedi governativi intorno alle città libiche" da essi controllate: lo ha riferito l'inviato speciale delle Nazioni Unite per la Libia, l'ex ministro degli Esteri giordano Abdel Elah al-Khatib, all'indomani del proprio incontro con una delegazione dei rivoltosi a Tobruk, nella Cirenaica orientale. I colloqui, ha spiegato Khatib, sono serviti ad "ascoltare il punto di vista e la posizione dei ribelli sulla situazione" nel loro Paese. Sono 120 i morti e 250 i feriti nell'attacco delle forze di Gheddafi sabato mattina contro Bengasi. Lo ha detto Abdel Hafiz al Ghogha, portavoce del Consiglio transitorio libico, l'organo politico della Rivoluzione del 17 febbraio. Il bilancio delle vittime, fornito da Ghogha, riguarda civili e rivoluzionari armati. Nessun bilancio, invece, sui morti da parte delle forze governative, stimate in "decine". Tre giornalisti occidentali sono stati arrestati dalle forze armate libiche. Lo ha reso noto il loro autista. Si tratta di due reporter dell'agenzia France Presse e un fotografo della Getty Images, fermati il 19 marzo nella zona di Tobruk. Un cacciabombardiere F-15 statunitense è precipitato in Libia durante un raid, a quanto pare per un'avaria, e il pilota, eiettatosi dall'abitacolo, è stato salvato dai ribelli libici. Lo rende noto il quotidiano britannico Daily Talegraph che cita un suo inviato sul posto. L'OFFENSIVA AEREA Uno dopo l’altro i Paesi coinvolti nell’operazione militare Alba dell’Odissea contro il regime di Muammar Gheddafi prendono concretamente parte alle operazioni. Ieri, nel terzo giorno dell’intervento, anche quattro cacciabombardieri F-16 del Belgio, due dei quattro F-18 spagnoli e quattro F-18 canadesi hanno effettuato la loro prima missione in Libia, unendosi così ai raid dei mezzi britannici, francesi e italiani e alle unità navali americane nel Mediterraneo. Per ora, lo ha precisato il generale Carter Ham, dell’Usa Africa Command, la missione non prevede l’impiego di truppe di terra. La no-fly zone sarà invece estesa sia a ovest sia a sud della Libia e presto arriverà a coprire un migliaio di chilometri quadrati. Domenica notte, nel corso di un raid, è stata distrutta parte del complesso di Bab al Aziziya a Tripoli, residenza militare del Colonnello. L’edificio sarebbe stato preso di mira in quanto sede della catena di comando e controllo del regime. Gheddafi "non è assolutamente un obiettivo" degli alleati dal momento che la risoluzione Onu non lo permette, ha spiegato ieri il responsabile del personale della Difesa britannica, David Richards. Nella serata di ieri proprio dalla zona di Bab al Aziziya sono partite nuove raffiche di colpi della contraerea libica e la tv di stato ha detto che un nuovo attacco ha colpito la capitale, in particolare la zona del porto con due forti esplosioni. Secondo il governo libico la coalizione ha bombardato ieri anche l’aeroporto di Sirte, Tripoli e la città di Sabah, roccaforte della tribù cui appartiene Gheddafi, nel sud. Il capo del Pentagono Robert Gates ha annunciato che gli Usa ridurranno presto la loro partecipazione alle operazioni in Libia e che sarebbe un errore per la coalizione prefigurarsi l’obiettivo di uccidere Gheddafi. Per il dipartimento di Stato Usa l’obiettivo finale è la resa del Colonnello. I bombardamenti hanno permesso finora di neutralizzare "gran parte della contraerea libica", ha sottolineato il premier britannico David Cameron. I bersagli dell’operazione "devono essere in linea con la risoluzione dell’Onu", ha spiegato Cameron, che preme perché il comando delle operazioni passi alla Nato.Il capo degli stati maggiori riuniti Usa, Mike Mullen, ha negato la notizia diffusa dalla tv libica secondo cui circa "60 civili sono morti" negli attacchi. Paolo M. Alfieri TORNADO IN AZIONE, BERLUSCONI: "NON SPARERANNO MAI" Questione di punti di vista: per il premier Silvio Berlusconi "una delle cose certe è che i nostri aerei non hanno sparato e non spareranno". Per il sito internet dell’Aeronautica militare già domenica i Tornado "hanno portato a termine la loro missione di soppressione delle difese aeree presenti sul territorio libico (in gergo tecnico dette Sead - Suppression of Enemy Air Defense) che viene condotta mediante l’impiego di missili aria-superficie Agm-88 Harm (High-speed Anti Radiation Missile)". Le operazioni sono iniziate domenica e sono proseguite ieri. I caccia – quattro tornado Ecr (Electronic Combat Reconnaissance) supportati da due tornado tanker con funzioni di rifornitore in volo (Aar - Air-to-Air Refuelling) – sono decollati e atterrati dopo circa due ore nella base militare di Trapani Birgi. I velivoli appartengono al 37° stormo dell’Aeronautica militare e si sono sollevati in volo per perlustrare lo spazio aereo libico nella zona di Bengasi, dove era in azione anche un Awacs. F-16 ed elicotteri hanno compiuto invece "normali operazioni di addestramento" mentre alcuni Eurofighter avrebbero scortato i tornado. F-16 e Eurofighter infatti possono essere impiegati nell’ambito di operazioni aeree complesse per garantire la difesa degli altri aerei contro eventuali velivoli ostili. Quella del pomeriggio di ieri è stata la seconda missione degli italiani in poche ore. Le operazioni cui partecipano i Tornado rientrano nell’operazione "Odyssey dawn". I nostri sei velivoli sono stati utilizzati domenica per colpire la contraerea fedele a Gheddafi a Tripoli mentre gli aerei francesi e britannici attaccavano nella zona della capitale dove si trova il bunker del colonnello. "La missione è stata raggiunta positivamente e gli obiettivi sono stati raggiunti", ha spiegato domenica sera il colonnello Mauro Gabetta, comandante del 37° stormo della base militare di Trapani. In poco più di due ore, i caccia hanno effettuato un’operazione che comporta la soppressione di apparati di difesa aerea con missili aria-superficie. In pratica, hanno sparato i missili contro le postazioni radar del Colonnello. Dei sei tornado, due tanker, che appartengono al 6° stormo di Ghedi (Brescia), sono stati i primi a rientrare alla base dopo aver effettuato il rifornimento aereo degli altri velivoli, gli Ecr, che provengono dal 50° stormo di Piacenza. "L’operazione condotta dai nostri velivoli è stata un’operazione di soppressione delle difese aeree avversarie", confermano i militari. "I nostri aerei hanno operato nei pressi di Bengasi – ha detto il comandante –. Sentiamo la nostra responsabilità nei confronti di tutti i cittadini italiani, e la volontà di aiutare la popolazione libica". Giulia Isola FRATTINI: "SENZA NATO, COMANDO ITALIANO SEPARATO" "Hai ragione. L’obiettivo è uno solo: il comando delle operazioni deve passare in fretta alla Nato. E non devono dirci di no, non possono dirci di no". Silvio Berlusconi guarda dritto negli occhi Franco Frattini e, con altre parole, affonda un nuovo colpo contro Francia e Gran Bretagna: "Il coordinamento non può più essere quello attuale. Va cambiato. Ripeto: cam-bia-to". Il ministro degli Esteri ascolta e annuisce. Poi, nelle ore che seguono, rilancia la linea del governo e l’arricchisce con un ultimatum che le agenzie di stampa rilanciano alle 16 e 47: se la missione non passerà sotto il comando Nato l’Italia si riprenderà il controllo delle basi. È una posizione netta. Dura. E la risposta della Francia non si fa attendere. "Alle autorità italiane non ho nulla da rispondere", fa sapere da Parigi il generale Philippe Ponthies, portavoce del ministero della Difesa. E aggiunge: "Per il momento la Nato non ha alcun ruolo in questa vicenda". Italia e Francia si sfidano. Frattini passa da una telefonata a un’altra e spiega la sua posizione con energia. "Senza Nato decidiamo noi sulle nostre basi. Tocca a noi la gestione. A trecentosessanta gradi. Insomma saremo noi a decidere su tutto: chi atterra, chi decolla, chi le può usare e chi no". Una pausa prepara il nuovo affondo: "Comando Nato o potremmo valutare l’idea di un comando nazionale separato". È un affondo contro il "protagonismo" di Sarkozy. Un messaggio al presidente francese che - per dirla con il premier - "vuole usare il conflitto libico per frenare il crollo interno in vista della nuova corsa all’Eliseo". La Francia però non molla e Ponthies ripete: "Siamo in un’operazione voluta dalle Nazioni Unite, portata avanti da una coalizione ad hoc, e alla quale la Nato potrebbe eventualmente portare il suo sostegno". Insomma, nessun passaggio di testimone. Sono ore complicate. Berlusconi e Frattini si muovono a tutto campo per cercare di isolare la posizione francese e anche a Bruxelles trovano sponde. "Il vostro atteggiamento è sproporzionato e va corretto in fretta", "ruggisce" il segretario della Nato Andres Fogh Rasmussen gelando l’ambasciatore francese all’alleanza atlantica. Berlusconi guarda da Roma e continua a muoversi in un lavoro diplomatico senza pause. "La linea francese è decapitare Gheddafi, la nostra no. Noi crediamo che ci sia ancora spazio per garantirgli un’uscita non drammatica", ripete sottovoce in più di una telefonata. Il premier sa che l’Italia non potrà più avere un ruolo di mediazione, ma sa anche che Lega Araba e Russia ancora possono dire la loro. I contatti tra Roma e Mosca si accavallano nelle ultime ore e c’è il lavoro diplomatico del premier dietro l’inattesa disponibilità di Dmitri Medvedev: "Possiamo compiere sforzi da mediatore per ricomporre il conflitto. Le possibilità ce l’abbiamo". È una partita dall’esito imprevedibile: da una parte l’Italia, dall’altra la Francia. A Bruxelles i cronisti aspettano Frattini e la prima domanda è quasi una provocazione: ministro c’è rammarico per il fatto che i francesi siano stati i primi a intervenire in Libia? Frattini è gelido: "All’Italia non piace avere il ruolo di <+corsivo>first striker<+tondo>, di chi sferra il primo colpo, e questo vale sempre". Poi torna a insistere sul passaggio del comando alla Nato. "Ha l’esperienza, la capacità e la struttura per potere garantire la condivisione delle responsabilità da parte di tutti gli alleati", ripete il ministro degli Esteri che chiosa: "Siamo solo al terzo giorno: saranno i fatti a parlare". E, intanto, Berlusconi in vista della trasferta al consiglio europeo in scena nel fine settimana a Bruxelles si prepara a sferrare un altro affondo: noi abbiamo le basi e le mettiamo a disposizioni ma quando arriverà l’ondata di immigrati nessuno potrà tirarsi indietro, nessun potrà dire "ci pensa solo l’Italia". Arturo Celletti
22 marzo 2011 Il cambiamento e l'Occidente Oltre la logica del gendarme È un paradosso, ma chi si oppone all’intervento sotto egida Onu per proteggere i civili libici – e di conseguenza contro il regime di Gheddafi, inutile nasconderselo – sembra vittima dell’antica sindrome del gendarme. La tentazione di imporre un ordine, di incasellare ogni Paese in una rigida scacchiera, di non tollerare mutamenti che aprano scenari di incertezza è infatti un retaggio del mondo bipolare della Guerra Fredda, o dell’idea unipolare dell’iperpotenza americana alla fine della storia, come ci si era illusi dopo il crollo del Muro di Berlino. L’oggettivo ridimensionamento del ruolo americano, assecondato da Obama, apre oggi spazi tanto imprevisti quanto vasti per sommovimenti di amplissima portata, a partire dal Maghreb e dal Medio Oriente. Vedere in qualunque rivolgimento politico l’opportunità per una presa del potere da parte di al-Qaeda o in ciascuna sollevazione popolare un’insidia per gli interessi delle democrazie consolidate – vuoi economici, vuoi legati alle migrazioni – pare la risposta a un riflesso che non vuole fare i conti con un quadro mutato e che non necessariamente sarà peggiore del precedente. Certo, il cambio di atteggiamento verso il rais di Tripoli è riuscito infine a essere tanto repentino quanto tardivo. Tuttavia, ha fatto onestamente i conti con la storia in marcia: una rivolta interna che ha raggiunto massa critica e convinzione nella possibilità di un successo grazie al contagio positivo delle rivolte in Tunisia e in Egitto. E lo stesso intervento militare in Libia può non rispondere a una logica di puro cambio di regime a uso di qualche interesse particolare quando si limitasse davvero a impedire il massacro di inermi cittadini, lasciando poi alle logiche interne del Paese lo sbocco finale della crisi. La logica del gendarme alle incognite preferisce l’ingessatura di situazioni incancrenite, il pugno di ferro alla dinamica delle società, la quale può o deve – secondo i punti di vista – essere agevolata nella direzione di maggiori aperture democratiche e di fondamentale rispetto delle minoranze, ma che non può (e forse non deve) venire necessariamente guidata dall’esterno. E spesso, oggi, non può essere guidata perché non esiste oggettivamente un singolo attore che abbia volontà e capacità di incanalare lungo sponde precostituite il fiume impetuoso del cambiamento. Nel ribollente scenario mediorientale, che prima avevamo salutato come culla di un nascente movimento di modernizzazione, adesso rischiamo di vedere soltanto i rischi di un’involuzione fondamentalista e una sorgente di caos che porterà nuovi immigrati sulle nostre coste. Magari con un crescente pericolo di terrorismo. Le dinamiche avviate hanno bisogno di tempo e di respiro, i loro esiti non sono necessariamente scontati. Ciò che possiamo imparare, mentre ancora i nostri aerei pattugliano i cieli libici, è che lo logica del gendarme, dell’ordine e dell’opportunismo non risulta più facilmente praticabile. Un mondo multipolare faticherà – ad esempio – a tenere a bada un Iran aggressivo e sempre più vicino al dotarsi dell’arma atomica, ma potrà anche lasciare emergere dalla camicia di forza degli schieramenti quegli spiragli che permettono il risveglio di nazioni che sembravano condannate a rimanere sotto il giogo di autocrati utili solo a chi faceva affari con loro. Ecco allora che evitare in futuro abbracci interessati e imbarazzanti con i leader che opprimono i propri popoli è la necessaria e coerente continuazione della scelta di intervenire per fermare Gheddafi. E che tale rifiuto sia la premessa per nuovo ordine, frutto sofferto non soltanto di ingerenze con secondi fini e di velleità di mettere la storia al guinzaglio. Andrea Lavazza
2011-03-19 19 marzo 2011 MAGHREB IN FIAMME Libia, raid aerei e missilistici Bombe su Sirte, colpiti radar Pioggia di missili si è abbattuta sulla Libia. E’ scattata l’operazione "Odissey Dawn" Odissea all’alba), alla quale prendono parte al momento Francia, GranBretagna e Stati Uniti. Italia e Canada, gli altri due Paesi che hanno aderito alla coalizione internazionale, non hanno ancora preso parte con propri aerei ai raid. L’Italia sta però fornendo un rilevante supporto logistico con la messa a disposizione di ben sette basi militari. Secondo fonti statunitensi, sono almeno 110 i missili da crociera Tomahawk lanciati su una ventina di obiettivi "sensibili": batterie contraeree e depositi di carburante. La tv libica denuncia gli "attacchi dei crociati" mentre molti cittadini libici si sono schierati come scudi umani attorno al bunker del Colonnello a Tripoli. I primi missili sono partiti dai jet francesi alle 17:45 che hanno centrato quattro carri armati di Gheddafi. A Tobruk è esplosa la gioia degli insorti che seguivano su un maxi-schermo la diretta della tv satellitare Al Jazira. Centinaia di profughi provenienti dalla città libica di Bengasi, teatro oggi di violenti scontri, si stanno affollando lungo il valico di Sallum, al confine con l'Egitto. La tv satellitare al-Arabiya, riferisce dell'arrivo di centinaia di libici, in fuggiti dalle loro case dopo l'arrivo delle brigate di Muammar Gheddafi per evitare di rimanere vittima dei bombardamenti del regime contro la città, roccaforte degli insorti. Almeno 40 persone sono morte nell'attacco delle forze di Gheddafi stamani a Bengasi. Lo ha detto Mustafa Gheriani, portavoce del Media Committee del Consiglio transitorio libico. Gheriani ha precisato che si tratta del bilancio stimato, prima che lasciasse Bengasi per Tobruk dove ha incontrato i media internazionali. Numerosi cittadini libici, intanto, si starebbero radunando su obiettivi di eventuali raid contro Tripoli da parte della comunità internazionale. Lo ha riferito l'agenzia di stampa libica Jana. Se la notizia fosse confermata significherebbe che alcuni cittadini libici sono disposti a fare da scudi umani per impedire i raid. In questo senso la Croce Rossa internazionale ha chiesto alla parti coinvolte nel conflitto libico di rispettare la normativa umanitaria, permettendo agli staff medici di raggiungere i luoghi colpiti. La Croce rossa ha ricordato che il diritto umanitario vieta l'utilizzo della popolazione come scudo umano per prevenire gli attacchi. IL VERTICE DI PARIGI DÀ IL VIA LIBERA Via libera a un'azione militare contro Gheddafi dal vertice di Parigi. L'attacco avverrà "nelle prossime ore". Gheddafi "è ancora in tempo per evitare il peggio conformandosi senza ritardi a tutte le richieste della Comunita internazionale". Lo ha detto il presidente francese Nicolas Sarkozy al termine del summit. "La porta della diplomazia si riaprirà quando la sua aggressione finirà - ha aggiunto il presidente -. La nostra determinazione è totale. Ognuno è messo davanti alle sue responsabilità". Numerosi caccia Rafale francesi stanno sorvolando Bengasi e l'intero territorio libico in missione di ricognizione. Lo rivelano fonti militari francesi. I Rafale sono decollati poco dopo mezzogiorno dalla base francese di Saint Dizier, nell'est della Francia, dove sono abitualmente di stanza, hanno spiegato le fonti militari francesi. Secondo le fonti, la missione di ricognizione dovrebbe durare tutto il pomeriggio e i caccia non hanno finora incontrato alcuna difficoltà, dopo alcune ore di sorvolo del territorio libico. I Rafale sono utilizzati in missioni di ricognizione, bombardamento e difesa aerea. I voli di ricognizione sono cominciati mentre a Parigi si teneva il vertice internazionale straordinario sulla Libia. I caccia francesi sulla Libia stanno impedendo attacchi aerei delle forze di Gheddafi contro Bengasi. Lo ha detto il presidente francese Nicolas Sarkozy. BERLUSCONI: PER ORA SOLO BASI. SE SERVONO RAID "Per ora solo basi, se servono anche raid. Vorrei tranquillizzare i nostri concittadini: le nostre forze armate ieri hanno fatto un esame approfondito della disponibilità di armi e di missili del regime libico, e la loro conclusione certa è che non ci sono in questo momento armi in dotazione della Libia che possano raggiungere il territorio italiano". Lo ha detto il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in una conferenza stampa all'ambasciata d'Italia a Parigi al termine del vertice. "Per quanto riguarda il momento" in cui l'Italia potrebbe partecipare direttamente alle operazioni militari "noi abbiamo ancora la speranza, visto questo schieramento globale, non solo dell'Occidente, ma anche del mondo arabo, che ci possa essere un ripensamento da parte del regime libico". "Si tratta - ha aggiunto - di una soluzione" che il premier auspica sia giudicata di propria "convenienza dallo stesso regime", che così può porre fine alle sue azioni contro i civili. "La posizione della Lega è una posizione che risiede nella prudenza anche personale dell'onorevole Bossi che ieri ha auspicato che posizioni come quelle della Germania potessero essere seguite anche da parte nostra, tuttavia questo non è possibile visto che le basi di cui noi disponiamo sono determinanti". Così il presidente del Consiglio ha risposto a proposito delle cautele del Carroccio. Il capo del governo ha ricordato che l'Italia è "il Paese geograficamente più prossimo alla Libia". NAPOLITANO COMPIACIUTO INTESA VERTICE PARIGI Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, è stato informato telefonicamente dal Presidente del Consiglio dei Ministri, Silvio Berlusconi, dell'andamento e dell'esito della riunione di Parigi. Secondo quanto riferisce un comunicato del Quirinale, il capo dello Stato si è compiaciuto dell'importante intesa raggiunta, per il contributo dato e per l'impegno assunto dall'Italia. TORNADO ITALIANI RISCHIERATI A TRAPANI Sono stati rischierati a Trapani i caccia Tornado dell'Aeronautica militare che potrebbero essere impiegati sulla Libia: si tratta dei Tornado Ecr di Piacenza, specializzati nella distruzione delle difese missilistiche e radar, e dei Tornado Ids di Ghedi (Brescia), con capacità di attacco. Insieme ai Tornado, sono stati schierati nella stessa base anche i caccia Eurofighter di stanza a Grosseto. Nella base di Trapani sono già schierati dei caccia F-16, aerei radar Awacs della Nato e aerei per il rifornimento in volo. LA BATTAGLIA DI BENGASI Forte bombardamento su Bengasi, la città controllata dagli insorti, dopo l'arrivo delle forze pro-Gheddafi. Il governo libico: "Le bande di al-Qaeda ci hanno attaccato, abbiamo risposto per autodifesa". al Jazira ha riferito che le forze fedeli al rais attaccano la città dalla costa e da sud. Lega Araba: "Obiettivo prioritario è arrivare a un cessate il fuoco". Migliaia di persone stanno fuggendo da Bengasi, sotto attacco da questa mattina. Intanto è in corso il vertice di Parigi: attacco imminente. OBAMA E CLINTON: SCOPO DELLA MISSIONE È DIFENDERE I CIVILI "Gli Stati Uniti, come il Brasile, condannano gli abusi di diritti umani in Libia". Lo ha detto il presidente degli Stati Uniti Barack Obama parlando in conferenza stampa congiunta con il presidente brasiliano Dilma Roussef. Obama si trova in visita in Brasile. "Il consenso tra noi - ha detto Obama riferendosi a membri della coalizione - è forte, ed è chiara la nostra determinazione. Il popolo libico deve essere protetto e, se non finiranno le violenze contro i civili, siamo pronti ad agire con urgenza". "Voglio essere molto chiara: gli Stati Uniti avranno il compito di sostenere e appoggiare la coalizione internazionale perchè venga rispettata la risoluzione dell'Onu". Lo ha detto il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, parlando della crisi libica, al termine del vertice di Parigi. "Hanno detto che c'era cessate il fuoco - ha spiegato la Clinton -, ma la realtà sul campo è molto diversa: gli attacchi di Gheddafi sui civili continuano intorno e anche dentro Bengasi". "Oggi ci siamo riuniti qui a Parigi per discutere su come lavorare insieme per applicare la risoluzione Onu: se ritardiamo metteremo a rischio altri civili in Libia", ha continuato il segretario di Stato. GHEDDAFI A SARKOZY-CAMERON, VE NE PENTIRETE Il leader libico Gheddafi ha scritto in una lettera al presidente francese Sarkozy e al premier britannico Cameron che le potenze occidentali non hanno diritto di intervenire in Libia e che "si pentiranno" della loro ingerenza.Secondo quanto detto dal portavoce del governo libico Mussa Ibrahim in una conferenza stampa, la lettera, oltre che ai leader francese e britannico, è indirizzata anche al segretario generale dell'Onu, Ban ki-Moon. Nella missiva Gheddafi ha scritto che ogni azione militare contro la Libia sarebbe una "un'ingiustizia, una chiara aggressione... ve ne pentirete se interverrete nei nostri affari interni". "La Libia non è vostra - prosegue la missiva, citata da al Jaeera -. Voi non avete il diritto di intervenire nei nostri affari interni. Questo è il nostro Paese, non è il vostro paese. Noi non potremmo sparare un solo proiettile contro il nostro popolo". Le forze di Gheddafi sono entrate a Bengasi, dove stamani si erano udite forti espolsioni. L'ambasciatore francese alle Nazioni Unite Gerard Araud ha detto che un intervento militare contro la Libia potrebbe scattare già oggi dopo il summit in programma a Parigi tra Ue, Unione Africana, Lega Araba e Stati Uniti. A Misurata 25 i morti. Il ministro degli Esteri Franco Frattini annuncia l'uso di jet italiani se Tripoli violerà la no fly zone. Messe a disposizioni sette basi aeree nel nostro Paese. Per Gheddafi la risoluzione dell'Onu è "sfacciato colonialismo". AMR MUSSA, OBIETTIVO PRIORITARIO CESSATE FUOCO "L'obiettivo principale in questo momento è di arrivare ad un cessate il fuoco nel più breve tempo possibile per essere sicuri che non ci sia nessuna azione contro il popolo libico". Lo ha detto il segretario generale della Lega araba Amr Mussa, al seggio per votare al referendum costituzionale, prima di partire per Parigi, dove oggi si tiene il vertice sulla Libia con Ue e Unione africana. Il segretario generale della Lega araba ha spiegato che al vertice di Parigi sosterrà la necessità di mantenere l'unità territoriale della Libia e "di non intoccare la suo sovranità, respingendo l'ingresso di qualsiasi forza sul suo territorio". Mussa ha sottolineato che la priorità è la protezione dei civili.
19 marzo 2011 L'Occidente, il mondo arabo e l'intervento militare Un'occasione per avvicinare le due sponde del Mediterraneo Almeno un primo effetto, la Risoluzione 1973 dell’Onu che autorizza gli Stati membri a ricorrere alla forza per porre fine alla guerra dichiarata da Gheddafi al suo popolo sembra averlo già ottenuto: il raìs avrebbe proclamato una tregua e smesso di bombardare i suoi stessi cittadini. Può darsi che ciò si traduca in uno stallo più o meno prolungato, durante il quale l’isolamento internazionale del colonnello e del suo regime, potranno generare frutti. Ma può anche darsi che tutto si riduca a un bluff e che l’azione militare si renda necessaria. I rischi di una simile mossa erano elevati una settimana fa e restano tali oggi. Ma quello che è radicalmente cambiato è lo scenario all’interno del quale tale mossa si inscrive e che la rende oggi, non solo opportuna, ma persino necessaria. Il maggiore cambiamento legale intervenuto è stato, evidentemente, l’adozione della Risoluzione Onu. Essa conferisce un quadro di legalità internazionale a un’azione militare, al punto che persino il regime libico sostiene tartufescamente di essere costretto ad adeguarsi alla richiesta di cessate il fuoco "essendo la Libia membro delle Nazioni Unite". Ma c’è un altro l’elemento di rilevanza straordinaria che si è verificato in questi giorni (e che ha consentito al Consiglio di Sicurezza di muoversi su formale proposta del Libano), e cioè la richiesta di un intervento militare occidentale da parte della Lega araba. Così facendo, essa ha posto l’aggressione del colonnello Gheddafi contro il suo popolo sullo stesso piano dell’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein nel 1990. È un fatto clamoroso per due motivi. In primo luogo, perché per la prima volta un’istituzione internazionale politicamente debole come la Lega araba si assume la responsabilità tutta politica di affermare che quando la repressione interna valica certi limiti diventa inaccettabile. In secondo luogo, perché essa pone fine a quella paura occidentale di interferire in quel che sta accadendo a sud del Mediterraneo che rappresenta insieme un alibi e un tabù per i governi dell’Occidente. Nel chiedere aiuto all’Occidente – perché di questo si tratta – la Lega araba ci ricorda che il mondo è ancora uno, e ci rammenta che di fronte a una simile richiesta la non interferenza equivarrebbe a una complicità. È questo che ci consente di riallacciare un discorso politico tra le due sponde del Mediterraneo che l’avvio inatteso delle rivoluzioni, la loro evoluzione imprevista e le nostre paure ci avevano fatto compiutamente interrompere. In termini di scenario più complessivo, quello che appare evidente è che per la comunità internazionale – per l’Occidente che al suo interno continua a pesare parecchio e per l’Italia che nel Mediterraneo è immersa – la sopravvivenza politica di Gheddafi rappresenterebbe il male peggiore per diversi motivi. In termini di principio, a livello di comunità internazionale, perché attesterebbe che la violenza paga sempre, a condizione di essere usata senza remore di nessun tipo. In termini più politici, a livello occidentale ed europeo, perché la nostra passività non sarebbe percepita come benevola da parte di un Gheddafi vittorioso, mentre sarebbe considerata complice indifferenza dagli insorti sconfitti, parte dei quali potrebbe cadere vittima della fascinazione qaedista. Così che potremmo ritrovarci bersaglio di azioni ostili sia ad opera di Gheddafi sia per mano di quei suoi nemici che la nostra ignavia avrebbe trasformato anche in nostri nemici. A livello nazionale, infine, perché se Gheddafi dovesse malauguratamente vincere, per non perdere la faccia dovrebbe per forza colpire gli interessi economici, di sicurezza e – mi si passi la forzatura – "migratori" di chi sarebbe più vulnerabile rispetto alle sue ritorsioni, cioè l’Italia. Nessuna timidezza farà di Gheddafi nuovamente un possibile socio d’affari, mentre solo la partecipazione convinta alle azioni che si dovessero rendere necessarie potrà collocare l’Italia tra i Paesi cui la nuova Libia sarà riconoscente: unica garanzia realisticamente possibile per la tutela dei nostri cospicui interessi oltremare. Vittorio Emanuele Parsi
19 marzo 2011 LIBIA Battaglia a Bengasi e Misurata Vertice Parigi: "Pronti al Raid" Forte bombardamento su Bengasi, la città controllata dagli insorti, dopo l'arrivo delle forze pro-Gheddafi. Il governo libico: "Le bande di al-qaeda ci hanno attaccato, abbiamo risposto per autodifesa". Al Jazira ha riferito che le forze fedeli al rais attaccano la città dalla costa e da sud. Lega Araba: "Obiettivo prioritario è arrivare a un cessate il fuoco". Migliaia di persone stanno fuggendo da Bengasi, sotto attacco da questa mattina. Intanto è in corso il vertice di Parigi: attacco imminente. Gli attacchi di questa mattina su Bengasi hanno provocato almeno 26 morti, secondo quanto riferisce l'emittente Al Jazira, che cita fonti ospedaliere. I feriti inoltre sono almeno 40. GHEDDAFI A SARKOZY-CAMERON, VE NE PENTIRETE Il leader libico Gheddafi ha scritto in una lettera al presidente francese Sarkozy e al premier britannico Cameron che le potenze occidentali non hanno diritto di intervenire in Libia e che "si pentiranno" della loro ingerenza.Secondo quanto detto dal portavoce del governo libico Mussa Ibrahim in una conferenza stampa, la lettera, oltre che ai leader francese e britannico, è indirizzata anche al segretario generale dell'Onu, Ban ki-Moon. Nella missiva Gheddafi ha scritto che ogni azione militare contro la Libia sarebbe una "un'ingiustizia, una chiara aggressione... ve ne pentirete se interverrete nei nostri affari interni". "La Libia non è vostra - prosegue la missiva, citata da al Jaeera -. Voi non avete il diritto di intervenire nei nostri affari interni. Questo è il nostro Paese, non è il vostro paese. Noi non potremmo sparare un solo proiettile contro il nostro popolo". Le forze di Gheddafi sono entrate a Bengasi, dove stamani si erano udite forti espolsioni. L'ambasciatore francese alle Nazioni Unite Gerard Araud ha detto che un intervento militare contro la Libia potrebbe scattare già oggi dopo il summit in programma a Parigi tra Ue, Unione Africana, Lega Araba e Stati Uniti. A Misurata 25 i morti. Il ministro degli Esteri Franco Frattini annuncia l'uso di jet italiani se Tripoli violerà la no fly zone. Messe a disposizioni sette basi aeree nel nostro Paese. Per Gheddafi la risoluzione dell'Onu è "sfacciato colonialismo". AMR MUSSA, OBIETTIVO PRIORITARIO CESSATE FUOCO "L'obiettivo principale in questo momento è di arrivare ad un cessate il fuoco nel più breve tempo possibile per essere sicuri che non ci sia nessuna azione contro il popolo libico". Lo ha detto il segretario generale della Lega araba Amr Mussa, al seggio per votare al referendum costituzionale, prima di partire per Parigi, dove oggi si tiene il vertice sulla Libia con Ue e Unione africana. Il segretario generale della Lega araba ha spiegato che al vertice di Parigi sosterrà la necessità di mantenere l'unità territoriale della Libia e "di non intoccare la suo sovranità, respingendo l'ingresso di qualsiasi forza sul suo territorio". Mussa ha sottolineato che la priorità è la protezione dei civili.
19 marzo 2011 L'Occidente, il mondo arabo e l'intervento militare Un'occasione per avvicinare le due sponde del Mediterraneo Almeno un primo effetto, la Risoluzione 1973 dell’Onu che autorizza gli Stati membri a ricorrere alla forza per porre fine alla guerra dichiarata da Gheddafi al suo popolo sembra averlo già ottenuto: il raìs avrebbe proclamato una tregua e smesso di bombardare i suoi stessi cittadini. Può darsi che ciò si traduca in uno stallo più o meno prolungato, durante il quale l’isolamento internazionale del colonnello e del suo regime, potranno generare frutti. Ma può anche darsi che tutto si riduca a un bluff e che l’azione militare si renda necessaria. I rischi di una simile mossa erano elevati una settimana fa e restano tali oggi. Ma quello che è radicalmente cambiato è lo scenario all’interno del quale tale mossa si inscrive e che la rende oggi, non solo opportuna, ma persino necessaria. Il maggiore cambiamento legale intervenuto è stato, evidentemente, l’adozione della Risoluzione Onu. Essa conferisce un quadro di legalità internazionale a un’azione militare, al punto che persino il regime libico sostiene tartufescamente di essere costretto ad adeguarsi alla richiesta di cessate il fuoco "essendo la Libia membro delle Nazioni Unite". Ma c’è un altro l’elemento di rilevanza straordinaria che si è verificato in questi giorni (e che ha consentito al Consiglio di Sicurezza di muoversi su formale proposta del Libano), e cioè la richiesta di un intervento militare occidentale da parte della Lega araba. Così facendo, essa ha posto l’aggressione del colonnello Gheddafi contro il suo popolo sullo stesso piano dell’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein nel 1990. È un fatto clamoroso per due motivi. In primo luogo, perché per la prima volta un’istituzione internazionale politicamente debole come la Lega araba si assume la responsabilità tutta politica di affermare che quando la repressione interna valica certi limiti diventa inaccettabile. In secondo luogo, perché essa pone fine a quella paura occidentale di interferire in quel che sta accadendo a sud del Mediterraneo che rappresenta insieme un alibi e un tabù per i governi dell’Occidente. Nel chiedere aiuto all’Occidente – perché di questo si tratta – la Lega araba ci ricorda che il mondo è ancora uno, e ci rammenta che di fronte a una simile richiesta la non interferenza equivarrebbe a una complicità. È questo che ci consente di riallacciare un discorso politico tra le due sponde del Mediterraneo che l’avvio inatteso delle rivoluzioni, la loro evoluzione imprevista e le nostre paure ci avevano fatto compiutamente interrompere. In termini di scenario più complessivo, quello che appare evidente è che per la comunità internazionale – per l’Occidente che al suo interno continua a pesare parecchio e per l’Italia che nel Mediterraneo è immersa – la sopravvivenza politica di Gheddafi rappresenterebbe il male peggiore per diversi motivi. In termini di principio, a livello di comunità internazionale, perché attesterebbe che la violenza paga sempre, a condizione di essere usata senza remore di nessun tipo. In termini più politici, a livello occidentale ed europeo, perché la nostra passività non sarebbe percepita come benevola da parte di un Gheddafi vittorioso, mentre sarebbe considerata complice indifferenza dagli insorti sconfitti, parte dei quali potrebbe cadere vittima della fascinazione qaedista. Così che potremmo ritrovarci bersaglio di azioni ostili sia ad opera di Gheddafi sia per mano di quei suoi nemici che la nostra ignavia avrebbe trasformato anche in nostri nemici. A livello nazionale, infine, perché se Gheddafi dovesse malauguratamente vincere, per non perdere la faccia dovrebbe per forza colpire gli interessi economici, di sicurezza e – mi si passi la forzatura – "migratori" di chi sarebbe più vulnerabile rispetto alle sue ritorsioni, cioè l’Italia. Nessuna timidezza farà di Gheddafi nuovamente un possibile socio d’affari, mentre solo la partecipazione convinta alle azioni che si dovessero rendere necessarie potrà collocare l’Italia tra i Paesi cui la nuova Libia sarà riconoscente: unica garanzia realisticamente possibile per la tutela dei nostri cospicui interessi oltremare. Vittorio Emanuele Parsi
19 marzo 2011 VENERDì DELLA COLLERA Yemen, 52 manifestanti uccisi a Sanaa È salito a 52 morti e 127 feriti il bilancio della strage compiuta ieri da cecchini appostati sui tetti contro i manifestanti dell'opposizione nella capitale dello Yemen, Sanaa. Il presidente Ali Abdullah Saleh ha dichiarato lo stato d'emergenza in tutto il Paese. Le proteste di ieri sono state le più grandi finora e anche la risposta delle forze governative è stata la più violenta dall'inizio della rivolta un mese fa. Secondo alcuni testimoni a sparare sulla folla sarebbero stati cecchini che indossavano uniformi dell'esercito yemenita e agenti di sicurezza in borghese. Sempre ieri in Yemen si è dimesso il ministro del Turismo, Nabil al-Faqih, che si è anche dimesso dal partito per protestare contro le uccisioni di civili. SIRIA. Cinque persone sono morte e almeno 44 sono rimaste ferite a seguito dell'intervento delle forze di sicurezza, che hanno provato a placare le centinaia di manifestanti scese in strada a Daraa per chiedere più libertà. Manifestazioni sono state inoltre organizzate nelle città di Homs, Banyas, e nella capitale Damasco. BAHRAIN. L'esercito ha demolito il monumento della perla di Manama, alto 90 metri e diventato simbolo della sommossa sciita contro la monarchia sunnita. Il monumento è stato per lungo tempo un ricordo della storia del Paese ma di recente è stato associato alle proteste che hanno preso piede in Bahrain. Le forze di sicurezza hanno invaso il campo di protesta mercoledì, uccidendo almeno 5 persone, compresi 2 poliziotti. I disordini in Bahrain, in cui sono morte almeno 12 persone, hanno risvegliato tensione settarie nella regione. L'Arabia Saudita e altri Paesi sunniti del Golfo hanno inviato truppe nel piccolo regno, mentre l'Iran si è schierato dalla parte dei manifestanti sciiti e ha richiamato il suo ambasciatore a Manama. IRAQ. Migliaia di persone hanno manifestato nelle città a maggioranza sciita in tutto il Paese per condannare gli attacchi, definiti "settari", delle forze di sicurezza del Bahrain contro i dimostranti sciiti. L'invio di truppe nel regno da parte dei Paesi sunniti del Golfo potrebbe peggiorare le relazioni tra l'Iraq e l'Arabia Saudita, che considera il governo iracheno a maggioranza sciita una pedina dell'Iran. IRAN. L'ayatollah Ahmad Jannati, iraniano, ha esortato la maggioranza sciita del Bahrain ad andare avanti con le proteste fino alla morte o alla vittoria, contro la monarchia sunnita del piccolo regno. Dopo il momento di preghiera migliaia di iraniani hanno marciato e cantato contro i governanti del Bahrain e dell'Arabia Saudita. Non ci sono legami diretti tra gli sciiti in Bahrain e Iran, ma il piccolo regno conta molto nella regione. I leader del Golfo sono preoccupati che eventuali conquiste degli sciiti in Bahrain potrebbero rafforzare l'Iran nei confronti del rivale Arabi Saudita. Teheran ha protestato quando Riyad ha inviato le truppe in Bahrain insieme ad altri Paesi del Golfo.
2011-03-18 18 marzo 2011 LIBIA Tripoli: cessate il fuoco La Nato scalda i motori Raid aerei internazionali contro il regime libico di Muhammar Gheddafi avverranno "in tempi rapidì, probabilmente nelle "prossime ore". Lo ha annunciato il portavoce del governo di Parigi, Francois Baroin, mentre Tripoli annuncia un cessate il fuoco. All'intervento, che vede la Francia in prima fila, sono pronti a partecipare Paesi come Gran Bretagna, Norvegia, Qatar ed Emirati arabi per attuare la no fly zone autorizzata dall'Onu. Nel voto della risoluzione 1973, la Germania si è astenuta assieme a Russia, Cina, India e Brasile. L'Italia, nel quadro dell'attuazione della risoluzione Onu per la crisi in Libia, potrebbe mettere a disposizione della coalizione internazionale non solo le basi militari ma non è escluso neanche un coinvolgimento di mezzi e uomini. A quanto si apprende, è questa l'indicazione emersa dalla riunione del Consiglio dei ministri straordinario a Palazzo Chigi. La notte scorsa Gheddafi aveva promesso di "trasformare in inferno la vita" di chi attaccherà la Libia, dopo che ieri sera il Consiglio di sicurezza Onu ha dato il proprio via libera all'uso della forza. Ma oggi il ministro degli esteri libico Mussa Kussa ha annunciato un cessate il fuoco immediato, dopo che per tutta la notte e la mattinata erano proseguiti i combattimenti. A Misurata, ad est di Tripoli, ci sarebbero almeno quattro morti. Una fonte degli insorti ha detto ad al Jazira che blindati delle forze di Gheddafi hanno bombardato Misurata per oltre tre ore e che i 'lealistì vogliono usare civili come scudi umani contro possibili attacchi aerei delle forze internazionali. Combattimenti anche a Nalut e Zenten, due cittadine della Libia occindentale, sotto il controllo dell'opposizione. Le forze del regime hanno attaccato ieri sera Zenten, 145 chilometri a sud-est di Tripoli, e "ci sono stati degli scontri violenti con i ribelli. I combattimenti sono continuati questa mattina", ha riferito all'agenzia France presse un testimone, aggiungendo: "Si sono contate vittime dalle due parti". "Gheddafi - ha continuato - sta inviando dei giovani senza esperienza che non conoscono questa regione montagnosa. Le sue forze hanno subito importanti danni". A Nalut, i ribelli hanno attaccato ieri sera una posizione dei partigiani del colonnello e hanno preso "tutte le loro armi e munizioni". "Abbiamo fatto prigionieri diversi militari di Gheddafi". Intanto, i ministri francesi sono stati convocati dal presidente Nicolas Sarkozy per le 16 a Parigi per consultazioni sulla situazione in Libia. Mentre il primo ministro britannico David Cameron ha fissato una riunione di emergenza del suo cabinet. È invece già iniziata palazzo Chigi la riunione del comitato interministeriale per fare il punto della situazione. All'incontro presieduto dal premier Silvio Berlusconi partecipano, tra l'altro, il ministro della Difesa Ignazio La Russa, il titolare della Farnesina Franco Frattini, il Guardasigilli Angelino Alfano, Giulio Tremonti, titolare del Tesoro e i vertici dei servizi di sicurezza. Intanto, da Bruxelels, Eurocontrol, l'agenzia europea per il controllo del traffico aereo, ha annunciato di aver vietato tutti i voli civili verso la Libia.
18 marzo 2011 Le mosse di Occidente e Stati arabi, la resistenza di Gheddafi Il rischio è che si arrivi tardi e si spacchi la Libia in due parti
Vista con gli occhi degli insorti libici, la quasi certa decisione (il voto era nella notte) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di istituire una 'no-fly zone' sulla Libia sembra arrivata troppo tardi, come una beffa: ormai la bilancia militare si è rovesciata e quell’impasto strano di mercenari, forze lealiste e gruppi tribali fedeli al clan Gheddafi sta stringendo il proprio cerchio su Bengasi. Ma una battaglia, come si dice, è perduta solo nel momento in cui è perduta, mai prima: se anche sembrano tramontate le speranze un po’ ingenue di un’uscita di scena quasi pacifica del colonnello, sul modello dei presidenti autocrati di Tunisia ed Egitto, rimangono tuttavia evidenti le fragilità e l’isolamento del regime di Tripoli. Una 'no fly-zone' di per sé non rappresenta una misura risolutiva, a meno che Gheddafi – certo non noto per la ponderatezza delle sue decisioni – non decida di sfidare la comunità internazionale con mosse provocatorie, che scatenenino una massiccia reazione militare occidentale o un’implosione del regime. Ma se il Consiglio transitorio nazionale – i ribelli insomma – riuscissero a tenere Bengasi e ad arrivare a una tregua, allora gli scenari si moltiplicherebbero. Il potere libico è infatti molto fragile, come ha dimostrato la lentezza della sua reazione alla rivolta: non solo perché i suoi vertici sono sclerotizzati e corrotti, ma perché è strutturalmente debole l’architettura stessa del "potere diretto del popolo", come recitano lo slogan della Jamahiriyya: poche istituzioni formali che non riescono a gestire adeguatamente l’amministrazione interna. Per di più, Gheddafi è pressoché isolato anche nel Medio Oriente: è la stessa Lega Araba ad aver chiesto l’intervento delle Nazioni Unite e Washington insiste perché la 'no fly zone' sia gestita con anche la partecipazione degli Stati arabi. Inoltre, se le norme imposte dall’Onu fossero interpretate in modo 'energico', magari forzando un poco la mano, come vorrebbero Francia e Gran Bretagna e come non dispiace alla stessa Nato, la repressione brutale di Tripoli potrebbe essere effettivamente fermata. Ma a quel punto avremmo due Libie: una occidentale arroccata attorno ai Gheddafi – e forte della grande liquidità di soldi di cui ancora dispone (nonostante i beni congelati) – e una orientale, a disputarsi i centri petroliferi. Uno stallo che rischia di prolungarsi con conseguenze poco ponderabili, ma certo estremamente pericolose. I libici – per gestire l’industria petrolifera – devono affidarsi ai tecnici stranieri: in una situazione di incertezza e pericolo, la produzione non potrà che risentirne, influendo su di un mercato già estremamente nervoso. Ma ancora peggiore è la conseguenza politica: due governi deboli e in lotta sullo stesso territorio significano di fatto nessun governo. E uno stato semi-fallito in una posizione così strategica è un rischio alto per l’Europa e altissimo per l’Italia: non solo per l’immigrazione clandestina, ma per la possibile attività di islamici radicali, usciti a migliaia dalle prigioni libiche durante queste settimane. La frattura in due della Libia, infine, avrebbe conseguenze anche sui rapporti interni fra i Paesi dell’Unione europea. Al di là delle preoccupazioni umanitarie, non è infatti difficile scorgere interessi economici molto più concreti e cinici. L’appoggio agli insorti da parte francese e britannica riflette anche il desiderio di favorire un cambio di regime per rientrare in un mercato energetico di straordinaria importanza da cui sono esclusi; e la prudenza italiana, il timore di perdere una 'riserva economica' su cui abbiamo investito molto. Nel mondo arabo qualcuno ipotizza un compromesso fra le parti, improbabile però dopo tutto il sangue versato. E proprio quel sangue sembra suggerire che – per quanto ci spaventi l’incertezza – ben pochi scenari sul dopo-Gheddafi sembrano peggiori di questo lungo 'durante'. Riccardo Redaelli
18 marzo 2011 LE RIVOLTE NEL MONDO ARABO Yemen, polizia spara sui manifestanti: 30 vittime Precipita la crisi politica nello Yemen. La polizia e alcuni miliziani del regime hanno fatto strage di manifestanti a Sanaa. Durante una protesta nella centralissima Piazza del cambiamento, hanno aperto il fuoco ad altezza d'uomo uccidendo più di 30 manifestanti, e facendo almeno due cento feriti. Lo hanno riferito fonti mediche, sottolineando che l'ospedale principale è saturo e non può più accogliere le vittime. Testimoni oculari riferiscono che molti elicotteri stanno sorvolando la zona mentre mezzi blindati stanno prendendo posizione nel centro della città, dalla quale si innalzando colonne di fumo. Nell'università di Sanaa, dal 12 febbraio migliaia di studenti, avvocati e attori della società civile sono in sit in permanente per chiedere la fine del regime di Ali Abdullah Saleh, in carica da oltre 32 anni. Le prime grandi manifestazioni nella capitale Sanna e nella città meridionale di Aden sono iniziate il 16 febbraio mentre le prime vittime nella capitale risalgono al 23 febbraio, e sono due studenti morti per mano di attivisti pro regime. Dal 16 febbraio in tutto il Paese si susseguono quotidianamente marce di protesta anti-Saleh che trovano d'accordo anche il movimento secessionista del sud, e le due più potenti confederazioni tribali yemenite, la Hashed e la Baqil. L'opposizione in un estremo tentativo per evitare un bagno di sangue aveva, con il beneplacito dei vertici religiosi islamici, proposto a Saleh un piano di transizione che prevedeva una sua uscita graduale dal potere entro la fine del 2011, ricevendo un netto rifiuto.
2011-03-17 17 marzo 2011 LA CONTROFFENSIVA Bombardata Bengasi, truppe Gheddafi alla periferia Le forze di Muammar Gheddafi hanno lanciato l'assalto a Bengasi, roccaforte degli insorti. L'emittente Al Arabiya ha riferito di bombardamenti in corso su due quartieri della città, Bu Atni e Benina. Secondo Al Jazira, tuttavia, i ribelli sarebbero riusciti ad abbattere due aerei. Intanto, la tv libica Allibya sostiene che le truppe del Colonello sonoo giunte alle porte di Bengasi e hanno conquistato Zueitina, 150 chilometri più a sud. L'esercito ieri aveva detto agli abitanti di lasciare la zona. Ieri uno dei figli di Gheddafi, Saif al-Islam, ha detto a Euronews che la seconda città della Libia sarebbe caduta entro 48 ore. Gli sforzi diplomatici per mettere fine allo spargimento di sangue restano nel pantano. Tre settimane dopo la prima proposta per una no-fly zone, nessun accordo è stato raggiunto. Una bozza di risoluzione del Consiglio di sicurezza Onu su una zona di non sorvolo per proteggere i civili è circolata martedì dopo che una riunione dei ministri degli Esteri del G8 a Parigi non è riuscita ad arrivare all'accordo che la Francia auspicava. Intanto i ribelli hanno respinto i soldati di Gheddafi ad Ajdabiyah, 150 chilometri a sud di Bengasi. "La lentezza politica dell'Europa è disperante", "abbiamo il diritto-dovere di intervenire nella guerra in Libia per fermare i massacri della popolazione civile". Lo dice in un'intervista l'ex ministro francese degli Esteri Bernard Kouchner, per il quale "l'esperienza dell'ex Jugoslavia dimostra che la no-fly zonenon basta a fermare i massacri". Sarkozy, che ha proposto bombardamenti aerei mirati - afferma Kouchner - "è stato accusato di avere iniziative affrettate, di non essersi consultato abbastanza con gli altri partner europei. Ma ha detto solo le cose giuste, anzi forse ha parlato già troppo tardi. Il tempo gioca a favore di Gheddafi. Se aspettiamo ancora un pò sarà lui ad aver vinto e non ci sarà più nulla su cui discutere e riunirsi".
2011-03-15 15 marzo 2011 EMERGENZA EMIGRAZIONE Lampedusa, 35 migranti dispersi 1800 maghrebini, stop del Viminale È giallo sui 35 migranti che, secondo testimonianze raccolte a Lampedusa e confermate da fonti ufficiali della Capitaneria di porto, risultano dispersi a seguito di un naufragio avvenuto poco dopo la partenza dal porto tunisino di Zarzis, al largo delle coste della Tunisia, domenica sera. L'accaduto è emerso dai racconti di alcuni migranti giunti ieri sera su un barcone a Lampedusa. Cinque di loro hanno detto di essersi trovati a bordo della nave affondata, e di essere stati soccorsi in mare da un'altra imbarcazione. Tra gli ultimi arrivi sull'isola, anche un barcone con 45 persone giunto scortato da una unità militare. Tre di loro sono state portate via in autoambulanza. NAVE DALLA LIBIA, STOP DAL VIMINALE Tornano caldissime le acque del Canale di Sicilia in una giornata caratterizzata dal giallo della nave battente bandiera marocchina "Mistral express" e dalla ripresa in massa degli sbarchi a Lampedusa. Il traghetto maghrebino con 1.836 persone a bordo, perlopiù marocchini, è partito domenica da Tripoli diretto in Marocco ed è stato intercettato ieri pomeriggio dalla Marina maltese. Quindi l’imbarcazione si è diretta verso il porto siciliano di Augusta con l’intenzione dichiarata di effettuare rifornimento. A questo punto è scattato l’allarme. Il Viminale ha chiesto alla Difesa di inviare una unità navale per impedirne l’ingresso nelle nostre acque territoriali e alla Farnesina di acquisire informazioni sulla nazionalità dei passeggeri e sulle loro effettive intenzioni. In sostanza, davanti a una situazione non chiara, dal governo è arrivato uno stop. Il rischio per l’esecutivo è che i non comunitari, giunti nelle nostre acque territoriali, chiedano asilo proprio nel giorno in cui si contano a decine sbarchi e avvistamenti di barconi a Lampedusa. Ieri l’isola ha vissuto infatti uno dei momenti più critici dall’inizio dell’emergenza, con 22 avvistamenti di barconi nel canale di Sicilia, sei natanti recuperati e circa 410 migranti sbarcati. Per 136 di questi è stato necessario l’intervento della Guardia di Finanza e della Guardia costiera per il recupero in mare ,dato che le imbarcazioni, gravemente danneggiate, rischiavano di affondare. Sette tunisini sono stati soccorsi dalla Croce Rossa per ipotermia dopo 48 ore passate in mare. E nella notte sono previsti gli arrivi delle altre carrette del mare, che porteranno a quasi mille il numero dei migranti giunti sull’isola delle Pelagie. Intanto dovrebbe arrivare vicino alla Sicilia in piena notte il traghetto "Mistral Express". Secondo le informazioni fornite dall’imbarcazione, che ha chiesto di sostare nel porto siciliano di Augusta per fare rifornimento prima di ripartire alla volta del Marocco, a bordo vi sarebbero 1.715 passeggeri marocchini, 39 libici, 35 algerini, 26 egiziani, oltre a sette tunisini, e 14 subsahariani di diverse nazionalità oltre a 83 membri dell’equipaggio. Sarebbe stato lo stesso governo di Rabat ad affittare la nave per riportare a casa i connazionali in fuga dalla Libia, ma non sono chiare le reali intenzioni degli immigrati imbarcati. E, finché non ci saranno certezze, non sarà consentito l’accesso in acque italiane. Si tenterà piuttosto di effettuare il rifornimento in mare a meno di un’emergenza umanitaria. La Marina militare ha inviato in zona il pattugliatore "Sfinge", mentre la centrale operativa della Guardia costiera sta seguendo la rotta del traghetto. La vicenda ha innescato polemiche. Secondo il Pd, "il rifiuto preventivo del Viminale di concedere l’attracco della nave ad Augusta sarebbe incomprensibile, le norme internazionali ci impongono di verificare la presenza a bordo di persone che hanno il diritto di chiedere lo status di rifugiato". Secondo Laura Boldrini, portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, sarebbe un falso allarme: "Dalle notizie che abbiamo, è probabile che si tratti di un’evacuazione umanitaria e che la nave marocchina non abbia potuto rifornirsi a Tripoli. Finora i lavoratori in fuga dalla Libia sono tornati a casa". Paolo Lambruschi
15 marzo 2011 MAGHREB IN FIAMME Libia, raid a Zuara e Ajdabiya I caccia libici hanno condotto questa mattina nuovi raid aerei contro le postazioni dei ribelli nella città di Ajdabiya, in Cirenaica, e a Zuara, in Tripolitania. Lo riferisce l'inviato della tv araba al-Jazeera. Ad Ajdabiya è entrata in azione solo l'aviazione, mentre a Zuara si parla anche di intensi cannoneggiamenti da parte dei carri armati che si trovano nella periferia della città. GHEDDAFI: CHOCCATO DAGLI "AMICI" EUROPEI "La nostra guerra è contro al Qaida" ma se gli occidentali "si comportano con noi come hanno fatto in Iraq, la Libia uscirà dall'alleanza internazionale contro il terrorismo. Ci alleiamo con al Qaida e dichiariamo la guerra santa". Lo dice in un'intervista esclusiva al Giornale Muammar Gheddafi, spiegando di essere "realmente choccato dall'atteggiamento dei miei amici europei. In questa maniera hanno messo in pericolo e danneggiato una serie di grandi accordi sulla sicurezza, nel loro interesse e la cooperazione economica che avevamo". Il Colonello si sente "tradito" anche dal premier Silvio Berlusconi: "Non ho più alcun contatto con l'Italia e Berlusconi. Quando il vostro governo sarà sostituito dall'opposizione ed accadrà lo stesso con il resto del'Europa il popolo libico prenderà, forse, in considerazione nuove relazioni con l'Occidente". Gheddafi assicura quindi che non c'è spazio di dialogo con i ribelli perchè "il popolo" è dalla sua parte. È "la gente" che "chiede di intervenire" contro le "bande armate. Negoziare con i terroristi legati ad Osama Bin Laden -rimarca il leader libico- non è possibile. Loro stessi non credono al dialogo, ma pensano solo a combattere e ad uccidere. La popolazione ha paura di questa gente e dobbiamo liberarla".
2011-03-14 14 marzo 2011 MAGHREB IN FIAMME Libia, Gheddafi verso Bengasi Mosca mette al bando il rais La tv di Stato libica ha annunciato che la città di Brega, nell'est, è stata "ripulita delle bande armate"'. Gli insorti si stavano ritirando dopo i massicci bombardamenti da parte delle forze fedeli a Gheddafi. Ieri si erano ritirati da al-Uqaila, che è caduta nelle mani delle forze fedeli al colonnello Gheddafi. A Bengasi interrotte tutte le comunicazioni dei telefoni cellulari.
"A Tobruk quattro quartieri della periferia hanno alzato la bandiera verde"' delle forze leali a Muammar Gheddafi. Lo ha affermato il portavoce delle forze armate libiche Milad Hussein Al Foghi. Il colonnello ha poi precisato che nell'immediato l'obiettivo dei militari libici è quello di arrivare alle porte di Ajdabiya, che dista circa 250 chilometri da Bengasi ed e' l'obiettivo più vicino dopo la conquista ieri di Ras Lanuf e Marsa El Brega. Le forze armate libiche marciano verso Bengasi per ''liberare la popolazione ostaggio dei terroristi'' dopo la vittoriosa offensiva verso est delle ultime ore. Lo ha affermato il portavoce delle forze armate libiche Minad Hussein incontrando i giornalisti a Tripoli. La televisione di stato libica ha affermato che i porti petroliferi nel Paese sono "sicuri" e stanno riprendendo le attività dopo la fine degli "atti di sabotaggio". Ha quindi invitato le compagnie petrolifere a tornare a caricare il greggio e i lavoratori degli impianti a tornare al lavoro. Stati Uniti e paesi occidentali del Consiglio di Sicurezza dell'Onu si sono detti soddisfatti per la decisione presa dalla Lega Araba di chiedere ufficialmente l'istituzione di una no-fly zone internazionale sui cieli della Libia, giudicandola però un passo avanti insufficente per essere decisivo. La Casa Bianca ha accolto con soddisfazione "l'importante passo" della Lega Araba che "rafforza la pressione internazionale su (Muammar) Gheddafi e appoggia la gente della Libia". Il presidente russo Dmitri Medvedev ha annunciato oggi che il leader libico Muammar Gheddafi e la sua famiglia non potranno entrare in Russia e che sarà bandita la possibilità di condurre operazioni finanziarie libiche in territorio russo.
13 marzo 2011 La crisi libica e il ruolo della superpotenza America, l'"obbligo" di agitare le armi La perdita di influenza degli Stati Uniti nel Mediterraneo (di cui fortunatamente nessun rivale strategico o regionale è ancora riuscito ad approfittare) è impressionante. Essa è resa paradossalmente evidente dal fatto che un presidente come Obama, della cui sincera preferenza per gli argomenti della persuasione rispetto a quelli della forza non abbiamo ragione di dubitare, si ritrova costretto contemplare tutta la vanità (nella sua duplice accezione) del soft power americano nell’area, e non riesce a fare molto di più che minacciare di ricorrere a una qualche forma di intervento militare per tentare di bloccare Gheddafi. Ovviamente il capo dello Casa Bianca sa bene quanto siano rischiose e vincolate le iniziative militari: tanto più in terre islamiche, dopo l’11 settembre e con due teatri operativi (Afghanistan e Iraq) ancora aperti. E possiamo immaginare la sua espressione sconsolata nel contemplare che, dopotutto e nonostante il suo elevatissimo costo politico, lo strumento militare resta il solo nella piena disponibilità del presidente e il solo in cui gli Stati Uniti ancora non temano rivali. Come abbiamo sostenuto più volte, mille ragioni sconsigliano un passo simile, e però il dilemma presidenziale è profondo, perché gli avvenimenti in corso nel Mediterraneo potrebbero ridisegnare non solo il quadro regionale, ma l’intero assetto strategico globale e segnare un rapido declino strutturale e permanente degli Stati Uniti come superpotenza globale.
Gli Stati Uniti giustificano agli occhi del mondo la propria posizione di global superpower per la funzione di garante dell’ordine e della sicurezza in due aree: il Medio Oriente allargato e l’Estremo Oriente. Il Medio Oriente è un’area tradizionalmente turbolenta, ma dalla quale finora non sono emersi mai credibili sfidanti anche solo in grado di imporre la propria leadership regionale. Neppure l’Iran, che pure in questi anni ha ottenuto molti vantaggi tattici, migliorando le proprie posizioni in Libano, a Gaza, in Iraq, in Afghanistan e più complessivamente nel Golfo, può seriamente essere presentato come un potenziale egemone: almeno finché Israele mantiene la sua supremazia militare e fino a quando non dovesse collassare completamente l’intero sistema regionale, a partire da Egitto e Arabia Saudita, cosa che è ancora di là da venire.
L’Estremo Oriente è un’area tradizionalmente più stabile, per lo meno a partire dalla fine della guerra del Vietnam, quando l’abilità di Nixon e Kissinger riuscì a trasformare una traumatica sconfitta militare in un successo diplomatico, traghettando compiutamente la Cina di Mao nel fronte antisovietico a guida americana. Ma è nel Far East che dall’inizio del Novecento sono continuativamente presenti grandi potenze regionali e bicontinentali (il Giappone, la Russia) e soprattutto è nel Far East che sta sorgendo quello che è ritenuto da molti il possibile futuro sfidante globale degli Stati Uniti: la Cina. Senza più la capacità di essere decisivi in questi due teatri (al netto dei danni economici immaginabili), gli Usa si vedrebbero scalati allo status di una grande potenza bicontinentale (atlantica): fortissima sul piano nucleare (come la Russia), ma dal peso politico ed economico calante (rispetto a una Cina ancora molto più indietro, ma dal trend in forte continua ascesa). Se la perdita di influenza che gli Usa stanno sperimentando in questi mesi nel Mediterraneo e nel Medio Oriente dovesse risultare stabile, quindi, agli Stati Uniti resterà solo il delicato e competitivo teatro dell’Asia Orientale per continuare ad affermare il proprio ruolo, cioè un teatro caratterizzato da un affollamento di potenze (medie, grandi e magari globali). È facile capire quali potrebbero essere le conseguenze negative di una perdita di centralità strategica dell’America sul ruolo del dollaro: un asset che oggi è più cruciale che mai per la gestione dei deficit (finanziario, commerciale e federale) e per la possibilità di "socializzarne" internazionalmente il costo alimentando un po’ di inflazione, e così scaricando anche sul resto del mondo il costo delle proprie politiche di sostegno a economia e occupazione. Ecco perché Obama, pur non amandola affatto e conscio dei rischi che comporterebbe, non può affatto premettersi di scartare l’ipotesi di un intervento militare capace di riaffermare il ruolo e lo status degli Stati Uniti nel Medio Oriente allargato. Vittorio E. Parsi
13 marzo 2011 La crisi libica e la prova che tocca all'Unione Europa, gli errori fatti e quelli da evitare Sbagliare fa parte della normale fisiologia dell’agire. Perseverare nell’errore, anche in diplomazia, può essere diabolico. Forse non a caso il leader di un’ipotetica Europa unita assume spesso nella letteratura un carattere luciferino, come nel Racconto breve dell’Anticristo di Solov’ëv e nel più recente romanzo Il nemico di Michael O’Brien. Nessuna puzza di zolfo oggi a Bruxelles, sia chiaro, ma qualche imbarazzo e qualche titubanza di troppo di fronte alla crisi del Maghreb, certamente sì. Tralasciamo pure le incoerenze e le volute omissioni più patenti del passato, quando scendere a patti con autocrati di varia ferocia era ritenuto il male minore rispetto al rischio fondamentalista e al caos che avrebbe potuto mettere in pericolo gli approvvigionamenti energetici e aprire le rotte delle migrazioni verso la sponda settentrionale del Mediterraneo. Scelta una linea di totale appeasement, la cosa più grave è stata lasciarsi completamente sorprendere dalle proteste e dal loro esito rivoluzionario in Tunisia e in Egitto. E dal contagio in Libia. Davanti al fatto compiuto, è stato inevitabile fare buon viso a cattivo gioco, con almeno l’alibi (sincero o meno) di un cammino verso democrazie non soltanto di facciata. Ma sarebbe del tutto illusorio pensare che la situazione a Tunisi e al Cairo andrà presto stabilizzandosi, con governi dimentichi del passato e pronti, magari per necessità, a stringere nuove collaborazioni con l’Europa. Così come sottovalutare i sommovimenti di altri Paesi arabi. Ma dove si rischia ancor di più con un atteggiamento altalenante e attendista è, ovviamente, il fronte di Tripoli. Al Gheddafi "convertito" all’Occidente si sono fatte negli anni aperture di credito che non contemplavano una sua traumatica uscita di scena. Eppure, dopo pochi giorni dallo scoppio delle insurrezioni, è cominciata una scoordinata corsa dei singoli membri dell’Unione a prendere le distanze dal regime e ad allacciare contatti con l’autoproclamato Consiglio nazionale di transizione. Doverosa la condanna delle uccisioni di civili, poco lucida la scelta che ci ha portato a rendere di fatto impossibile un proseguimento di relazioni con il Colonnello prima che fosse chiaro il suo destino. E che ora impone di fare sì che lasci la Libia e finisca, se possibile, davanti alla Corte penale dell’Aja. Detto in altre parole, l’Europa finora ha osservato e si è dimostrata assai riluttante a fare mosse decise su uno scacchiere cruciale ai suoi confini. La Francia che fino all’ultimo ha flirtato con Ben Ali propone di bombardare i bunker del rais, gli altri grandi del Continente frenano, con l’eccezione forse di Londra. La proposta di coinvolgere Lega Araba e Unione Africana in un tentativo di concertazione per avere la legittimazione Onu alla zona di non volo può essere un passo nella giusta direzione. Ma bisogna accelerare i tempi, prima che Gheddafi riconquisti il controllo sulle principali città e l’intervento si configuri come una tardiva sanzione, non diversa alla fine dall’attacco a Saddam Hussein. Non si può prescindere dalle posizioni americane, va da sé, eppure definire alcune linee comuni, che coniughino in modo accettabile real politik (modulare i flussi migratori e non perdere le forniture di gas e petrolio) con un sostegno a regimi più liberali, benefici per i popoli che governano e lontani da derive fondamentaliste, dovrebbe essere la priorità perché la Ue non precipiti nell’irrilevanza. Non è impresa facile, ma da porre subito in cima all’agenda. Anche per quanto riguarda Italia. Perché non si può nascondere che il nostro Paese abbia molto concesso alla Libia e si trovi ora in uno scomodo guado tra vecchie condiscendenze e nuove intransigenze. Dedicare un po’ di zelo del nostro dibattito pubblico alla politica internazionale non potrebbe che essere salutato con favore. Non lasciamo che l’Europa si macchi ancora di ignavia. Andrea Lavazza
14 marzo 2011 KABUL Afghanistan, attacco kamikaze decine di morti Un attentatore suicida si è fatto saltare in aria oggi vicino ad un Centro di reclutamento della polizia nella provincia settentrionale afghana di Kunduz causando "decine di morti". Lo hanno reso noto le autorità locali. L'attacco, scrive l'agenzia di stampa Pajhwok citando il portavoce del governo provinciale Mahbubullah Saedi, è avvenuto verso le 14 (10,30 italiane) vicino a Spin Zar, nel primo distretto di polizia di Kunduz City.
2011-03-12 12 marzo 2011 LIBIA La controffensiva di Gheddafi: attacco a Misurata Le forze di Gheddafi continuano la controffensiva. Dopo aver continuato a martellare tutta la giornata Ras Lanuf con raid aerei, sono passati ad attaccare anche la città di Misurata controllata dai ribelli. Il generale Abdel-Fattah Younis, ex ministro dell'Interno ora a capo dei ribelli in Libia, ha ammesso che gli insorti hanno perso il controllo di Ras Lanouf. Anche se si continua a combattere duramente nella città libica, mentre - secondo i ribelli - l'aviazione fedele al colonnello, Muammar Gheddafi, ha bombardato di nuovo la località di Brega. Secondo il portavoce del ribelli, Mustafa Geriani, alcuni residenti hanno cominciato ad abbandonare Brefa, che è già stata bombardata nei giorni scorsi. Geriani ha posto l'accento anche sull'importanza del riconoscimento internazionale dei ribelli come interlocutori del popolo libico: "Con il riconoscimento del Consiglio nazionale (di Transizione), speriamo che la gente abbandoni Gheddafi", ha detto il portavoce, secondo cui anche chi ancora sostiene il leader libico, una volta che Gheddafi rimanga isolato, lo abbandoneranno. Le truppe di Gheddafi, che hanno sostenuto per tutta la settimana duri combattimenti nell'enclave petrolifero di Ras Lanuf, minacciano Brega e da lì Ajdabiya, a 170 chilometri a sud di Bengasi. Questa città, diventata la retroguardia dei miliziani e il principale bastione dei ribelli prima di Bengasi, ha assunto un ruolo chiave sulla principale rotta di comunicazione con la capitale provvisoria del Consiglio Nazionale di Transizione. Intanto i ministri degli Esteri della Lega Araba, riuniti al Cairo, hanno chiesto al Consiglio di Sicurezza dell'Onu di assumersi le proprie responsabilità per imporre una zona di esclusione aerea sulla Libia. In mattinata il segretario generale della Lega Araba, Amr Mussa, si era detto favorevole all'imposizione di una no-fly zone sulla Libia e auspicato che l'organizzazione panaraba "svolga un ruolo" nella sua attuazione. Catherine Ashton, l'Alto rappresentante per la politica estera dell'Unione europea, arriverà al Cairo nella tarda giornata di oggi per incontrare i leader della Lega araba, con i quali discuterà della situazione in Libia. La partenza è prevista a conclusione di un incontro in Ungheria con i ministri degli Esteri dell'Unione. La Ashton ha detto che parlerà di un "approccio di collaborazione" con il segretario generale della Lega, Amr Moussa. La Ashton ha detto che è necessario valutare l'efficacia delle sanzioni già imposte al regime di Muammar Gheddafi "mantenendo tutte le opzioni di andare avanti con eventuali misure aggiuntive".
12 marzo 2011 L'OFFENSIVA DI SANGUE Il rais minaccia l'Europa: sarete invasi dai terroristi Le forze di Muammar Gheddafi avanzano verso Est, avvicinandosi sempre più alla Cirenaica "liberata". Il Colonnello sta ribaltando la situazione a lui sfavorevole fino a qualche giorno fa schiacciando con la capacità militare del regime i rivoltosi che pure resistono in tante parti del Paese. Anche ieri gli scontri si sono concentrati a Ras Lanuf, strategico nodo petrolifero nel Golfo della Sirte e "porta" della Cirenaica. Le truppe governative hanno messo in atto una manovra a tenaglia che ha fatto capitolare la città: dal deserto sono entrati nella periferia 150 uomini appoggiati dai carri armati, mentre sul litorale si sono appostate quattro navi che hanno preso a martellare la costa. Poco più tardi, è cominciata ance l’offensiva dal cielo: i caccia hanno fatto raid sui checkpoint istituiti dai ribelli a est della città e sono andati anche oltre la linea del fronte, sganciando bombe sulla città di Uqaylah. Secondo al-Jazeera sono sei le persone morte negli scontri. La tv di stato ha mostrato le prime immagini delle brigate del rais nel centro abitato di Ras Lanuf. E ha inquadrato alcuni residenti che festeggiavano l’ingresso delle truppe di regime. I ribelli, in serata, hanno detto di essere riusciti a mantenere sacche di resistenza nel centro della città. Ma da Ral Lanuf, come da Zawia (la città riconquistata giovedì dai governativi) sono arrivati appelli alla Comunità internazionale affinché istituisca una zona interdetta al volo. "Tutto ciò che vogliamo – hanno spiegato i rivoltosi a Zawia – è una no-fly zone per impedire a Gheddafi di far volare i suoi aerei". Mentre la Comunità internazionale valuta la possibilità, il rais attacca anche sul fronte "esterno". Ieri ha minacciato l’Europa di ritirare il sostegno della Libia alla guerra contro il terrorismo internazionale e di bloccare qualsiasi forma di prevenzione dei flussi migratori clandestini, sottoponendo la Ue a una "invasione" di terroristi. "Se l’Europa non non appoggia il ruolo attivo della Libia nella lotta contro l’immigrazione e come garante della stabilità in Nord Africa – ha detto il Colonnello all’agenzia ufficiale Jana –, la Libia sarà obbligata a ritirare i suoi sforzi nella lotta contro il terrorismo e a cambiare completamente la sua politica verso al-Qaeda". "Milioni di neri affluiranno verso l’Europa", ha concluso Gheddafi. Oltre alla tv di Stato, il regime utilizza per la propaganda anche Sms "di massa". Ieri i cittadini libici si sono visti recapitare sul cellulare alcuni messaggi in cui veniva comunicato che le città della Cirenaica in mano agli insorti, in particolare Bengasi e Ajdabiya, "verranno a breve riconquistate". Nell’ovest del Paese, invece, continua a regnare una calma assurda. Ieri, venerdì di preghiera, la capitale era deserta e "isolata". I miliziani del regime controllavano i punti nevralgici, tenendo ben lontani i giornalisti. Le connessioni a Internet andavano a rilento e Facebook e Twitter erano inaccessibili. "La gente ha paura, sta chiusa in casa – ha raccontato monsignor Giovanni Innocenzo Martinelli, vicario apostolico di Tripoli, all’agenzia Fides –. Si vuol dare l’impressione di una vita normale, ma la situazione non è certo normale". Intanto, sono stati liberati i tre militari olandesi catturati a Sirte il 27 febbraio durante le operazioni di evacuazione di alcuni connazionali. Hanno già lasciato la Libia. Barbara Uglietti
12 marzo LA CRISI IN LIBIA I Ventisette: "Gheddafi è finito, lasci" Muammar Gheddafi se ne deve andare, il Consiglio nazionale di transizione (i ribelli cioè che resistono nella zona est della Libia) è di fatto il nuovo interlocutore politico (se pure non ufficialmente riconosciuto come governo separatista), non ci sarà per il momento una no-fly zone e qualsiasi opzione militare, dal blocco navale che sta studiando la Nato fino all’intervento diretto sul suolo libico con bombardamenti mirati potrà avvenire solo dopo una risoluzione dell’Onu e un’intesa con la Lega Araba e l’Unione Africana. Potrebbe sembrare che l’Unione Europea, riunita a Bruxelles in un vertice straordinario dei capi di Stato e di governo dedicato alla crisi nordafricana e soprattutto alla Libia, abbia preso tempo, stemperando com’è sua abitudine il decisionismo di Sarkozy, i bagliori bellicosi di Cameron e le sollecitazioni di Washington in quella prosa un po’ melliflua e avviticchiata su se stessa che spesso è il marchio di fabbrica dell’Europa dei Ventisette. Ma questa volta non è del tutto vero. Questa volta l’urgenza di una crisi che ghermisce il lembo meridionale d’Europa e che non è certo più possibile liquidare come un evento regionale considerate le implicazioni geopolitiche, sociali, economiche e i riflessi che questa crisi finirà per avere sull’intera Ue ha messo davvero in allarme l’Europa, dalla Svezia a Malta. Infatti mentre la Ue congela i beni del rais e mette in mora gli asset controllati da Lia, Lafico e dalla Banca centrale libica, Gheddafi minaccia apertamente l’Europa di aprire le porte a un’immigrazione incontrollabile e forse addirittura di fiancheggiare al-Qaeda. "Chiediamo l’organizzazione di un vertice a tre sulla questione della Libia che interessa sia i Paesi africani ed arabi, ma anche l’Europa in modo diretto", dice il presidente della Commissione Barroso. "Abbiamo detto chiaramente alle autorità libiche – spiega il presidente permanente della Ue Van Rompuy – che l’uso della forza contro i cittadini deve finire e che i responsabili andranno incontro a gravi conseguenze. Gheddafi deve dimettersi senza più ritardi e tutti i 27 Paesi lo hanno sottoscritto in maniera forte e chiara. Abbiamo la situazione sotto costante monitoraggio e manterremo la pressione su di lui". "L’Europa – dice l’Alto rappresentante per la politica estera Catherine Ashton – non deve avere fretta di prendere decisioni sulla Libia senza l’Onu. Il ruolo più importante sarà quello della Lega Araba, i cui ministri degli Esteri si riuniscono oggi. Io sarò al Cairo domenica per parlare con Amr Moussa per mostrargli l’importanza che noi diamo al loro ruolo". Niente bagliori di guerra, insomma, per il momento, senza contare il sostanziale veto di Angela Merkel: "Vista la situazione odierna – ha detto il cancelliere tedesco –, non vedo possibile una missione militare. Ogni giorno ci si presenta con una situazione nuova, invece occorre agire su chiare base legali, ovvero in presenza di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Se ci saranno tutte le condizioni, vedremo le opzioni sul tavolo. Per ora Berlino vuole aspettare e vedere come si evolve la situazione". "Abbiamo ritenuto di non citare la no-fly zone nel documento – conferma Silvio Berlusconi –, ma siamo attenti a tutte le opzioni che si rendessero necessarie, in accordo tuttavia con Onu, Lega Araba e Unione Africana. La Ue si comporterà in accordo con le decisioni di questi organismi. Abbiamo confermato che il colonnello Gheddafi non può più essere ritenuto un interlocutore per l’Europa. Con lui ho parlato solo una volta, due o tre settimane fa, poi non più. Quanto agli aiuti umanitari alla Libia, spero che il nostro esempio venga seguito e che il mio appello venga accolto, come mi è sembrato di capire, dagli altri capi di Stato e di governo: noi italiani per primi li abbiamo aiutati, trasportando ad esempio in patria molti egiziani". Sulla sostanziale unanimità dei Ventisette svetta tuttavia lo squillo di guerra di Sarkozy (con qualche eco spagnola, visto che Zapatero fa sapere che si potrebbe agire anche senza mandato Onu), che già nelle scorse ore aveva ventilato la possibilità di un intervento unilaterale francese sul suolo libico: "Se Gheddafi continuerà a prendere di mira i civili – dice Sarkozy – sarà necessario valutare una risposta militare: nessuno vuole un intervento militare, ma è chiaro che l’Europa sta mandando un messaggio e non vuole escludere questa opzione. Per questo gli Stati membri considereranno tutti le opzioni necessarie, non solo diplomatiche". Scarse le speranze che Gheddafi si arrenda o lasci spontaneamente la Libia. Dice Berlusconi: "Dal momento in cui qualcuno ha avanzato la proposta di sottoporlo al Tribunale penale internazionale, credo si sia radicata in lui l’idea di restare al potere e credo che nessuno possa fargli cambiare idea. Quanto all’esilio, non credo ci sia più questa possibilità dopo la caduta di legittimità internazionale". Per una volta abbiamo visto un’Europa soggetto attivo, al di là delle inevitabili dinamiche interne, e non il consueto fantasma di un club di nazioni prigioniere dei propri egoismi nazionali. Ci voleva la crisi libica perché accadesse. Giorgio Ferrari
2011-03-10 10 marzo 2011 MAGHREB IN FIAMME Sarkozy, sì a bombe sulla Libia Frattini: l'Italia è contraria Sarkozy avrebbe proposto di attaccare tre obiettivi: l'aeroporto militare di Sirte, a 500 chilometri da Tripoli, quello di Sebha, nel sud della Libia al confine con il Chad, e Bab al-Azizia, il quartier generale del colonnello Gheddafi a Tripoli. Si tratterebbe di "colpire un numero estramente limitato di bersagli, le zone da dove partono gli attacchi dell'aviazione libica contro la popolazione", ha spiegato la fonte, aggiungendo che durante l'incontro odierno fra Sarkozy e i membri del Consiglio di Bengasi uno dei delegati dei ribelli avrebbe suggerito di "distruggere il sistema di comunicazione" degli ordini di Gheddafi e il presidente francese avrebbe risposto: "È una buona idea". Interpellato dall'AFP, l'Eliseo non ha voluto confermare la notizia. "È prematuro parlarne. Bisogna ottenere le autorizzazioni giuridiche per utilizzare la forza contro Gheddafi". FRATTINI: L'ITALIA NON PARTECIPERA' A BOMBARDAMENTI "L'Italia chiede decisioni europee, condivise e unanimi". Lo ha affermato Franco Frattini nel corso del Consiglio informale dell'Ue a Bruxelles, riferendosi alla decisione con cui la Francia ha riconosciuto il Consiglio nazionale dei ribelli libici come unico e legittimo rappresentante del Paese. "Deve essere l'Europa a decidere, sia sulle sanzioni così come sui contatti con l'opposizione", ha aggiunto il capo della diplomazia italiana. Frattini ha anche affermato che l'Italia è comunque disponibile "ad accompagnare una eventuale missione Ue a Bengasi", dal momento che Roma sta per riaprire il proprio consolato nella città della Cirenaica. L'Italia inoltre non parteciperà ai bombardamenti mirati sulla Libia, che, secondo fonti vicine all'Eliseo, saranno proposti domani dal presidente francese, Nicolas Sarkozy, nel corso del Consiglio europeo straordinario. A precisare la posizione di Roma è stato sempre il ministro Frattini. "L'Italia vuole una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu" e quindi non un attacco diretto alle forze libiche bensì un controllo delle forze aeree di Gheddafi. VAN ROMPUY: L'UE NON PUO' STARE A GUARDARE L'Unione europea non può restare a guardare le violenze in Libia contro la popolazione, e Gheddafi se ne deve andare. È il messaggio del presidente del Consiglio Europeo Herman Van Rompuy alla vigilia del vertice straordinario di domani dedicato al Nord Africa. "Renderemo chiaro alla auotrità libiche che l'uso della forza contro i cittadini deve cessare, e i responsabili subiranno gravi conseguenze" tanto che "l'attuale leadership deve lasciare il potere senza aspettare oltre", ha dichiarato Van Rompuy, sottolineando che per questo "l'Ue non può semplicemente stare a guardare quando la sicurezza della popolazione è in gioco". GHEDDAFI CONTRATTACA SU TRE FRONTI Gheddafi attacca su tre fronti. Va in tv e minaccia l’Occidente. Sgancia bombe sui ribelli, ormai assediati nell’Ovest. Spedisce emissari in Europa per cercare un abbocco diplomatico. Il Colonnello non si arrende. E dal suo bunker a Tripoli si dimostra ancora in grado di muovere i fili della Libia, incurante di una spaccatura che sta lacerando il Paese, sordo alle pressioni di Stati Uniti ed Unione Europea. L’offensiva mediatica. Ha fatto arrivare duecento giornalisti stranieri nella hall dell’Hotel Rixos a Tripoli spiegando di avere "cose da chiarire". Li ha lasciati lì nove ore ad aspettare. Poi se ne è andato con le sue amazzoni dopo aver "concesso" un’intervista a due sole tv: una francese e una turca. In perfetto stile-Gheddafi, il Colonnello ha iniziato in questo modo la sua offensiva mediatica. Nel mirino, l’Occidente, accusato di condurre un "complotto" per "colonizzare di nuovo" il suo Paese. Il leader libico ne ha avute in particolare per la Francia (che insieme alla Gran Bretagna sostiene la linea dura sulla no-fly zone), dicendo di non escludere misure di rappresaglia contro Parigi. E ha quindi accusato le potenze straniere di essere coinvolte nella ribellione. "Vogliono umiliare il popolo libico, ridurlo in schiavitù, e controllare il petrolio", ha denunciato il Colonnello. Che ha minacciato: se le potenze occidentali imporranno la no-fly zone sul Paese, "il popolo libico impugnerà le armi contro di loro". Gheddafi è poi tornato ad agitare lo spettro del terrorismo, sostenendo che al-Qaeda avrebbe fatto il "lavaggio del cervello" ai ribelli. E tra le "contromisure" il regime ha messo una taglia di 500mila dinari (290mila euro) sulla cattura e la consegna di Mustafa Abdel Jalil, presidente del Consiglio nazionale libico (l’organismo nato alcuni giorni fa che rappresenta gli insorti e ha sede a Bengasi). La tv di Stato lo ha definito una "spia". Nell’intervista alla tv turca Trt, Gheddafi ha poi aggiunto che se al-Qaeda si impadronirà del suo Paese "l’intera regione fino a Israele si ritroverà in preda al caos". Più volte, nei suoi precedenti interventi, il leader libico aveva detto di sentirsi "tradito" dai Paesi occidentali con i quali aveva un "accordo" per combattere la rete internazionale del terrore. Ieri è tornato a rivolgere un appello, a modo suo, alla Comunità internazionale, chiedendo "capisca che dobbiamo impedire a Benladen di prendere il controllo della Libia e dell’Africa". L’offensiva diplomatica. Sarà forse per aiutare la Comunità internazionale a "capire" che ieri Gheddafi ha inviato emissari verso il Cairo e destinazioni europee. I tre Falcon privati del Colonnello sono decollati in tarda mattinata dall’aeroporto di Tripoli. Facendo addirittura pensare, in prima battuta, a un tentativo di fuga del leader libico. Non era così. A bordo del jet atterrato al Cairo c’era il generale Abdel Rahman Ben Ali el-Said al-Sawi, responsabile delle forniture militari, con un messaggio per il capo del Consiglio supremo delle forze armate egiziane, Hussein Tantawi. Forse al-Sawi incontrerà anche il segretario generale della Lega Araba, Amr Moussa. Un altro volo si è fermato a Malta. Gli emissari di Tripoli hanno incontrato funzionari della Valletta poi il volo è ripartito per Lisbona (il Portogallo martedì è stato nominato alla presidenza del Comitato per le sanzioni alla Libia creato con la Risoluzione 1970 dell’Onu). Il ministro degli Esteri portoghese Luis Amado si è reso infatti disponibile ad avere colloqui con gli inviati libici. Secondo fonti a Lisbona, l’incontro sarebbe stato concertato con l’Alto rappresentante per la politica estera Ue Catherine Ashton. Ma altre fonti hanno detto che la Ashton sarebbe stata semplicemente "al corrente" della cosa. Un terzo aereo si è diretto verso Bruxelles. Ma fonti della Ue e della Nato hanno fatto sapere di non avere alcun incontro in programma con gli emissari di Gheddafi. Si sono inoltre diffuse voci che uno dei tre Falcon avesse fatto scalo in Italia, ma la Farnesina ha smentito "nei termini più categorici". Piuttosto, da Bengasi, il portavoce del Consiglio nazionale, Abdel Hafiz al-Ghogha, ha fatto sapere che "ci sono contatti con il governo italiano che stanno andando nella giusta direzione". "Abbiamo avuto colloqui telefonici con il ministro degli Esteri Franco Frattini" ha riferito Ghogha, senza però specificarne il contenuto. L’offensiva militare. Intanto, Gheddafi continua a riconquistare terreno nell’ovest del Paese. I carri armati delle forze fedeli al Colonnello hanno dato l’assalto finale ai rivoltosi assediati nel centro di Zawia. La raffineria della città è stata chiusa a causa dei combattimenti. Fonti mediche hanno detto che nella sola giornata di ieri state 40 le vittime nel centro abitato. Altre fonti sanitarie, da Bengasi, hanno fatto sapere che sono almeno 400 i morti e 2.000 i feriti in tutto il Paese dall’inizio della rivolta. In serata, le forze filo-governative avrebbero ripreso il controllo di Zawia: la tv di Stato ha trasmesso le immagini di centinaia di sostenitori del regime nella piazza principale. Ma secondo i rivoltosi, il centro della città è ancora sotto il loro controllo. Si è combattuto pesantemente anche nel Nord-est, dove, nei giorni scorsi, sembrava essersi attestato il fronte più avanzato delle forze di opposizione in marcia dalla Cirenaica. Il regime ha bombardato con i caccia tutta l’area di Ras Lanuf, nel golfo di Sirte, da giorni in mano ai ribelli, colpendo anche il terminal petrolifero e una cisterna di gas. L’inviato della Bbc ha parlato di ameno due morti negli scontri. La tv di Stato ha accusato al-Qaeda di aver fatto esplodere il pozzo. Secondo fonti concordanti, gli insorti hanno cominciato la ritirata anche da questa città, nodo strategico per il petrolio. Barbara Uglietti
10 marzo 2011 LA REAZIONE DEL MONDO "Interventi anche senza Onu per inviare gli aiuti ai civili" Gli Stati Uniti e gli alleati europei stanno studiando, nell’ambito della Nato ma non solo, la possibilità di usare navi per distribuire aiuti alimentari in Libia e per impedire le forniture di armi al regime di Muammar Gheddafi. A svelare un retroscena della difficile partita diplomatica in corso sull’emergenza libica è stato ieri il Washington Post, che ha citato come fonti alcuni ufficiali statunitensi ed europei. Secondo il quotidiano, si tratterebbe di una delle alternative allo studio per agire in Libia, dato che per un intervento a carattere militare, tra cui una no-fly zone, occorrerebbe un via libera dell’Onu al momento difficile da ottenere, vista l’opposizione di Russia e Cina. "Con un mandato dell’Onu lungi dall’essere garantito – scrive il giornale – chi è favorevole ad una forma di intervento, e tra questi Usa, Francia, Gran Bretagna ed Italia, è alla ricerca di appoggi alternativi". L’appoggio a un’operazione internazionale potrebbe venire anche dai blocchi regionali, come era successo con gli attacchi della Nato in Serbia. Nel caso della Libia, se si prendono in considerazione gli appoggi potenziali all’operazione – dalla Lega Araba all’Unione Africana, dalla Nato all’Ue – si nota che sono presenti tutti i Paesi che si trovano entro un raggio di 8mila chilometri circa dalla Libia. L’azione navale, con appoggio aereo, consisterebbe nel fornire aiuti alimentari e garantire la sicurezza, scortandole, delle navi civili che intendono attraccare a Bengasi e nelle altre aree controllate dai ribelli. Un’analoga sorveglianza verrebbe effettuata nei pressi di Tripoli, ma per garantire il rispetto dell’embargo sulle forniture di armi alla Libia. Ciò non toglie che proseguono gli sforzi anche in seno all’Onu per arrivare a una decisione su un intervento con basi più ampie. Il premier britannico David Cameron ha ribadito che se la no- fly zone si renderà necessaria "dovrà avere il più vasto sostegno possibile, ed è questo il motivo per cui stiamo lavorando al testo di una risoluzione del Consiglio di sicurezza". Ma cauti sono ancora diversi Paesi. Nella bozza di conclusioni del vertice Ue di domani si legge che "il Colonnello Gheddafi deve lasciare il potere immediatamente". Ma se sul monito i Ventisette sono tutti d’accordo, le divisioni sulla no-fly zone restano. L’ambasciatore russo presso la Nato, Dmitri Rogozin, ha intanto sostenuto ieri che Usa e Gran Bretagna "stanno preparando un’operazione sul territorio libico fin dal 20 febbraio" e, anche senza avallo delle Nazioni Unite, sfrutteranno qualche azione contraerea delle truppe di Gheddafi per sferrare un attacco ammantato di "autodifesa". Da parte sua il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, non esclude che la comunità internazionale possa in futuro fornire armi ai ribelli libici, se sarà necessario. Il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, ha peraltro spiegato che l’organizzazione non sta cercando di intervenire in Libia, ma sta facendo preparativi militari per "tutte le eventualità". La Nato, così come l’Ue, ha anche precisato che non risulta alcun incontro in programma con emissari del regime di Gheddafi. Ieri si è intanto registrato uno scontro istituzionale a livello europeo sul riconoscimento del Consiglio nazionale libico, istituito dai ribelli anti-Gheddafi. Il capo della diplomazia Ue Catherine Ashton ha infatti respinto la proposta del Parlamento europeo di riconoscere l’organismo libico. "C’è un Consiglio dei capi di Stato e di governo per prendere una tale decisione", ha detto la Ashton nel corso di un dibattito a Strasburgo sulla crisi in Libia. I leader dei grandi gruppi e la maggior parte dei deputati si erano invece espressi a favore del "riconoscimento immediato" chiesto già martedì dai due rappresentanti del Consiglio invitati a Strasburgo. Intanto domattina due emissari del Consiglio, Mahmud Jibril e Ali Essawi, saranno ricevuti all’Eliseo da Nicolas Sarkozy. "Sarà l’occasione per trattare la situazione generale in Libia, in particolare la situazione umanitaria e l’azione del Consiglio", recita una nota della presidenza francese. Ieri un altro emissario, Jebril El Waalfarvi, è stato ricevuto dal presidente svizzero Micheline Calmy-Rey. Paolo M. Alfieri
10 marzo 2011 TENSIONE IN EGITTO Al Cairo riesplode la violenza sui copti È almeno 13 morti e 140 feriti, secondo quanto reso noto dal ministero della Sanità egiziano e dalle Forze armate, il bilancio degli scontri a sfondo religioso avvenuti nei giorni scorsi fra cristiani e musulmani al Cairo. Fra le vittime delle violenze di martedì sera, 6 erano cristiane e 5 musulmane e altri due ancora da identificare. Mentre 25 persone sono state arrestate dalle forze dell’ordine perché coinvolte nei disordini. I feriti, copti e musulmani, sono ricoverati in almeno 3 ospedali cairoti. Teatro della guerriglia durata tutta la notte fra esponenti delle due comunità è stato il quartiere di Moqattam, ai piedi dell’omonima collina di calcare, dove un migliaio di copti si è riunito per protestare contro il rogo di una chiesa avvenuto sabato scorso a Sol, villaggio del governatorato di Helwan, a Sud del Cairo. Dalle dimissioni dell’ex presidente Hosni Mubarak, avvenute l’11 febbraio scorso dopo 18 giorni di manifestazioni popolari che hanno condotto in piazza milioni di egiziani indipendentemente dal loro credo, si tratta delle violenze interconfessionali più accese, difficili da contenere per il governo di transizione e il Consiglio supremo delle Forze armate, intenzionati a garantire la sicurezza e l’unità nazionale. La ricostruzione dei fatti è confusa: in principio, i manifestanti cristiani devono aver bloccato due tratti di tangenziale a Sud del Cairo, a ridosso del quartiere, povero e a maggioranza cristiana, paralizzando il traffico della megalopoli in direzione del centro. Un gesto a cui alcuni concittadini musulmani hanno risposto con violenza inattesa. Secondo alcuni, i militari sarebbero intervenuti avrebbero sparato in aria per disperdere la folla, mentre giovani musulmani e cristiani si affrontavano. Secondo padre Yohanna, della chiesa della Santa Vergine di Moqattam, in realtà sarebbero i militari gli unici responsabili delle morti: "L’esercito ha sparato sui copti e noi abbiamo i proiettili a dimostrarlo", ha spiegato ai media aggiungendo che i giovani musulmani hanno dato fuoco a tre abitazioni, tre depositi di plastica e altrettanti di cartone. "La situazione è grave e l’esercito si trova solo a uno dei sei accessi al quartiere degli zabbalin", comunità cristiana che si occupa da sempre della raccolta dei rifiuti. "Siamo anche preoccupati per quello che può succedere durante i funerali", ha sottolineato il religioso. Il riaccendersi delle divisioni religiose è stato commentato con durezza dalla guida suprema dei Fratelli musulmani, Mohamed Badie, che ha invitato il popolo egiziano a "raccogliersi dietro le forze armate". Badie ha affermato che "i tentativi dei residui del vecchio regime, il Partito nazionale democratico (Pnd) e la Sicurezza di Stato, di riaccendere le discordie in questo delicato momento sollecitano tutti a proteggere lo Stato e le sue istituzioni, a rispettare la legge e a esporre pacificamente le proprie legittime rivendicazioni". Per questo i Fratelli Musulmani hanno esortato a "dare sostegno alle nostre Forze armate e al Consiglio dei ministri perché possano soddisfare le richieste della rivoluzione". Intanto, il premier Sharaf, sospendendo il suo primo Consiglio dei ministri per partecipare a un incontro d’urgenza col Consiglio supremo delle Forze armate, ha chiesto un inasprimento delle pene per gli atti di intimidazione, gli attentati alla sicurezza di tutti i cittadini, non solo la minoranza copta. Da giorni bande armate attaccano manifestanti per strada. L’ultimo episodio è avvenuto in piazza Tahrir ieri pomeriggio. Sarebbe anche stato anticipato alle 21 (e non alle 24), il coprifuoco, ma la tv ha smentito. Infine, in serata, l’ambasciatore italiano al Cairo, Claudio Pacifico, ha chiesto ufficialmente al governo di "assicurare la sicurezza" della minoranza copta.
2011-03-03 3 marzo 2011 MAGHREB IN FIAMME Libia, al via ponte umanitario Obama: Gheddafi se ne vada L'operazione internazionale per evacuare centinaia di migliaia di migranti intrappolati al confine tra la Tunisia e la Libia è partita, ma l'emergenza umanitaria è destinata a intensificarsi con i nuovi bombardamenti aerei compiuti oggi sulla Cirenaica. Centinaia di egiziani sono stati trasferiti verso l'aeroporto di Gerba o il porto di Zarzis, mentre è cominciata l'evacuazione dei migranti intrappolati nel porto di Bengasi. La Germania ha annunciato l'invio di tre navi da guerra per trasferire in Egitto 4mila lavoratori. Il governo italiano ha dato il via libera alla missione umanitaria in Tunisia. Una missione civile partirà alla volta di Bengasi e Misurata. Ci sarà un Fondo nazionale per fronteggiare l'emergenza determinata dai flussi di migranti dal Nordafrica. Lo ha annunciato il ministro dell'Interno, Roberto Maroni, al termine di un incontro al Viminale con i rappresentanti di Regioni, Province e Comuni. Potrebbe quantificarsi in almeno 50 mila il numero delle persone che potrebbero giungere sulle nostre coste a causa della crisi nel nord Africa. Il dato è stato fornito oggi dal ministro dell'Interno Roberto Maroni al termine di un vertice tecnico al Viminale con i presidenti di Regioni e Province, e alla presenza dei responsabili dell'Anci. Maroni è tornato a parlare di "grave emergenza umanitaria" tra Tunisia e Libia con la necessità di prepararsi "prevedendo una fuga di massa da quei Paesi. Se si verificasse lo scenario peggiore - ha detto poi Maroni - si creerebbe per il nostro Paese una situazione molto grave". Da qui quello che è stato definito un "impatto" di almeno 50 mila arrivi. E intanto la pressione internazionale sul Colonnello cresce. Dall'Aja è stato reso noto che Gheddafi e altri esponenti del regime sono indagati per crimini contro l'umanità dal Tribunale penale internazionale e l'incriminazione dovrebbe arrivare nel giro di "pochi mesi". Nel mirino, Gheddafi, alcuni suoi figli e la cerchia più ristretta del suo regime: tutti rischiano fino a 30 anni di prigione e, se l'"estrema gravità" del caso lo giustificasse, l'ergastolo. La Casa Bianca ha autorizzato l'uso dell'aeronautica militare per evacuare i profughi della Libia, oltre a decidere una serie di aiuti umanitari. Lo ha detto il presidente Usa Barack Obama in una conferenza stampa con il presidente messicano Felipe Calderon. Obama ha detto che gli Usa "si sentono oltraggiati dalle violenze commesse in Libia". "La violenza deve finire, Gheddafi deve andarsene". Ma Gheddafi non molla: ci sarebbero anche 800 guerriglieri separatisti tuareg tra i mercenari al servizio del regime libico: lo hanno riferito fonti dei servizi di sicurezza maliani e nigerini, secondo cui il grosso dei miliziani tuareg proviene appunto da Mali e Niger, ma ve ne sono altri originari dell'Algeria e del Burkina Faso. Intanto le due navi da guerra americane sono ormai prossime alle coste libiche mentre 400 marines sono stati trasferiti in una base Usa a Creta, la Souda. Vi sarebbero stati nuovi bombardamenti aerei su Marsa el Brega, il centro petrolifero nella Cirenaica da ieri teatro di una battaglia tra i ribelli e le milizie fedeli a Muammar Gheddafi, e ad Agedabia. Tre soldati olandesi sono stati catturati da milizie fedeli a Muammar Gheddafi mentre erano impegnati in un'operazione di soccorso umanitario nel nord della Libia, a Sirte. Infine nella crisi libica compaiono un mediatore e un piano di pace. Nella notte il leader libico ha sentito al telefono un suo vecchio amico e alleato. Hugo Chavez, il presidente venezuelano che sostiene Gheddafi, avrebbe ottenuto da quest'ultimo il via libera all'avvio di un negoziato tra il regime ancora in carica e i rivoltosi attraverso la mediazione di una commissione internazionale. Ma i ribelli hanno già respinto la proposta del leader venezuelano, insistendo sul fatto che il colonnello se ne deve andare. E anche la comunità internazionale sembra molto tiepida: "Non è certo la benvenuta una mediazione grazie alla quale a Gheddafi sia consentito di succedere a se stesso", ha già detto il ministro degli Esteri francese Alain Juppè. E anche Nabih Berri, presidente del Parlamento di Beirut ed esponente di primo piano del movimento sciita filo-siriano Amal, ha inviato al leader di Caracas una lettera in cui gli ricorda come Gheddafi sia "un assassino".
3 marzo 2011 LA REAZIONE DEL MONDO L'Aja: presto un mandato per arrestare il Colonnello "Siamo ai primissimi giorni di questa delicata fase investigativa. Il procuratore Luis Moreno Ocampo sta raccogliendo elementi, sulla base dei quali deciderà se emettere un mandato d’arresto internazionale per Gheddafi. Potrebbero volerci poche settimane, forse giorni". Silvana Arbia è il giudice cancelliere della Corte penale internazionale dell’Aja (Cpi). Toccherà a lei garantire la neutralità del procedimento, la protezione dei testimoni e il rispetto del diritto a una giusta difesa. Ad Avvenire anticipa le mosse della Cpi e i passi che saranno compiuti per dare giustizia alle vittime del regime. L’indagine è coordinata dal procuratore Ocampo, che ieri ha ufficializzato l’apertura dell’investigazione annunciando per oggi l’elenco dei crimini di cui è indagato Muammar Gheddafi e una serie di "informazioni preliminari sulle autorità di Tripoli e le persone incriminate". Un’accelerazione necessaria per scongiurare che possano essere commessi "ulteriori reati". Già responsabile di ventidue casi in fase preliminare, Arbia ha presieduto due processi sul genocidio in Ruanda del 1994. Gheddafi è stato ufficialmente indagato dalla Cpi dell’Aja. Ora rischia un mandato di cattura. Cosa consiglierebbe al Colonnello? La presunzione d’innocenza per noi è un presupposto essenziale. Nel caso di un formale atto di accusa, certo sarebbe preferibile che la persona indagata si consegnasse spontaneamente. Finché non vi è una condanna ogni diritto, dalla giusta e adeguata difesa fino a quello del miglior standard di detenzione nell’attesa del verdetto, saranno assicurati". Entro quanto tempo la Corte potrebbe decidere se emettere un mandato di cattura? Potrebbero volerci poche settimane. Stiamo comunque parlando di reati gravissimi, come quello di "crimine di genocidio", per il quale occorrerà ottenere indizi consistenti. Tutto dipenderà dalle prove che verranno raccolte a mano a mano. Inoltre, non essendo la Libia un Paese aderente alla Corte penale dell’Aja, la nostra giurisdizione su questo caso al momento si limita a quanto chiesto dal Consiglio di sicurezza: così come ci chiede l’Onu potremo accusare la leadership libica per quanto avvenuto dal 15 febbraio 2011. Inoltre la procura è in contatto, oltre che con le Nazioni Unite, anche con l’Unione Africana, la Lega degli Stati arabi, e diversi altri Stati. Però nell’inchiesta sul presidente del Sudan Omar el-Bashir, l’ordine d’arresto non è mai stato eseguito ed el-Bashir è rimasto al suo posto. Accadrà lo stesso con Gheddafi? Questo dipenderà dalla reale volontà di collaborazione degli Stati membri della Corte penale internazionale e di quelli che, pur non facendone parte (come Stati Uniti, Cina e Russia), siedono nel Consiglio di sicurezza Onu, che ha invocato un nostro intervento. La Libia, come il Sudan, non è uno Stato membro della Cpi e dunque se possiamo agire è perché le Nazioni Unite ce lo hanno chiesto. Ci aspettiamo che la comunità internazionale, nel caso si decidesse di arrestare Gheddafi, trovi il modo di consegnarcelo al più presto. Quali saranno le prossime mosse della Corte? Verranno raccolte testimonianze dirette, filmati dalle televisioni, immagini girate dai manifestanti, reportage dei giornalisti, prove offerte dalle organizzazioni non governative. Ogni elemento verrà valutato. Il problema, in casi come questi, è che non sappiamo su quale livello di cooperazione degli Stati possiamo contare. Italia compresa. In che senso? Il nostro Paese, pur avendo sottoscritto l’appartenenza alla giurisdizione dell’Aja (lo statuto della Cpi è stato varato proprio nella Conferenza di Roma del 1998, ndr) non ha ancora adattato i propri Codici alle prescrizioni condivise dai 114 Paesi membri, dunque auspichiamo che nel caso di un eventuale processo alla Libia, Roma anche per vicinanza geografica ci aiuti tanto nella fase investigativa quanto su altri fronti, dall’arresto degli imputati alla protezione dei testimoni nel procedimento contro Gheddafi. Non solo Libia, anche in Tunisia ed Egitto la repressione è stata spietata. Quando la corte indagherà anche su questi casi? Purtroppo neanche quei Paesi sono membri della Corte penale internazionale, dunque non abbiamo su di essi una giurisdizione diretta. Tra le modalità che ci consentirebbero di intervenire le più rapide sono la richiesta (che non è vincolante, ndr) del Consiglio di sicurezza Onu o il riconoscimento della nostra giurisdizione da parte dei nuovi governi, subentrati a quelli sconfitti dalle rivolte popolari. Nello Scavo
3 marzo 2011 LE DIPLOMAZIE No-fly zone, Clinton frena: rischio Somalia Il Senato americano ha approvato all’unanimità una risoluzione per chiedere l’imposizione di una no-fly Zone sulla Libia. Il testo "applaude" ai manifestanti che chiedono riforme democratiche e "condanna con forza" la repressione del regime di Muammar Gheddafi a cui viene chiesto di "dimettersi per permettere una transizione pacifica". All’Onu il Senato Usa chiede "di assumere ulteriori iniziative per proteggere i civili in Libia, compresa l’imposizione di una zona di interdizione al volo sul territorio libico". Cauti su questa ipotesi, secondo il Washington Post, sarebbero però i vertici della Difesa Usa, secondo i quali una no-fly zone richieda tra le altre cose il consenso politico interno e l’autorizzazione internazionale. Per il capo del Pentagono Robert Gates l’adozione di misure militari potrebbe avere conseguenze indirette "che devono essere analizzate". Per Gates la creazione di una no-fly zone richiederebbe un attacco contro la Libia e, inoltre, andrebbe a prosciugare le forze impegnate sul terreno in Afghanistan. Lo stesso segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, in un’audizione alla commissione Affari Esteri del Senato americano ha ammesso che la decisione sull’intervento è ancora "lontana" e che se l’intervento internazionale non sarà valutato con estrema cautela, "c’è il rischio che la Libia sprofondi nel caos e si trasformi in una gigantesca Somalia". La creazione di una no-fly-zone, hanno spiegato ex generali dell’Air Force, potrebbe essere rapida ma una sua prolungata attuazione richiederebbe l’impiego di centinaia di caccia ed altre unità aeree di appoggio. Il sistema di difesa aerea libico è inoltre significativamente più sviluppato delle difese che vennero distrutte nel 2003 in Iraq. Fra le opzioni per garantire la sicurezza del popolo libico c’è anche quella di imporre una no-fly zone di concerto fra la Lega araba e l’Unione Africana, secondo quanto si legge nella risoluzione finale della riunione dei ministri degli Esteri dell’organismo panarabo. Contraria comunque a un simile intervento è la Cina, secondo la quale la soluzione alla crisi libica deve essere ottenuta "solo attraverso mezzi pacifici". Intanto il presidente della Commissione europea Josè Barroso ha sottolineato ieri che "Gheddafi è parte del problema e non della soluzione, è arrivato il momento che se ne vada". Per Barroso la situazione in Libia è "semplicemente oltraggiosa e noi non possiamo accettarlo". "Voglio dire agli arabi che stanno lottando per la libertà e la democrazia: siamo con voi", ha aggiunto il presidente della Commissione Europea, ribadendo poi che la situazione in Libia, soprattutto per la forte pressione di profughi alle frontiere, è "una tragedia umanitaria" e per questo la Commissione ha deciso di aumentare il contributo per gli aiuti umanitari da 3 milioni a 10 milioni. Da Teheran, peraltro, il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad ha detto che "gli Usa e i loro alleati stanno facendo propaganda per preparare interventi militari" in Nord Africa o in Medio Oriente e "assumere il controllo delle riserve di petrolio e gas".
3 marzo 2011 LA SCHEDA Sedici nomi nella lista segreta Sono almeno 16 i libici su cui sta indagando in via preliminare la Corte dell’Aja. Alcuni saranno ufficialmente indagati da oggi. Per gli altri si valuterà caso per caso. Ecco la lista ottenuta da "Avvenire". Muammar Gheddafi. Guida della Rivoluzione, "ha ordinato la repressione delle manifestazioni; violazioni dei diritti umani" Abdulqader Al Baghadi. Capo dei Comitati Rivoluzionari, implicato nelle violenze Abdulqader Dibri. Capo della sicurezza del regime. Ha orchestrato le violenze contro i dissidenti. Abu Zayad Dorda. Capo dei servizi segreti Abu Bakr Yunis Jabir. Ministro della Difesa Matuq Mohammed Matuq. Segretario agli Affari pubblici Abdullah Al-Senussi. Capo dell’intelligence militare, cognato di Gheddafi, già condannato in contumacia a Parigi per l’esplosione del volo Uta 772 dal Ciad diretto in Francia il 19 settembre 1989: 170 i morti. Sayyid Qadhaf al-Dam. Cugino del leader libico Moammar Gheddafi è sospettato di essere coinvolto in una campagna di omicidi politici per l’eliminazione di membri dell’opposizione. Aisha Gheddafi. Hannibal Gheddafi. Khamis Gheddafi. Mohammed Gheddafi. Mutassim Gheddafi. Saif al-Arab Gheddafi. Figli del Colonnello, privi di incarichi, ma considerati "in associazione con il regime". Saadi Gheddafi. Figlio del Colonnello, capo delle forze speciali Saif al-Islam Gheddafi. Figlio del leader, direttore della "Fondazione Gheddafi", sarebbe accusato di avere "incoraggiato pubblicamente le violenze". N.S.
2011-03-02 2 marzo 2011 CAOS IN LIBIA Gheddafi: migliaia di morti se Usa o Nato ci attaccano ll leader libico Muammar Gheddafi è riapparso in pubblico, circondato dai suoi sostenitori, nelle celebrazioni del 34esimo anniversario dell'instaurazione dell'autorità del popolo, come è stato definito dalla televisione libica, manifestazione alla quale è stata invitata anche la stampa. "Dal 1977 ho consegnato il potere alle commissioni del popolo libico", ha detto Gheddafi, il futuro del Paese è "nelle mani del popolo libico": Il Colonnello ha partecipato a un evento celebrativo a Tripoli, circondato da persone che scandivano le parole: "Tu rimarrai grande". Abbiamo costretto l'Italia" a scusarsi per il suo colonialismo, costringendo Roma " pagare i danni". "Combatteremo per la Libia all'ultimo uomo e donna, perché è in atto una cospirazione per appropriarsi del petrolio libico". Poi ha fatto appello all'Onu affinché invii in Libia una commissione di inchiesta. "Nel primo scontro (dall'esplodere della rivolta in Libia, ndr) ci sono stati dai 100 ai 150 morti e sono rimasto sorpreso perché siamo passati dopo poco tempo a mille morti. Ho chiesto infatti di aprire un'inchiesta per capire cosa sia successo", ha detto. "Hanno attaccato le stazioni di polizia, e hanno perso il controllo della zona con le armi", ha aggiunto. Gheddafi ha poi detto di aver chiesto "alla brigata presente ad al-Baydha di non attaccare i manifestanti". Il Colonnello ha accusato al Qaeda di aver orchestrato i disordini in Libia. Se Washington o altre potenze straniere entreranno in Libia ci sarà una terribile guerra: "Inizieremo una guerra sanguinosa e migliaia di libici moriranno se gli Stati Uniti entreranno o se lo farà la Nato", ha messo in chiaro Gheddafi. "Vogliono che noi diventiamo ancora una volta schiavi, come lo eravamo degli italiani"? ha detto il leader libico, citando l'ex potenza coloniale. "Non lo accetteremo mai". Apparentemente fiducioso e rilassato, Gheddafi ha detto di essere pronto a discutere di modifiche alla Costituzione senza violenze e che è persino disponibile a parlare con al Qaeda. "Sono pronto a parlare con chiunque di loro, uno dei loro 'emirì, o come si chiamano, che vogliano venire da me per discutere. Ma loro non discutono... non hanno nessuna richiesta". MISSIONE UMANITARIA ITALIANA Una missione umanitaria italiana in Tunisia per dare assistenza ai profughi dalla Libia che si accalcano ai confini. È la decisione presa ieri sera al vertice a Palazzo Chigi sulla crisi nordafricana: un’operazione umanitaria che darà assistenza a 10mila profughi, tra i quali molti bambini. E che "partirà subito, entro 48 ore", assicura al programma tv "Ballarò" il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, aggiungendo che "stare a guardare è un delitto" e parlando del rischio che la Libia "diventi un Afghanistan alle nostre porte" con "l’Europa che non fa nulla, si muove come una lumaca". Il governo prova dunque a giocare d’anticipo e, prima che l’ondata di migranti in fuga dalle violenze si riversi su Lampedusa e le coste meridionali – momentaneamente interdette anche dalle condizioni avverse del mare – decide di portare i soccorsi in loco. La previsione della Farnesina comunque, è che il Colonnello ha i giorni contati. "Gheddafi cadrà", dice il ministro degli Esteri, Franco Frattini: "Forse non domani mattina, ma sicuramente entro qualche settimana. Non è più un interlocutore per nessuno". Il capo della diplomazia italiana ribadisce comunque che il trattato di amicizia con la Libia non va annullato, in previsione dell’arrivo di un interlocutore affidabile. LE FORZE DI GHEDDAFI RIPRENDONO DUE CITTA' Le forze leali a Gheddafi hanno ripreso il controllo di due città del nordovest, Gharyan e Sabratha, intorno alla capitale Tripoli. Lo riferisce la tv Al Jazira. Gharyan è a sud della capitale, sulla strada per Sebha. Sabratha è a ovest, sul mare. La tv di stato libica ha riferito anche che le forze armate l'aeroporto e il porto di Brega, contraddicendo la versione dei ribelli, secondo i quali l'attacco sarebbe stato respinto. FOLLA DI PROFUGHI AL CONFINE CON LA TUNISIA Una folla che si estende "per chilometri e chilometri" in Libia si accalca alla frontiera con la Tunisia. Lo ha dichiarato il portavoce dell'Unhcr che lancia un nuovo appello affinchè "siano noleggiati centinaia di aerei" per evacuare tutte queste persone.
2011-01-03 1 marzo 2011 EMERGENZA UMANITARIA Migliaia in fuga dalla Libia Frattini: Gheddafi cadrà "È indispensabile" mantenere alta la pressione sulla no-fly zone perché "non si deve dare tregua al regime di Gheddafi e l'Italia "è pronta a sostenere l'opzione che prevede l'uso di basi italiane se c'è una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite". Lo ha detto il ministro degli Esteri Franco Frattini. Il ministro ha comunque ricordato che per il momento "non c'è ancora una determinazione forte" nel Consiglio, a partire da Russia e Cina. Muammar Gheddafi "cadrà", forse "non domani mattina" ma sicuramente "entro qualche settimana": ha aggiunto Frattini. Il colonnello, ha ripetuto il ministro, ormai "non è più un interlocutore per nessuno", tantomeno per l'Italia. Migliaia di profughi, almeno 12mila, sono ammassati davanti alla recinzione al confine tra Libia e Tunisia, un lembo di terra di soli 100 metri, per cercare di entrare in territorio tunisino. A stento l'esercito riesce a controllare la situazione. Per cercare di calmare la folla, i soldati stanno lanciando pane e bottiglie di acqua al di là della recinzione. La ressa viene risparmiata a donne e bambini, che vengono intercettati e fatti entrare da altro varco. Il resto della folla, una vera e propria marea umana chiusa in un recinto, deve attendere di passare attraverso cinque corridoi pedonali per accedere alla Tunisia. Il cancello resta comunque chiuso e chi passa lo fa scavalcando la recinzione con l'aiuto dell'esercito tunisino, la cui presenza appare esigua rispetto alla situazione che si è venuta a creare. "Si fa concreto il rischio di una catastrofe umanitaria con migliaia di sfollati interni, rifugiati e richiedenti asilo che si potrebbero riversare in tutto il Nord Africa e nella sponda nord del Mediterraneo". È l'allarme lanciato dalla Caritas italiana che scrive alle diocesi italiane per sollecitarle alla mobilitazione. "La rivolta, iniziata in Tunisia, le inquietudini che si sono manifestate praticamente in tutti i Paesi musulmani, dal piccolo Gibuti nel Corno d'Africa fino allo sconosciuto Yemen e perfino all'Arabia Saudita - spiega la Caritas in un comunicato sul suo sito -, non si spiegano solo con la povertà, la disoccupazione, la corruzione o la crisi culturale del mondo islamico, elementi pure presenti in varia misura. Ma, associandoci alle parole pronunciate dal presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco, riteniamo che "Quando un popolo viene oppresso per troppo tempo da un regime che non rispetta i diritti umani, prima o poi scoppia" Il leader libico Muammar Gheddafi è un "cadavere politico senza alcun posto nel mondo moderno civilizzato". L'affondo arriva da una fonte interna al Cremlino, citata dall'agenzia stampa Interfax. La fonte russa, che ha parlato in condizione di anonimato, ha anche rivelato che il presidente Dmitry Medvedev "fin da subito ha reagito negativamente" alla violenza delle autorità libiche nei confronti dei manifestanti antiregime. La notizia arriva dopo un lungo silenzio da parte di Mosca. GHEDDAFI "ASSEDIATO" TRATTA Il confine è invisibile, mobile. Era a 400 chilometri da Tripoli, domenica. A duecento ieri. Di qui, a Ovest, il regime di Muammar Gheddafi; di là, in un "Est" che si fa sempre più vicino, i rivoltosi. Le città orientali liberate – Bengasi, Beisa, Derna, Tobruk – si stanno coordinando per collaudare il "Consiglio nazionale libico" che dovrebbe far ripartire il Paese. È una specie di governo di transizione, con sede provvisoria a Bengasi (almeno fino alla liberazione di Tripoli), lanciato sabato scorso dall’ex ministro della Giustizia Mustafa Abdeljalil (tra i primi a voltare le spalle a Gheddafi) e nato domenica. L’iniziativa ha raccolto il favore di Stati Uniti e Ue, che hanno avviato contatti con i leader della rivolta. E rinnovato l’appoggio ai manifestanti. Chiaro segnale: la Casa Bianca ha riposizionato le sue navi di fronte alle coste libiche "per essere pronta o ogni eventualità". Ma il compito politico è tutt’altro che facile. Perché sul nome di Abdeljalil non c’è il consenso unanime dell’opposizione. E perché la situazione sul campo non aiuta certo una svolta. I manifestanti controllano la Cirenaica. Ieri hanno conquistato anche l’aeroporto militare di al-Banin (pochi chilometri da Bengasi). Arruolano migliaia di volontari per preparare l’attacco finale su Tripoli. Ma il regime non sta fermo a guardare. Ieri i caccia dell’aviazione hanno bombardato depositi di munizioni in due località a sud di Bengasi. E i raid sono proseguiti per lunghe ore su tutta l’area. Questo mentre, dalla capitale, il colonnello organizzava "aperture". Secondo al-Jazeera, Gheddafi avrebbe infatti incaricato l’ex capo dell’intelligence all’estero, Bouzaid Dordah, di negoziare con i capi della rivolta nell’est. La mossa non è stata confermata ufficialmente. Quel che è certo, stride con quanto il colonnello ha fatto sinora. Con quanto ha detto. E con quanto ha ripetuto ieri sera, in un’intervista, tutt’altro che conciliante, alla giornalista della Abc Christiane Amanpour. "Tutto il popolo mi ama, morirebbero per proteggermi", ha esordito Gheddafi, sottolineando di non aver mai visto manifestanti a Tripoli e di non aver mai dato ordine di sparare sulla folla. Il rais ha quindi lamentato di essere stato "tradito" dai Paesi occidentali amici, Stati Uniti in testa: "Avevamo un’alleanza contro al-Qaeda e ora che stiamo combattendo il terrorismo ci hanno abbandonato". Gheddafi ne ha avute anche per il presidente Obama, "bravo ma disinformato". E ha insinuato che "forse gli Usa vogliono occuparci". Nel pomeriggio, parole altrettanto dure erano arrivate dal portavoce del governo, Ibrahim Moussa, che aveva accusato "gli imperialisti occidentali e al-Qaeda" di fomentare la rivolta. "Se la Libia sarà attaccata ci saranno migliaia di morti", aveva detto. Del resto, come intenda risolvere i problemi del Paese Gheddafi lo ha dimostrato anche ieri. A Misurata, città 200 chilometri a est di Tripoli parzialmente controllata dai rivoltosi, il regime ha spedito alcuni elicotteri a bombardare una stazione radio. Uno dei velivoli è stato abbattuto dai ribelli e i cinque membri dell’equipaggio sono stati catturati. Mentre si è combattuto tutto il giorno per il controllo della vicina base dell’aeronautica militare. Un testimone ha riferito che miliziani del regime hanno sparato sui passanti, uccidendone almeno due. Tensione anche a Zawia, (50 chilometri a ovest di Tripoli), dove l’opposizione sta concentrando le forze nel timore di un contrattacco del regime. Circa duemila uomini fedeli al colonnello hanno circondato la città. Tre soldati sarebbero già stati uccisi in sporadici scontri nel centro. "Attaccheranno presto – ha fatto sapere un ex maggiore della polizia che si è unito alla protesta – faremo del nostro meglio per respingerli". Sembra sotto il controllo dell’esercito, invece, Sabrata. Sicuramente presi tutti i pozzi petroliferi. L’opposizione ha anche annunciato di aver riaperto le esportazioni. Quanto a Tripoli, secondo <+corsivo>al-Arabiya<+tondo> il regime starebbe procedendo ad arrestare i militari che nei giorni scorsi hanno disertato. Mentre la gente continua a restare barricata in casa. Un corteo anti-Gheddafi è stato disperso dalle forze di sicurezza che hanno sparato in aria. Barbara Uglietti
1 marzo 2011 LE REAZIONI Clinton preme su Tripoli: "Aperte tutte le opzioni" "Esploreremo ogni tipo di opzione possibile. Ma finché il governo libico continuerà a minacciare e ad uccidere i cittadini libici, nessuna opzione è esclusa". Il segretario di Stato americano Hillary Clinton – per la quale sostenere le rivolte arabe "non è una questione di ideali ma un imperativo strategico" – è netta al termine di una cruciale sessione del Consiglio dei diritti umani dell’Onu a Ginevra nella quale la comunità internazionale ha cercato risposte alla violenza in Libia. "Gli Stati Uniti sostengono una transizione irreversibile e pacifica verso la democrazia", ha spiegato la Clinton intimando a Muammar Gheddafi di lasciare "senza ulteriori violenze o rinvii". Una presa di posizione ormai condivisa e fatta sua, tra gli altri, anche dal premier britannico David Cameron, il quale ha annunciato che la Gran Bretagna non esclude l’uso "di risorse militari". A Ginevra è arrivato un numero record di ministri degli Esteri. Per l’Italia era presente Franco Frattini: "Noi abbiamo in primo luogo confermato la necessità di una missione dell’Onu che svolga un indagine ispettiva in Libia, per raccogliere anche elementi che potrebbero essere preziosi per la Corte penale internazionale", ha sottolineato il titolare della Farnesina. Frattini ha anche citato il "forte impatto che la crisi libica potrebbe avere sulla Tunisia e sull’Egitto in termini socio-economici. Migranti e rifugiati – ha ricordato – stanno attraversando i confini per sfuggire alle violenze. "Siamo convinti che è estremamente importante porre fine alla violenza e iniziare a aprire un dialogo con la Libia, escludendo però il regime responsabile di così tante morti", ha detto ancora Frattini, secondo il quale "il regime libico non può più essere considerato un interlocutore legittimo". Sabato notte il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato all’unanimità sanzioni punitive e il deferimento alla Corte penale internazionale contro Gheddafi e i suoi accoliti e stabilito il blocco di tutti i loro beni all’estero, il divieto di viaggio e l’embargo di vendita di armi. Un voto per chiedere la fine immediata degli attacchi sui civili, che costituiscono "crimini contro l’umanità". La risoluzione fa riferimento all’articolo 7 della Carta delle Nazioni Unite, che non esclude un intervento internazionale, se necessario. Ieri anche l’Ue ha approvato all’unanimità la messa in atto della risoluzione Onu 1970 e una serie di sanzioni complementari contro Gheddafi e altre 25 persone tra suoi familiari ed alleati. Tra queste, il divieto di ingresso nei territori europei. La lista delle persone che subiranno il congelamento dei beni e il divieto di ingresso nell’Ue "è più lunga di quella delle Nazioni Unite", ha precisato una fonte. La Nato, peraltro, sta lavorando all’ipotesi di una no-fly zone che però necessiterebbe dell’avallo del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Per imporre una no-fly zone, è il parere del ministro degli Esteri britannico William Hague, è necessario "un forte sostegno internazionale e i mezzi per poterlo istituire". Washington, intanto, ha congelato beni libici per 30 miliardi di dollari. David Cohen, sottosegretario al Tesoro per la lotta al terrorismo, ha dichiarato che si tratta della più grande somma di denaro mai bloccata negli Stati Uniti. Il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, ha detto che l’esilio di Gheddafi "è una delle opzioni" per la soluzione della crisi libica, ma ha definito "un’illazione" la possibilità che gli Usa aiutino il colonnello in questa eventualità. Lo stesso colonnello, peraltro, da Tripoli ha escluso un suo esilio: "Chi lascia il proprio Paese?". Gheddafi ha inoltre invitato l’Onu ed altre organizzazioni internazionali ad organizzare una missione in Libia. Paolo M. Alfieri
1 marzo 2011 Le città liberate Tra i rivoltosi di Nalut: "Non siamo l’Iraq" L’ultima volta che il colonnello è passato per questa città in mezzo al deserto era lo scorso mese di ottobre. Una visita di quelle consuete: farsi vedere nei possedimenti periferici del regno per immergersi nel tripudio popolare. Adesso i ritratti di Muammar Gheddafi, come rifiuti da distruggere col fuoco purificatore, si raccolgono a pezzi di carbone per le strade di Nalut, accanto al monumento dedicato al "Libro verde" che celebra il trionfo del gheddafismo, pure quello scorticato dalla rabbia del suo popolo. Mentre ovunque, su muri e case, sta incisa la parola più gridata al-hureia, libertà. Per raggiungere Nalut occorre quasi una mezza giornata d’auto, partendo dalla costa tunisina di Zarzis, attraverso un deserto di pietra e sabbia. La frontiera si taglia come burro. Tranne che per quella tunisina, nessun controllo, nessun visto d’ingresso per entrare in Libia. Come clandestini. I funzionari della Jamahirya islamica di Libia sonnecchiano negli uffici e chiudono un occhio, mentre un folto gruppo di giornalisti stranieri irrompe nel territorio libero della nuova Libia. C’è una delegazione del Comitato di liberazione che attende la stampa internazionale. Loro si definiscono al-towar, insorti, e sono giovani. Sulla strada incontriamo rari uomini armati di vecchi moschetti da caccia e qualche mitragliatore Kalashnikov. Naluf, 25mila abitanti, è nell’ovest della Libia. Un centinaio di chilometri a nord dei ricchi giacimenti petroliferi libici. Non porta segni di battaglia, bombardamenti o l’evidenza di scontri armati tra fazioni rivali. Le tracce della ribellione sono il nerofumo che ombreggia i resti delle finestre degli edifici governativi dati alle fiamme dagli insorti. Insorti che, tranne qualche sporadico caso di fuga verso la capitale, che dista 270 chilometri a nord, sono gli stessi ex poliziotti, gli ex militari, gli ex funzionari statali, e pure gli ex uomini che un tempo vivevano spargendo il terrore, gli agenti del mukabarat, la polizia segreta. Imat è il nome del giovane towar che ci introduce in città. Tra un mese e mezzo si sarebbe dovuto sposare: "Questo non è il momento". Imat ha rinviato il suo programma d’amore per entrare in un tunnel che lo porta allo scontro diretto con il colonnello dittatore: "Tutti noi abbiamo paura di morire. Ma senza quel demonio sarà più bello vivere e sposarsi. Libertà, democrazia. Questo è un Paese ricco di petrolio, ma il suo popolo soffre la fame". Due terzi dei libici, su 7 milioni di abitanti, vivono con due dollari al giorno. La città è nel caos solo perché dopo dieci giorni senza carburante, oggi è arrivata una cisterna di benzina. L’ingorgo soffoca il centro cittadino. Dove nessuno sembra fare caso alle minacce ripetute dal colonnello: riprendersi tutta la Libia e punire i ribelli: "Sono solo parole", osserva un automobilista che si preoccupa del pieno per la sua Toyota. Incontriamo i responsabili del Comitato dei saggi che adesso governa Nalut. A capo c’è l’avvocato Sahban Abuseta. Racconta di come la città si sia sciolta come neve sotto il sole, senza colpo ferire. Dice che Gheddafi ha i giorni contati, ma ci tiene a dire che: "Respingiamo ogni possibile interferenza internazionale interna alla Libia da parte di forze armate straniere per cacciare il dittatore: non vogliamo diventare come l’Iraq". È ora di tornare, viaggiare di notte resta pericoloso. Nell’ultimo villaggio libico, un gruppo di ragazzini scaglia sassi contro le nostre auto. Imat spiega che "Qui tifano per Gheddafi". dal nostro inviato a Nalut (Libia) Claudio Monici
1 marzo 2011 REPORTAGE Sul confine tunisino lo "tsunami dei migranti" Tutto trafelato, Fuad Younnus si fa largo nella bolgia umana che la frontiera con la Libia espelle come un magma informe, disordinato, ma soprattutto dolente. L’egiziano, che è basso di statura, ondeggia di qua e di là, per via del fatto che sulla testa trasporta una valigia che quasi è larga come un letto matrimoniale. Dentro ci ha messo tutto quello che poteva. Per lo più vestiti e scarpe. Una radio a batterie, qualche provvista di carne in scatola, biscotti secchi per il viaggio e una bambola. Il regalo di compleanno, "il 12 giugno", per la figlia più piccola, Aisha: "Il dono lo riceverà in anticipo, ma quando non lo so dire, se mi guardo attorno. Ma quanti siamo qui? Come pensano di portarci via? Ma dove? Tutto mi sembra più complicato e impossibile adesso che quando sono scappato dalla Libia". "Non è stato difficile raggiungere Ras Jedir – sottolinea Younnus –. Però quanta paura. Si sentiva sparare, soprattutto di sera. Finalmente, quando con gli altri sono arrivato alla frontiera, i libici prima di farmi passare mi hanno portato via il telefonino. E così è successo a tanti egiziani come me che sono scappati da Tripoli per rifugiarsi in Tunisia sperando ti tornare in Egitto". E adesso? "Adesso non lo so. Quello che so è che io ho perso tutto quello che avevo di più grande per me e per la mia famiglia che aiutavo in Egitto: il mio lavoro di cameriere. Adesso di professione faccio il profugo che dovrà andare a cercarsi un mestiere da un’altra parte nel mondo. Durante la fuga, con i miei amici, si parlava tanto di Europa". Sudata di dolore e sofferente per un futuro incerto, sboccia come un fiore, già malato nelle sue drammatiche dimensioni destinate ad aumentare ancora, l’emergenza dei profughi che lasciano quella Libia che giorno dopo giorno si decompone nell’attesa dello scontro finale tra chi deve vincere e chi deve morire. La portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur), Liz Eyster, l’ha definita uno "tsunami di migranti". Nel punto di frontiera tunisino di Ras Jedir, sono centinaia di migliaia che si addensano sulla nuda terra, spossati dal viaggio, dalle privazioni, dal non sapere che cosa fare e dove andare. Senza gabinetti, e da giorni senza acqua per lavarsi. Centinaia di persone che vengono spinte dentro gli autobus di linea oppure nei pullman turistici tunisini come sardine in scatola per essere portati da qualche parte. Tantissimi si radunano per amicizia o per provenienza di città e villaggio, con la schiena stanca gettata su montagne di valigie, scatole e cartoni sigillati con nastro adesivo o pezzi di cavi elettrici come fosse spago da viaggio. Sfollati che vagano disordinatamente, mentre sui loro volti protetti da pastrani e caftani tirati fin sulla fronte, per ripararsi dal freddo del primo mattino, sembra di scorgere già l’ombra dell’incertezza per il loro futuro prossimo. C’è anche chi gioisce davanti alle telecamere di decine di troupe televisive e giornalisti internazionali, ma negli occhi di molti sembra di cogliere lo sguardo pudico di un bambino rimasto solo nel buio, quando di colpo è privato dei genitori. Quando è sradicato dalle sue certezze per essere gettato nel buio della strada e di fronte a una sola domanda: "Che cosa ne sarà della mia vita?". In un istante sospinta sul ciglio dell’incertezza dal vento della paura, della guerra. Come il passato ci ha fatto vedere, purtroppo, tante volte. E sono immagini che ricordano gli esodi del Kosovo, del Ruanda. Della povera gente, resa ancora più povera e sola. Mentre si fa molto preoccupato l’allarme lanciato dagli operatori umanitari sulla situazione dei profughi. Domenica al confine tunisino si parlava di 50.000 sfollati, quasi la metà egiziani. Senza alcun tipo organizzazione, se non quella scaturita dalle mani e dalla spontanea buona volontà espressa da decine e decine di civili tunisini nel nome "della solidarietà araba". Un aiuto schiamazzato dai clacson delle auto lanciate a tutta velocità sulla strada per Ras Jedir, con le bandiere tunisine e quella della Libia insorta, con il loro carico umanitario fatto di coperte, materassi e tante ceste di baguette per farne panini imbottiti di tonno. Una incredibile solidarietà, una "Protezione civile dei poveri" che andava incontro ad altri poveri che ancora non sono di nessuno, come tanti egiziani, abbiamo sentito, lamentavano nei confronti delle distratte e lontane autorità del Cairo. Per la portavoce dell’Acnur, Liz Eyster, "la priorità è provvedere per ognuno a cibo e accoglienza e per questo sono in arrivo 10.000 tende e cibo altamente proteico. Il passo successivo sarà spostare la gente dalle frontiera e per questo si stanno organizzando navi e aerei". Ma sono già 100.000, in particolare tra Tunisia ed Egitto, le persone che hanno abbandonato la Libia, secondo una stima dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati: "Facciamo appello perché la comunità internazionale risponda rapidamente e generosamente per aiutare i governi a fronteggiare l’emergenza", ha detto l’Alto commissario Antonio Guterres. Un messaggio d’aiuto che i tunisini non sono stati ad aspettare atteso pur di andare in soccorso subito alla massa di disperati in fuga dalla Libia. Nonostante anche la Tunisia si trovi ancora in alto mare. Nel pieno di una crisi politica del dopo Ben Ali che domenica sera ha portato alle dimissioni del governo di Mohammad Gannouchi. Dimissioni a cui si è arrivati con i continui disordini di piazza repressi con morti e feriti. Una situazione dagli sviluppi imprevedibili, per un Paese che è diventato un test per la democrazia nei Paesi arabi insorti contro i loro despoti. Tanto che l’Alto commissario Guterres ha voluto elogiare i tunisini per gli sforzi fatti nel fornire soccorso agli sfollati dalla Libia: "È encomiabile quello che sono stati capaci di fare". dal nostro inviato a Ras Jedir Claudio Monici
1 marzo 2011 IRAN Iran, lacrimogeni sui manifestanti Oppositori arrestati: "Affari interni" Le forze di sicurezza hanno fatto uso di gas lacrimogeni nel centro di Teheran per disperdere i manifestanti dell'opposizione, secondo quanto riferisce il sito dell'opposizione Kaleme. Nel centro della capitale è segnalato un grande ingorgo di automobili, mentre manifestanti starebbero marciando sul Viale Enghelab, che taglia in due la città sull'asse est-ovest. Oltre ai siti dell'opposizione, anche testimoni segnalano un grande schieramento di forze di sicurezza nel centro di Teheran, dopo che su Internet erano circolati negli ultimi giorni diversi appelli del fronte anti-governativo a tornare a manifestare per chiedere la liberazione di Mir Hossein Mussavi e Mehdi Karrubi. Reparti anti-sommossa e miliziani islamici Basiji controllano le principali piazze e incroci della capitale, come avvenuto in occasione dei raduni del 14 e del 20 febbraio, dispersi con scontri che sono costati almeno due morti. Negli ultimi giorni, tra l'altro, la polizia è tornata a sequestrare in alcuni quartieri della città le antenne paraboliche per la ricezione dei canali satellitari dall'estero, che trasmettono anche notizie sull'attività dell'opposizione e sulle manifestazioni previste. I LEADER DELL'OPPOSIZIONE ARRESTATI: "AFFARI INTERNI" La sorte dei leader dell'opposizione iraniana Mir Hossein Mussavi e Mehdi Karrubi, che secondo i loro siti sarebbero stati arrestati, "è un affare interno" e "nessun Paese ha il diritto di interferire". Lo ha detto oggi il portavoce del ministero degli Esteri di Teheran, Ramin Mehman-Parast, senza confermare la notizia. Ieri sera gli Usa hanno definito "inaccettabili" gli arresti di Mussavi e Karrubi, mentre la Germania e la Gran Bretagna hanno espresso preoccupazione per la loro sorte. "Le autorità giudiziarie esamineranno il caso, ma questa non può essere una scusa per gli Stati Uniti o altri Paesi occidentali per interferire", ha detto Mehman-Parast. Comunque, ha aggiunto il portavoce iraniano, chiedendo che venga rispettato il diritto dell'opposizione a manifestare Washington si preoccupa solo "di poca gente nelle strade", mentre "dovrebbe ascoltare la maggioranza del popolo", che sostiene il sistema al potere. Intanto i figli di Mir Hossein Mussavi e Mehdi Karrubi si sono rivolti con una lettera ai "leader religiosi" del Paese per chiedere loro di intervenire presso le autorità al fine di "prevenire atti illegali commessi nel nome dell'Islam". Lo riferisce oggi il sito Kaleme di Mussavi. Nella lettera i figli dei due capi dell'opposizione parlano di "incarcerazione" non solo dei rispettivi padri ma anche delle madri, che sarebbero state portate via con loro dalle loro abitazioni. "I nostri genitori non hanno commesso alcun reato ma hanno solo parlato di diritti e la loro carcerazione è la migliore dimostrazione che sono nel giusto", si legge ancora nella lettera. Javid Houtan Kian, l'avvocato dell'iraniana Sakineh Mohammadi Ashtiani, è stato condannato a morte e rischia l'impiccagione immediata. È l'allarme che lancia il Comitato internazionale contro la lapidazione, secondo il quale l'uomo ha subito quattro condanne a morte, di cui tre revocate. La terza resta valida e potrebbe essere eseguita in tempi molto stretti. Una fonte del Comitato ha riferito che "ieri Houtan Kian ha avuto la possibilità di fare una telefonata dal carcere e ha contattato un conoscente a Tabriz, a cui ha chiesto di mobilitarsi e rivolgere un appello alla comunità internazionale per la sua salvezza". Houtan Kian è stato arrestato il 10 ottobre 2010 insieme a Sajjad Ghaderzadeh, figlio di Sakineh, e a due giornalisti tedeschi (questi ultimi liberati due settimane fa) che li intervistavano a Tabriz sul caso della donna condannata alla lapidazione per adulterio e complicità nell'omicidio del marito. Rinchiuso in un primo momento nel carcere della città, l'avvocato è stato poi trasferito nel famigerato carcere di Evin, a Teheran.
2011-02-28 28 febbraio 2011 TRIPOLI Usa: esilio per Gheddafi Anche la Ue vara sanzioni Il mondo cerca il modo per fermare la violenza in Libia e da Washington spunta l'ipotesi esilio per Muammar Gheddafi. Il tutto mentre a Ginevra il Consiglio dei Diritti Umani dell'Onu ha puntato lo sguardo proprio sulle rivolte popolari nel mondo arabo e sulla necessità di trovare una soluzione alle violenze e e all'anarchia in cui sta sprofondando la Libia. Per Hillary Clinton sostenere le rivolte arabe "non è una questione di ideali ma è un imperativo strategico". In Libia l'ex capo dell'intelligence libica all'estero, Bouzid Durda, è stato incaricato da Muammar Gheddafi di negoziare con i capi della rivolta. L'Ue ha trovato l'accordo sulle sanzioni per stringere la morsa attorno a Gheddafi e il suo più ristretto entourage: congelati i beni, divieto di viaggio per tutti. Il tribunale Penale dell'Aja ha avviato la raccolta di materiale preliminare sui crimini commessi nella repressione della rivolta ed entro una settimana potrebbe incriminare Muammar Gheddafi per crimini contro l'umanità. La Nato, intanto, sta lavorando all'ipotesi di una No fly zone che però necessiterebbe dell'avallo del Consiglio di sicurezza dell'Onu. Ipotesi sostenuta con forza dal premier britannico David Cameron. Il Pentagono, intanto, in attesa di una decisione della Casa Bianca, ha ridispiegato le sue forze attorno alla Libia per essere pronta ad ogni eventualità. Tra le altre unità avvicinate al teatro libico la portaelicotteri d'assalto Kearsage, con a bordo un contingente di oltre 1.800 Marines. la nave trasporta 5 caccia bombardieri a decollo verticale Harrier, 42 elicotteri CH-46 Sea Knight e 6 SH-60F Seahawk. A Ginevra Franco Frattini proporrà una missione congiunta Unione Africana e Lega Araba nel Paese nordafricano. Il titolare della Farnesina incontrerà il segretario di Stato, Hillary Clinton. E intanto la situazione sul campo appare ancora in una sostanziale fase di stallo. Si combatte ancora vicino a Misurata, 200 chilometri a est di Tripoli. I ribelli hanno sventato un attacco delle forze lealiste, nei pressi della terza cità libica, e hanno abbattuto almeno un elicottero militare che aveva aperto il fuoco contro la locale stazione radiofonica. I ribelli libici che controllano Zawia, a soli 50 km a ovest da Tripoli, temono il contrattacco da parte delle forze di Gheddafi: 2.000 uomini fedeli al colonnello hanno infatti circondato la città. La città, con le sue raffinerie di petrolio e un porto, è situata in una posizione strategica. E intanto resta forte la preoccupazione per l'emergenza umanitaria e Frattini si è detto disposto a sostenere l'apertura di un corridoio umanitario per consentire l'arrivo degli aiuti. Oltre alla questione dei profughi, c'è il rischio che inizi preso a scarseggiare il cibo: nella Cirenaica le riserve basteranno solo per 2-3 settimane. Il regime di Muammar Gheddafi non controlla più i principali pozzi di petrolio in Libia. Lo ha annunciato il commissario europeo all'Energia, Gunther Oettinger. "Abbiamo tutte le ragioni per pensare che i più grandi giacimenti (di gas e petrolio) non sono più nelle mani di Gheddafi, ma si trovano sotto il controllo delle tribù e delle forze provvisorie che hanno ripreso il potere", ha spiegato alla stampa. In queste condizioni "abbiamo deciso di non imporre un blocco per non penalizzare le persone che non saranno coinvolte dalle sanzioni", ha aggiunto a margine di una riunione dei ministri dell'Energia dei Ventisette. In Libia, "la produzione petrolifera ha subito un colpo d'arresto", ha precisato aggiungendo che "le operazioni dovrebbero riprendere".
28 febbraio 2011 AFGHANISTAN Giovedì i funerali del tenente Ranzani Un militare italiano è morto e altri quattro sono rimasti feriti nell'ovest dell'Afghanistan. I militari italiani, del quinto Reggimento Alpini di Vipiteno, erano a bordo di un veicolo blindato Lince che è saltato su un ordigno improvvisato. Lo riferisce una nota dello Stato maggiore della Difesa. L'esplosione è avvenuta alle 12.45 ora locale e ha coinvolto un blindato Lince del 5° reggimento alpini. La vittima è il tenente Massimo Ranzani, 36 anni, nato a Ferrara il 24 marzo 1974. Era alla sua seconda missione in Afghanistan. Viveva con la famiglia ad Occhiobello (Rovigo). Il convoglio italiano stava rientrando alla base dopo un'operazione di assistenza medica alla popolazione locale. L'attentato è stato rivendicato dai talebani. In un comunicato di due righe pubblicato sulla loro pagina web gli insorti hanno reso noto che "una mina terrestre collocata da un mujaheddin nell'area di Company del distretto di Adar Sang ha sventrato un automezzo in pattugliamento dell'Isaf", la Forza internazionale di assistenza alla sicurezza sotto comando Nato. L'esplosione, si dice infine, "ha ucciso o ferito tutti gli invasori che si trovavano al suo interno alle 14:00" locali (le 10:30 italiane). Le condizioni dei quattro militari feriti sono gravi, ma stabili: sono ricoverati presso l'ospedale da campo "Role 2" di Shindand. Hanno riportato traumi e fratture primariamente agli arti inferiori, per due di loro si è reso neceassario un intervento. Per uno dei quattro militari è probabile sia necessario anche un intervento oculistico. La salma del tenente degli alpini dovrebbe rientrare in Italia mercoledì. Le esequie dovrebbero essere celebrate giovedì, nella chiesa di Santa Maria degli Angeli, a Roma. LE REAZIONI Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, appresa con profonda commozione la notizia del gravissimo attentato perpetrato a Shindand, in Afghanistan, contro il contingente italiano impegnato nella missione internazionale ISAF, in cui un militare ha perso la vita e altri quattro sono rimasti feriti, esprime i suoi sentimenti di solidale partecipazione al dolore dei famigliari del caduto e un affettuoso augurio ai militari feriti. Lo rende noto un comunicato del Quirinale. "È un calvario, ci chiediamo se gli sforzi che stiamo facendo per la democrazia in quel lontano paese stiano andando in porto". Lo ha detto il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, commentando l'ultimo attacco a un convoglio di militari in Afghanistan, in cui un soldato italiano è rimasto ucciso e altri quattro sono rimasti feriti. "La linea non cambia di fronte a un evento luttuoso. Le scelte si fanno a prescindere da questo, certo anche tenendo conto del sacrificio che queste scelte comprendono". Così il ministro della Difesa Ignazio La Russa ha risposto a chi gli chiedeva se la linea italiana in Afghanistan sarebbe cambiata dopo la morte questa mattina di un alpino a Shindand
28 febbraio 2011 ATTENTATO Afghanistan, morto un alpino La commozione di Napolitano Un militare italiano è morto e altri quattro sono rimasti feriti nell'ovest dell'Afghanistan. I militari italiani, del quinto Reggimento Alpini, erano a bordo di un veicolo blindato Lince che è saltato su un ordigno improvvisato. Lo riferisce una nota dello Stato maggiore della Difesa. L'esplosione è avvenuta alle 12.45 ora locale e ha coinvolto un blindato Lince del 5° reggimento alpini. Il convoglio italiano stava rientrando alla base dopo un'operazione di assistenza medica alla popolazione locale. Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, appresa con profonda commozione la notizia del gravissimo attentato perpetrato a Shindand, in Afghanistan, contro il contingente italiano impegnato nella missione internazionale ISAF, in cui un militare ha perso la vita e altri quattro sono rimasti feriti, esprime i suoi sentimenti di solidale partecipazione al dolore dei famigliari del caduto e un affettuoso augurio ai militari feriti. Lo rende noto un comunicato del Quirinale. "È un calvario, ci chiediamo se gli sforzi che stiamo facendo per la democrazia in quel lontano paese stiano andando in porto". Lo ha detto il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, commentando l'ultimo attacco a un convoglio di militari in Afghanistan, in cui un soldato italiano è rimasto ucciso e altri quattro sono rimasti feriti.
28 febbraio 2011 TRIPOLI Libia. la sfida del Rais: "Sanzioni non hanno valore" Braccato dalla comunità internazionale, dopo l'approvazione unanime di una durissima risoluzione delle Nazioni Unite che ne prospetta anche il deferimento alla corte dell'Aja, il dittatore libico Muammar Gheddafi è finito in un vicolo cieco dal quale sarà virtualmente impossibile uscire. Oltre a rischiare il carcere per possibili crimini di guerra e contro l'umanità il clan di Gheddafi - che ha definito la risoluzione "nulla" e senza alcun valore - vede congelati i beni piazzati all'estero, che secondo alcune fonti potrebbero toccare i 500 miliardi di dollari, e non può neppure più viaggiare fuori dal paese. Dopo il presidente Usa Barack Obama venerdì, anche la Gran Bretagna ha annunciato il blocco dei beni dei Gheddafi, e numerosi altri paesi sono pronti a seguire, tra cui i 27 dell'Ue domani, come richiesto dalle Nazioni Unite. La risoluzione dell'Onu, la 1970, è stata approvata in tempi rapidissimi e contiene decisioni durissime nei confronti del regime libico, senza precedenti nella storia del Palazzo di Vetro. È la seconda volta che i Quindici decidono di coinvolgere la Corte Penale Internazionale (Cpi) dell'Aja. Era già successo nel 2005 nei confronti del leader sudanese Omar al-Bashir, per il quale è stato poi emesso un mandato di cattura, ma il voto non era stato unanime: gli Usa del presidente George W. Bush e la Cina si erano astenuti, non riconoscendo il ruolo della Corte dell'Aja.
Questa volta la comunità internazionale ha voluto fare in fretta e dare un chiarissimo segnale sia a Gheddafi sia agli altri dittatori che in futuro colpiranno le popolazioni civili per rimanere disperatamente al potere. La risoluzione è stata approvata sotto l'ombrello del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, che autorizza come ha ricordato l'ambasciatore francese Gerard Araud "un intervento della comunità internazionale se un governo non è più in grado di proteggere i suoi cittadini".
Il Capitolo VII della Carta apre teoricamente la porta all' eventualità di un intervento armato, ma non siamo ancora a questo punto, dato che la risoluzione fa esplicitamente riferimento all' articolo 41, quello che parla di "misure che non coinvolgono l'uso di forze armate".
Hanno chiesto il riferimento Russia e Cina per evitare il ripetersi automatico o quasi di una guerra come in Afghanistan o in Iraq, spiegano fonti diplomatiche chiedendo di non essere citate. È l'articolo successivo, il 42 (non citato nella risoluzione), ad autorizzare l'uso della forza se le misure previste nell'articolo precedente non danno i risultati auspicati, prospettando interventi "via aria, mare o forze terrestri per mantenere o restaurare la pace e la sicurezza internazionale". Quindi teoricamente anche l'istituzione di una "no-fly zone" sotto l'ombrello Onu, una zona di non volo per proteggere le istallazioni petrolifere e le popolazioni civili dai Mig di Gheddafi, avrebbe bisogno di una nuova risoluzione. Ma non tutti i giuristi sono d'accordo su questo punto.
Dopo il voto unanime dei Quindici, nella notte tra sabato e domenica, il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon - che domani vedrà Obama alla Casa Bianca - ha definito le misure decise "dure", prima di aggiungere: "nei prossimi giorni se ce ne sarà bisogno, una azione ancora più dura potrebbe diventare necessaria". La condanna di Gheddafi, che deve lasciare il potere senza spargere nuovo sangue, è stata ribadita oggi dal cancelliere tedesco Angela Merkel, dal segretario al Foreign Office William Hague, e lo ha detto senza ambiguità anche il ministro degli esteri italiano Franco Frattini.
Il segretario di Stato Usa Hillary Clinton, partendo per Ginevra dove parteciperà domani per la prima volta al consiglio Onu sui diritti umani, ha fatto infine un timido riferimento all'opposizione in Libia, spiegando che Washington ha già avuto i primi contatti e rimane pronta a fornire assistenza, se verrà richiesta.
27 febbraio 2011 Ue e "rivoluzione" in Nordafrica e Medio Oriente La scelta necessaria Gli errori da non fare VITTORIO E. PARSI Mentre le coscienze di tutti noi sono scosse da quanto sta avvenendo in Libia, da più parti si chiede che la comunità internazionale intervenga per fermare il bagno di sangue. Qualcosa sta avvenendo in queste ore, attraverso il blocco dei beni riconducibili al Colonnello e al suo entourage, la precisazione che i responsabili dei crimini commessi contro il popolo libico saranno comunque perseguiti e le diverse sanzioni imposte al regime. Sono misure importanti, incapaci di arrestare il massacro, ma in grado di mandare un forte segnale che il mondo non è neutrale in questa sfida tra il tiranno e il suo popolo, né intende girare lo sguardo altrove. Poco, tanto? In proposito basterebbe ricordare come nel 1982 Afez el-Assad, padre dell’attuale presidente siriano, fece migliaia di morti nella città di Haman per stroncare una rivolta guidata dalla Fratellanza Musulmana nella sostanziale indifferenza del mondo. Qualcosa da allora, grazie a Dio, è cambiato. In queste ore, in particolare, si parla insistentemente dell’idea che la Ue possa stabilire unilateralmente una no-fly zone su tutto il territorio libico, per impedire al dittatore di bombardare il suo popolo. È una misura che, al di là della sua apparente semplicità, va valutata con la massima prudenza, per la sua estrema gravità, tanto più se attuata in assenza di un pronunciamento dell’Onu. Le no-fly zone, oltretutto, non hanno mai risolto nulla da sole e hanno semmai sempre portato, o prima o poi, alla presa in carico diretta dell’amministrazione del territorio che intendevano proteggere: è successo in Bosnia, nel Kurdistan e nel sud dell’Iraq dopo la guerra del 1990-91, in Kosovo. Una cosa è invece oggi chiara: non solo nessuno desidera garantire o gestire la possibile transizione della Libia post-Gheddafi, ma se anche qualcuno nutrisse una simile ambizione commetterebbe il più fatale degli errori. La drammaticità di quello che sta avvenendo in Libia non dovrebbe mai farci comunque dimenticare che qualunque decisione si sia in procinto di adottare deve riuscire a destreggiarsi tra due coppie di esigenze spesso in tensione tra loro. Occorre fare qualcosa che sia efficace subito (logica di breve periodo), ma che contemporaneamente non mini le chance di successo duraturo (logica di lungo periodo). È importante agire in uno specifico teatro (la Libia), ma senza che ciò possa creare le condizioni per vanificare la strategia complessiva nel quadro regionale (Maghreb e Medio Oriente). Questa gigantesca crisi è destinata a protrarsi ancora a lungo, e quindi è particolarmente opportuno tenere nella dovuta considerazione la storia di questa parte del mondo, soprattutto nei suoi rapporti con l’Occidente, per cui un intervento militare europeo in Libia (che non si limitasse alla protezione del rimpatrio di cittadini dell’Unione minacciati da forze ostili) alimenterebbe i sospetti di mire su quel petrolio e quel gas di cui la Libia è ricca. Ci sono poi almeno due altri vincoli difficilmente aggirabili: 1) il tempo in cui gli Usa esercitavano influenza determinante sulla regione sta tramontando. Questo è più importante del fatto che avessero o meno previsto ciò che sta accadendo, perché anche se lo avessero previsto non avrebbero potuto fare molto per evitarlo, condizionarlo o guidarlo; 2) è determinante evitare di mosse che possano contribuire a saldare la "rabbia araba" contro i propri governi con la rabbia araba contro la politica israeliana. Se il sentimento di umiliazione domestica si dovesse sommare con l’umiliazione regionale legata all’irrisolta vicenda israelo-palestinese ci troveremmo in guai decisamente peggiori degli attuali. Oltre a quello che già le autorità internazionali stanno approntando, la sola cosa concreta che possiamo fare, e che dobbiamo fare proprio perché è alla nostra portata, è organizzare immediatamente un piano europeo per i possibili profughi: accogliendo comunque subito chi arriva e valutando, caso per caso successivamente, quanti di questi potranno avere asilo o ospitalità permanente in Europa. Questo sì che farebbe percepire a tutta la regione la disponibilità europea ad accompagnare con "simpatia" i rivolgimenti in atto e a farsi carico di una parte del costo umano che, inevitabilmente, tutte le rivoluzioni hanno sempre comportato e sempre comporteranno. Vittorio E. Parsi
27 febbraio 2011 IL CAIRO Tunisia, Ghannouchi si dimette Beji Caid Sebsi è il nuovo premier Poche ore dopo l'annuncio del presidente tunisino ad interim, Mohammed Ghannouchi, nuovo primo ministro è stato nominato Beji Caid Sebsi. Nella capitale continuano gli scontri, gli atti di sciacallaggio e le proteste. L'ex primo ministro avevva annunciato, in un discorso televisivo, le sue dimissioni. Lo riferisce Al Jazira. "Queste dimissioni sono al servizio della Tunisia e della rivoluzione", ha detto. "Non sono uomo della repressione e non lo sarò mai", ha precisato Ghannouchi in francese, spiegando di volere lasciare il passo a un premier che possa essere "più capace di lui". E ha aggiunto che non prenderà decisioni che sfocino "in uno spargimento di sangue". LE DIMISSIONI DEL MINISTRO DEGLI ESTERI FRANCESE Il ministro degli Esteri francese, Michele Alliot-Marie ha dato le dimissioni. Il gesto era atteso, a seguito dello scandalo suscitato dai suoi rapporti con l'entourage del deposto presidente tunisino Ben Ali. "Nonostante non creda di aver commesso alcun illecito, ho deciso di dimettermi - ha scritto Alliot-Marie in una lettera a Sarkozy. Da alcune settimane sono stata bersaglio di attacchi politici e dei media, usati per creare sospetto, bugie e generalizzazioni", ha scritto. "Nelle ultime due settimane, è stata la mia vita privata che è stata molestata da certi media e non posso accettare che alcune persone usino questo complotto per provare a far credere alla gente che la politica internazionale francese sia stata indebolita", ha aggiunto. La Alliot-Marie era finita sotto accusa per aver offerto al regime di Ben Ali cooperazione di polizia durante gli scontri, al ritorno da una vacanza proprio in Tunisia. Ma ha anche accettato passaggi aerei gratuiti da uomini vicini al dittatore. In serata, Sarkozy ha annunciato un rimpasto di governo. Al posto della Alliot-Marie andrà Alain Juppé, fino a oggi ministro della Difesa, Sarà sostituito dal capogruppo dei senatori dell'Ump, Gerard Longuet. Confermata anche la sostituzione del ministro dell'Interno, Brice Hortefeux, con Claude Gueant, fino ad oggi segretario generale dell'Eliseo. Hortefeux diventa invece consigliere politico di Sarkozy, in vista delle elezioni presidenziali del 2012.
28 febbraio 2011 VIOLENZE NEL SULTANATO Oman, prosegue la protesta: ieri sei morti È di sei morti il bilancio degli scontri tra manifestanti pro-democrazia e forze di sicurezza registrati ieri in Oman. Lo hanno riferito fonti mediche del sultanato del Golfo. In un primo momento ieri sembrava che le vittime delle violenze fossero due. Intanto prosegue anche oggi la protesta contro il governo, con i manifestanti che hanno bloccato la strada verso Sohar, città industriale sede di una raffineria di greggio, teatro ieri degli scontri più aspri. Secondo testimoni oculari, gli agenti avrebbero aperto il fuoco contro i manifestanti, circa 2mila, scesi in piazza per chiedere lavoro e riforme politiche. La polizia avrebbe fatto ricorso a gas lacrimogeni e proiettili di gomma per disperdere la protesta.
2011-02-26 26 febbraio 2011 LIBIA Libia, Obama firma le sanzioni Berlusconi: stop al sangue "Se tutti siamo d'accordo possiamo mettere fine al bagno di sangue e sostenere il popolo libico". Lo ha detto Silvio Berlusconi intervenendo al 46/mo congresso dei Repubblicani. Il presidente del consiglio ha sottolineato che a suo avviso gli sviluppi della situazione del nord Africa "sono molto incerti perché quei popoli potrebbero avvicinarsi alla democrazia ma potremmo anche trovarci di fronte a centri pericolosi di integralismo islamico". "C'è il rischio - ha ribadito il premier - di una emergenza umanitaria con decine di migliaia di persone da soccorrere". "Di fatto il trattato" di amicizia tra Italia e Libia "non c'è più, è inoperante, è sospeso". Lo ha detto il ministro della Difesa Ignazio La Russa, parlando con i giornalisti in occasione della cerimonia di partenza della brigata Folgore da Livorno per Herat in Afghanistan. "Per esempio - ha spiegato il ministro - gli uomini della Guardia di finanza che erano sulle motovedette per fare da controllo a quel che facevano i libici, sono nella nostra ambasciata". "La conseguenza di questo fatto -ha sottolineato La Russa - è che noi pensiamo, consideriamo probabile, che siano moltissimi gli extracomunitari che possano via Libia arrivare in Italia, molto più di quanto avveniva prima del trattato". Il presidente americano Barack Obama ha imposto sanzioni contro la Libia, subito dopo il completamento delle operazioni di rimpatrio degli americani che erano nel Paese arabo. Il governo di Muhammar Gheddafi "ha violato le norme internazionali e la comune decenza e deve risponderne", ha affermato Obama, che ha parlato anche di "continue violazioni dei diritii umani" e di "oltraggiose minacce" da parte del regime di Tripoli. "Saremo accanto al popolo libico nella loro richiesta di diritti universali e di un governo che corrisponda alle loro aspirazioni", ha aggiunto. Con le sanzioni vengono congelati i beni negli Stati Uniti di Gheddafi, dei suoi familiari, di alti esponenti del governo libico e di chi ha ordinato o partecipato ad "abusi dei diritti umani relativi alla repressione politica in Libia", secondo quanto si legge nella lettera inviata da Obama ai leader della Camera e del Senato. Il segretario di Stato Hillary Clinton ha intanto sospeso tutte le licenze e le approvazioni per l'esportazione "di beni e servizi per la difesa" diretti alla Libia. Nella sua lettera, Obama ha sottolineato che i beni appartenenti al popolo libico verranno protetti. Attesa e incertezza a Tripoli dove stamani la situazione a Tripoli appare relativamente calma dopo i violenti scontri di ieri, la manifestazione a sostegno di Gheddafi e il violentissimo discorso del rais. Nella notte si sono uditi sporadici colpi di armi da fuoco. Le strade sono semideserte. Il Consiglio di sicurezza dell'Onu ha raggiunto un accordo sulle prime sanzioni contro la Libia, che verranno varate oggi mentre il presidente Usa Barack Obama ha già firmato l'ordine esecutivo per il congelamento dei beni della famiglia Gheddafi e oggi arriverà anche il documento dell'Unione Europea. Ieri tuttavia Seif al Islam, il figlio 'riformistà del leader libico, aveva parlato di un possibile accordo con i ribelli. GHEDDAFI RESISTE. TRUPPE FERME PER NEGOZIARE Alcuni lo davano per morto. Altri sull’orlo del suicidio. Altri impotente nel suo bunker assediato da migliaia di manifestanti che da Misurata, conquistata ieri, Zuara, Zawia, Tojoura, Gharian, città nella cintura di Tripoli cadute una dopo l’altra nelle mai dei ribelli, si erano riversati nella capitale. Lui, il colonnello Muhammar Gheddafi, ha confezionato un colpo di scena clamoroso, perfettamente a misura del suo personaggio. Sfidando un’intera nazione che stava marciando per andare a prenderselo, il rais è comparso in una specie di fortino eretto in Piazza Verde, un colbacco spesso calato in testa, e, circondato da una folla osannante, ha parlato per tre minuti e mezzo. "Eccomi qui tra voi, chi non mi vuole, non merita di vivere", ha esordito il rais. "Sono venuto per incoraggiarvi e salutarvi. E vi dico: li respingeremo". Gheddafi ha sottolineato che i "depositi di armi sono aperti per armare il popolo" e che "assieme combatteremo". Ha quindi tirato in ballo il nostro Paese: "Sconfiggeremo i rivoltosi come abbiamo sconfitto gli italiani", ha detto. E poi si è rivolto a Usa e Ue: "Guarda Europa! Guarda America! Questo è il popolo libico, questo il frutto della rivoluzione". Quindi, dopo aver promesso di "lottare fino alla morte per la Libia", si è accomiatato chiedendo alla folla di "cantare e gioire ed essere felice". Come in un mondo improvvisamente ribaltato, la gente ha iniziato a gridare: "Solo Dio, Muhammar e Libia!". Cori in senso diametralmente opposti a quelli che, fino a poche ore prima, avevano saturato l’aria di Tripoli. Era cominciata in modo strano questa giornata. Una calma assurda aveva accompagnato la preghiera del venerdì nelle moschee della città, presidiate dalle forze di sicurezza. Qua e là piccoli e patetici cortei pro-Gheddafi. Il regime aveva affidato alla Tv di Stato l’ultimo tentativo di blandire la popolazione, annunciando, con un ritardo ormai lontanissimo dall’umore della gente, l’aumento degli stipendi per i dipendenti pubblici e sussidi per le famiglie. Poi, era cominciato l’afflusso di migliaia di manifestanti (50mila per al-Arabiya) nelle strade del centro e soprattutto in Piazza Verde. È stato a quel punto che le forze di polizia hanno cominciato a sparare "Sui civili" "indiscriminatamente", "ad altezza uomo", hanno riferito testimoni locali. I giornalisti stranieri sono stati portati via con la forza dagli uomini della sicurezza. E di nuovo, come nei giorni scorsi, è arrivata l’ondata di notizie non verificabili, contraddittorie, sul bilancio dei morti. Al-Jazeera ha parlato di una "carneficina", di "decine di vittime". Ha detto che i miliziani pro-regime hanno fatto strage casa per casa. Al-Arabiya ha parlato invece una decina di morti. La Tv libica nessuno. Impossibile capire quanti siano le vittime degli scontri di ieri. Impossibile anche arrivare a una stima del totale delle vittime di 11 giorni di violenze. Ieri il numero due della missione libica all’Onu, Ibrahim Dabbashi, ha parlato di migliaia di morti. Incerta pure la geografia delle "conquiste" fatte dai manifestanti. Sempre secondo al-Jazeera, a metà pomeriggio avevano preso il controllo dell’aeroporto internazionale di Maatiqa. Ma più tardi la notizia è stata smentita da giornalisti italiani, secondo i quali la base aerea è ancora sotto il controllo dei governativi. Sempre secondo fonti italiane, c’è stato un bagno di sangue anche nella periferia della capitale. "Dopo la preghiera la gente ha iniziato a correre gridando "libertà" – ha riferito l’inviato dell’Ansa – I miliziani si Gheddafi, senza divisa e confusi nella folla, hanno iniziato a sparare. Hanno anche usato le ambulanze per trasportare i mercenari, che aprivano le porte e sparavano sulla gente". La presenza di migliaia di mercenari è stata confermata da più fonti concordanti. Mercenari necessari perché i militari dell’esercito sarebbero divisi sulla reazione. In molti avrebbero rifiutato di tirare sulla gente, unendosi addirittura alle proteste. E sarebbero già tanti gli alti ufficiali che hanno disertato, voltando le spalle al regime. Divisioni ci sarebbero nella stessa brigata dell’esercito guidata da Khamis Gheddafi, uno dei figli del colonnello. Mentre sarebbe passato dalla parte dei rivoltisi il più giovane dei figli del rais, Saif al-Arab. Di certo, per tutta la giornata il regime ha perso pezzi. Si è dimesso per protestare contro la sanguinosa repressione il procuratore generale Abdelrahman al-Abbar. E avrebbe lasciato anche Ahmed Kadhaf al-Dam, cugino e uno degli uomini più vicini a Gheddafi. Mentre è fuggito da Tripoli il pilota personale del colonnello, il norvegese Aud Berger. È stato confermato, inoltre, che il governo non controlla più i pozzi petroliferi nell’Est. I ribelli a Bengasi hanno confermato che "i contratti – con imprese straniere – che sono legali e a beneficio del popolo libico verranno mantenuti". I campi sono comunque chiusi al 75%. Barbara Uglietti
26 febbraio 2011 LA REAZIONE DEL MONDO L'Onu e l'Ue stringono i tempi "Subito embargo e sanzioni" Sanzioni ed embargo alla vendita delle armi. Nazioni Unite e Unione Europea si stanno ancora consultando, ma il primo passo per fermare la violenza contro i civili sembra già stabilito. Al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è andato ieri in discussione un documento di Francia e Gran Bretagna che propone appunto l’embargo alla vendita di armi al governo di Tripoli e severe sanzioni finanziarie. Probabile pure il riferimento a una inchiesta internazionale, da affidare con incarico formale al Tribunale penale internazionale, per "crimini contro l’umanità". Una accusa contenuta pure nella bozza di risoluzione sotto esame. La discussione fra i quindici membri del Consiglio di sicurezza, che dovrebbe arrivare a un voto entro la prossima settimana, valuterà pure l’opzione di istituire una no-fly zone a protezione delle città in mano ai ribelli e degli impianti petroliferi. Tutte le opzioni restano ancora sul tavolo, avevano precisato giovedì dalla Casa Bianca e nei corridoi del Palazzo di Vetro sono pure iniziate a circolare ipotesi, al momento al quanto fantasiose, di interventi militari sotto l’egida dell’Onu. Dopo le consultazioni fra Obama, Sarkozy e Cameron, la comunità internazionale sembra avanzare decisa verso una condanna della feroce repressione del colonnello Gheddafi anche se restano da definire modalità ed efficacia delle contromisure. Gli Stati Uniti, fa sapere la Casa Bianca, stanno preparando delle sanzioni unilaterali e non escludono alcuna opzione, compreso il ricorso alla forza. Il primo atto concreto, molto significativo simbolicamente, sarà l’espulsione della Libia dal Consiglio dei diritti umani a Ginevra, mentre una missione sarà inviata in Libia per verificare gli abusi. La richiesta sospensione, approvata ieri in un vertice a Ginevra, sarà formalizzata con l’espulsione martedì al Palazzo di Vetro. "Sanzioni in pochi giorni", ha promesso pure l’alto commissario dell’Unione Europea Catherine Asthon in una azione che sembra correre parallela a quella dell’Onu. L’accordo politico su un pacchetto di sanzioni della Ue è ormai raggiunto fra i Ventisette che già lunedì o martedì lo formalizzeranno. Nel "pacchetto di sanzioni" è previsto l’embargo all’export di armi e di materiali ad uso bellico, il congelamento dei beni ed il divieto di ingresso nell’Ue per la famiglia Gheddafi. Una certa cautela è stata tuttavia espressa da Cipro, Malta e Italia, mentre la Francia ha spinto decisamente per muoversi rapidamente contro il leader libico: "Gheddafi se ne deve andare. La violenza non è accettabile. Questi Paesi devono diventare liberi", ha dichiarato il presidente francese, Nicolas Sarkozy, ieri in visita in Turchia. Intanto Bruxelles ha già stanziato 3 milioni di euro per i soccorsi. L’ipotesi di un intervento di "ingerenza umanitaria" è stato ieri suggerito dagli europarlamentari italiani Mario Mauro e Gianni Pittella. Nella serata di ieri, il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, in un incontro con la stampa fuori dall’aula del Consiglio di Sicurezza, ha detto che "è importante che i Paesi vicini (alla Libia), compresi quelli europei, lascino i confini aperti alle persone che stanno fuggendo" dal Paese. Ban ha sottolineato che ci sono "serie indicazioni di una crisi sempre più grandi per rifugiati e profughi" che stanno scappando dal Paese per evitare di essere uccisi. "Secondo le nostre stime, in circa 22mila hanno lasciato la Libia entrando in Tunisia, mentre in 15mila sono scappati Egitto", ha concluso Ban. Luca Geronico
26 febbraio 2011 La sete di democrazia e l'Europa Aiutiamo il futuro Il 25 gennaio 2011 sono iniziate le manifestazioni contro il dittatore della Tunisia Ben Alì. Solo un mese dopo, siamo spettatori di una rivolta popolare che ha coinvolto quindici Paesi islamici del Nord Africa e del Medio Oriente: Mauritania, Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Gibuti, Yemen, Giordania, Arabia Saudita, Bahrain, Kuwait, Qatar, Siria, Iran. Il 25 gennaio le manifestazioni contro il governo tunisino sembravano un fatto locale di scarsa importanza internazionale, oggi sappiamo che l’effetto domino di quella "rivoluzione" ha già coinvolto quasi tutti i Paesi arabo-islamici e l’Iran, causando il crollo di tre dittature: Tunisia, Egitto e Libia (Gheddafi sembra vicino alla fine dei suoi 42 anni di sanguinaria tirannia). Non solo, ma da questi giorni tragici e corruschi, possiamo già tentare alcune riflessioni. 1) In tutta evidenza i protagonisti di queste rivolte sono stati i giovani, mossi sostanzialmente dalle ristrettezze economiche e dalla mancanza di libertà, di sviluppo, di lavoro e di giustizia nei loro Paesi. Non chiedono uno stato teocratico come l’Arabia e l’Iran, vogliono una democrazia come alla tv e in Internet vedono che esiste nei vicini Paesi europei; non hanno bruciato bandiere americane o israeliane, ma vogliono vivere in pace; non sono stati animati da spirito di odio, violenza e vendetta contro i dittatori e i loro seguaci: Gheddafi fa eccezione perché ha fatto mitragliare e bombardare i manifestanti, ma Mubarak ha potuto ritirarsi nella sua villa: i 31 anni della sua dittatura, certamente dura e oppressiva, sono finiti quasi senza spargimento di sangue! 2) Nella storia dei Paesi a maggioranza musulmana è la prima volta che un movimento di popolo di queste proporzioni prende corpo e mette soprattutto in crisi l’islam politico, cioè la stretta connessione fra religione e politica fin dall’inizio. Maometto infatti era un capo religioso, politico e militare, come anche i suoi "califfi", cioè i successori del Profeta nei secoli seguenti. I giovani manifestanti non rifiutano l’islam e non sono affatto anti-cristiani. In Egitto, il Paese simbolo di questi giorni perché da sempre guida del mondo arabo-islamico, abbiamo visto le foto pubblicate da "Asia News": nella folla che occupava Piazza Tahrir cristiani e musulmani erano abbracciati e sventolavano festosamente le insegne identitarie delle loro religioni: la croce e la mezzaluna. D’altra parte, anche dalla Libia e dalla Tunisia non si segnalano assalti e violenze contro i cristiani, le loro chiese e istituzioni. 3) Tutto questo non significa che il fondamentalismo islamico non esiste più, ma solo che i protagonisti delle rivoluzioni nei Paesi a sud del Mediterraneo sono giovani che chiedono democrazia, rispetto dei diritti umani, sviluppo economico, cioè società dinamiche e non bloccate, come sono sempre, o quasi sempre, quelle islamiche. Il pericolo, già segnalato, è che, terminati i giorni dell’euforia e della festa per la liberazione, la mancanza di leader politici e di partiti in sintonia con queste aspirazioni possa aprire una porta a movimenti islamisti ben organizzati e radicati sul territorio, come in Egitto i "Fratelli musulmani" e in Libia le varie Confraternite di radice tribale. 4) Il problema fondamentale dell’islam è il rispetto dei diritti dell’uomo e della donna, i giovani manifestanti lo sentono e lo vivono in modo drammatico. In questi giorni è evidente che, nel difficile cammino per giungere alla meta desiderata, i popoli così vicini nel sud del Mediterraneo hanno urgenza dell’aiuto fraterno dell’Europa. Le distruzioni e i disastri economici prodotti dai sommovimenti popolari e dalle reazioni del potere, la miseria e la scarsità di strutture produttive ereditate dalle dittature non sono situazioni che favoriscono uno sviluppo democratico. L’Europa tutta, le istituzioni europee e i governi nazionali dovrebbero dare dei forti segnali di essere disposti ad aiutare con misure straordinarie questi popoli così vicini. Purtroppo, la crisi delle società europee ci rende popoli con una maggioranza di anziani e sempre meno giovani. Anche i Paesi "cristiani" sembrano paralizzati in una condizione di ricchezza economica e di miseria morale. Ma questo è un motivo in più per ritornare a Cristo, non come etichetta identitaria, ma come vita secondo il Vangelo. Piero Gheddo
26 febbraio 2011 I meccanismi perversi dei media Esagerare non serve Che la prima vittima della guerra sia la verità è un antico detto mai smentito. "Il bilancio della repressione in Libia è almeno di diecimila morti", ha riferito la tv Al-Arabiya in una breaking news che ha subito fatto il giro del mondo. "Breaking news" è, letteralmente, la notizia che rompe, quella dell’ultima ora che dovrebbe allargare l’orizzonte. A volte però diventa un flash abbagliante che impedisce una corretta visione. Il bilancio di 10 mila morti sarebbe stato riferito da un membro della Corte penale internazionale che però ha subito smentito Al-Arabiya, costretta a fare retromarcia. Ieri un suo inviato ha ammesso che "a Tripoli ci sono stati scontri fra dimostranti e polizia ma nessun raid aereo", contrariamente alle informazioni diffuse in precedenza anche da Al-Jazeera, l’altra grande tv del mondo arabo, spesso accusata di fomentare la rivolta contro i regimi del Maghreb. È un meccanismo perverso che tende a ingigantire e a demonizzare oltre ogni misura quel che sta succedendo, come se la realtà non fosse già abbastanza tragica. C’è un dittatore che ha dichiarato guerra al suo popolo, ci sono rivoltosi che si scontrano con miliziani e mercenari, ci sono morti e feriti. Non sappiamo quanti siano, la battaglia è ancora in corso. Se alla fine le vittime si conteranno a centinaia e non a migliaia, forse che Gheddafi risulterà più rispettabile? Se ha ordinato di sparare e uccidere i manifestanti, senza però ricorrere ai raid aerei, forse che il tiranno avrebbe diritto ad un giudizio più benevolo? Ci viene il sospetto che per scatenare l’indignazione di un’opinione pubblica assuefatta a tanti orrori ci sia bisogno di creare un nuovo mostro, invece che raccontare i misfatti di un dittatore in carne ed ossa, un implacabile nemico della libertà che fino a ieri è stato trattato con rispetto e timore. Non è la prima volta che succede. Quando nel dicembre del 1989 la Romania si ribellò a Ceausescu, venne creato il mito della città martire di Timisoara, il luogo dove l’ultima brutale repressione del tiranno dei Carpazi si era conclusa con un bagno di sangue. Per documentare la strage mostrarono montagne di cadaveri ai giornalisti accorsi sul posto. Ero lì, e ne rimasi sconvolto. Più di mille morti, raccontavano i testimoni. In realtà le vittime furono poche decine. Alla morgue di Timisoara (ma questo lo scoprii più tardi) avevano inscenato una lugubre farsa, ammucchiando i corpi dei defunti sottratti dalle tombe del cimitero. Che Ceausescu fosse il più dispotico fra tutti i dittatori comunisti era cosa risaputa. Ma per choccare l’opinione pubblica mondiale occorreva qualcosa d’altro, qualcosa di sconvolgente. E così s’inventarono una strage, ad uso e consumo dell’Occidente, bisognoso di una scossa umanitaria. Il giudizio storico su Ceausescu non è cambiato, ma Timisoara resta una pagina ingloriosa del giornalismo. Invece di raccontare la voglia di libertà di un popolo, tenuto in schiavitù per lungo tempo, ci fu la contabilità fasulla dei morti. Anche oggi, davanti al dramma libico, c’è chi gonfia il numero delle vittime. E chi, ancor peggio, ingigantisce il pericolo del fondamentalismo islamico dando per scontato il trionfo di Al Qaeda sulle rovine della dittature arabe e, di conseguenza, l’arrivo in Europa di orde di terroristi. Parlano come Gheddafi questi profeti di sventura. E nella primavera dei giovani popoli arabi vedono soltanto l’autunno della vecchia Europa. Luigi Geninazzi
2011-02-22 22 febbraio 2011 LA RIVOLTA IN LIBIA Gheddafi al contrattacco: resterò fino alla morte Ore 17 - L'Eni sospende per motivi precauzionali il gasdotto Greenstream La fornitura di gas attraverso il gasdotto Greenstream è sospesa. Lo comunica l'Eni, precisando di essere in grado di far fronte alla domanda di gas dei propri clienti. La decisione di chiudere temporaneamente il gasdotto "Greenstream", che collega l'Italia ai giacimenti della Libia, sarebbe stata decisa dall'Eni già nella tarda serata di ieri per motivi precauzionali. Ore 16.50 - il discorso di Gheddafi in tivù: riporterò l'ordine "Non sono un presidente e non posso dimettermi". "Sono un leader della rivoluzione e resterò a capo della rivoluzione fino alla morte, come un martire". Muammar Gheddafi, dopo la brevissima apparizione in tv della scorsa notte, torna in un discorso sulla rete nazionale libica per esortare con tutta la sua forza il Paese a reagire alle proteste, attaccando i media arabi "che vogliono rovinare la vostra immagine nel mondo" e i "giovani drogati", che imitano le rivolte in Egitto e dietro cui, ha detto "c'è un gruppo di persone malate infiltrate nelle città che pagano questi giovani innocenti per entrare in battaglia", "ratti pagati dai servizi segreti stranieri". "Chi ha designato questi attacchi ora è in sedi tranquille dopo aver dato loro ordine di distruggerci". Gheddafi è apparso in tv dalla sua residenza-caserma di Bab alAzizia, a Tripoli, dove si è asserragliato col crescere della rivolta nel Paese. Occhiali, turbante color cammello e casacca con mantella intonata, Gheddafi è apparso molto accalorato. Ha parlato in piedi, gesticolando e usando toni forti, urlati. "La vostra immagine è distorta nei mass media arabi per umiliarvi" ha detto e ha esortato il popolo, unico vero leader della Libia, a reagire. "Uscite dalle vostre case e attaccate i manifestanti". "Le famiglie dovrebbero iniziare a raccogliere i loro figli. A uscire dalle loro case se amano Gheddafi". "Non abbiamo ancora utilizzato la forza - ha aggiunto nel suo discorso in tv - e la useremo in conformità con le leggi internazionali". Gheddafi ha poi esortato anche l'esercito e la polizia a "schiacciare la rivolta" e ha ricordato che la legge libica prevede per i protestanti la pena di morte. Il colonnello Gheddafi si è poi rivolto ai giovani promettendo da domani una nuova Jamahirya (stato delle masse), con libera stampa, diritti dei blogger, una nuova Costituzione e un nuovo sistema giuridico. Ore 14.50 - Testimoni: mille morti a Tripoli Sono oltre mille i morti a Tripoli durante i bombardamenti sulla folla di manifestanti scesi in piazza per protestare contro il regime di Muammar Gheddafi. A riferirlo è il presidente della Comunità del Mondo Arabo in Italia (Comai) Foad Aodi, che è in costante contatto, da Roma, con alcuni testimoni in Libia. "Manca l'energia elettrica e i medicinali negli ospedali", ha riferito ancora Aodi, che ha rivolto un appello al governo italiano affinché si mobiliti "per un aiuto economico e con l'invio di medicinali in Libia. Il governo non rimanga in coma, sordo e cieco, alla rivoluzione che è in atto in queste ore". Ore 14.40 - L'Onu: l'Europa non respinga le persone in fuga L'Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) ha lanciato un appello all'Europa e ai Paesi del nord Africa vicini alla Libia a non respingere le persone in fuga dagli scontri. L'Italia è tra i Paesi "che potrebbero ricevere un maggior flusso di persone in fuga dalla Libia", sia cittadini libici che rifugiati da altri Paesi, ha detto Melissa Fleming, portavoce dell'Alto Commissario per i rifugiati. Ore 13.50 - Napolitano: legittime le richieste di democrazia Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sta seguendo con attenzione le drammatiche notizie provenienti dalla Libia che riferiscono di un già pesante bilancio di vittime fra la popolazione civile. Il Capo dello Stato sottolinea come alle legittime richieste di riforme e di maggiore democrazia che giungono dalla popolazione libica vada data una risposta nel quadro di un dialogo fra le differenti componenti della società civile libica e le autorità del Paese che miri a garantire il diritto di libera espressione della volontà popolare. Lo afferma una nota del Quirinale. Ore 12.50 - Frattini: non ci risultano sospensioni nella fornitura di gas "Allo stato non ci risultano sospensioni di forniture di gas". Lo ha affermato il ministro degli Esteri Franco Frattini rispondendo alle domande dei giornalisti al Cairo. Ore 12.10 - Frattini: preoccupati per rischio guerra civile e marea immigrati "Siamo molto preoccupati per il rischio di una guerra civile e per i rischi di un'immigrazione verso l'Unione Europea di dimensioni epocali". Lo ha detto il ministro degli Esteri Franco Frattini durante una conferenza stampa al Cairo seguita all'incontro con il segretario generale della Lega Araba Amr Mussa, durato circa 45 minuti. Ore 11 - Aeroporto distrutto, C130 per italiani non atterrerà a Bengasi "Non arriverà a Bengasi, dove l'aeroporto è stato bombardato, ma in un altro scalo della Libia" il C130 dell'Aeronautica Militare che dovrebbe rimpatriare oggi un centinaio di italiani. Lo ha detto il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, sottolineando che "per motivi di sicurezza" non rende noto il luogo dove il velivolo militare atterrerà. La Russa ha anche detto che sarà il cacciatorpediniere lanciamissili Francesco Mimbelli a salpare dall'Italia per fare "da piattaforma per il controllo aereo nel sud del Mediterraneo". La Mimbelli è una unità multi-ruolo con un equipaggio di circa 400 persone. Ore 10.30 - L'Onu chiede inchiesta indipendente L'Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Navi Pillay ha chiesto oggi una "inchiesta internazionale indipendente" sulle violenze in Libia ed ha chiesto lo stop immediato delle gravi violazioni dei diritti dell'uomo compiuti dalle autorità libiche". Ore 10.10 - Da Nalut: taglieremo il gas all'Italia In un messaggio postato su Facebook dal sito di opposizione libica "17 febbraio" gli abitanti della regione occidentale della Libia, dalla città di Nalut fino a Gherban, hanno minacciato di tagliare le forniture di gas all'Italia e all'Ue. "Dopo il silenzio che avete osservato sui massacro perpetrato da Gheddafi, abbiamo deciso di tagliare il gas libico che parte dal campo di Al Wafa e che passa per la nostra regione verso l'Italia e il nord dell'Europa attraverso il Mediterraneo", si legge nel messaggio. Ore 9.50 - Testimoni: nuovi attacchi aerei sulla folla Residenti a Tripoli citati dalla tv Al Jazira sul suo sito riferiscono di nuovi attacchi aerei questa mattina su alcuni quartieri di Tripoli. Secondo le fonti "mercenari" sparano sui civili in città. Ore 8.30 - L'Egitto apre un valico per i feriti Le autorità egiziane rafforzeranno il controllo della frontiera con la Libia con guardie di frontiera ed apriranno il passaggio di Salloum per consentire l'ingresso in Egitto di persone malate e ferite. Lo ha detto una fonte militare. Ore 7.30 - C13 pronto a partire per recuperare gli italiani Un aereo C130 dell'Aeronautica Militare "è pronto a partire dall'Italia per rimpatriare un centinaio di connazionali che si trovano a Bengasi". Lo ha detto il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, parlando con i giornalisti ad Abu Dhabi, dove si trova in visita ufficiale. L'APPARIZIONE DI GHEDDAFI - Muammar Gheddafi ha fatto un'apparizione lampo - appena 22 secondi - la notte scorsa sulla tv libica, la prima a una settimana dallo scoppio della rivolta contro il suo regime, per annunciare di trovarsi a Tripoli e non in Venezuela, e confutare quelle che ha definito "malevole insinuazioni" dei media occidentali. La brevissima - appena 22 secondi - apparizione di Gheddafi 'in diretta' alla tv libica aveva lo scopo di smentire le voci diffusesi ieri secondo cui egli aveva già lasciato la Libia per trovare rifugio in Venezuela. "Vado ad incontrare i giovani nella piazza Verde. E' giusto che vada per dimostrare che sono a Tripoli e non in Venezuela: non credete a quelle televisioni che dipendono da cani randagi", ha detto il colonnello facendo riferimento alle informazioni diffuse ieri da numerose tv e media internazionali sulla sua presunta fuga da Hugo Chavez. La immagini diffuse dalla tv libica mostravano il colonnello Gheddafi con un mantello e un ombrello in mano mentre saliva a bordo di un fuoristrada nella sua residenza-caserma di Bab Al Azizia. Con una scritta in sovrimpressione, la tv libica ha spiegato che "in un incontro in diretta con la rete tv satellitare Al Jamahiriya, il fratello leader della rivoluzione ha smentito le insinuazioni dei network malevoli". Continua la violenta repressione di Tripoli - Bombardata la folla in piazza, oltre 250 i morti solo ieri. Secondo un messaggio inviato via Twitter alla Bbc, elicotteri Apache hanno attaccato civili che marciavano da Misurata, terza citta' della Libia, verso la capitale. Seif al-Islam, uno dei figli di Gheddafi, ha ordinato una commissione d'inchiesta sulle violenze, capeggiata da un giudice libico e con partecipazioni libiche e straniere per i diritti umani.
22 febbraio 2011 LA REAZIONE DEL MONDO Bruxelles dà l'altolà, ma non isola il rais Tra prudenza e sdegno, di fronte alla sanguinosa repressione in Libia non è stato facile ai ministri degli Esteri dell’Ue mettersi d’accordo su una dichiarazione che condannasse il comportamento del regime di Tripoli senza perdere la faccia, ma anche senza interrompere i ponti con Tripoli. E rischiare di peggiorare ancora la situazione anche dal punto di vista dell’esodo di emigranti che Tripoli minaccia di non più ostacolare. Alla fine, il Consiglio dei ministri degli Esteri ha condannato l’uccisione di decine di dimostranti anti-regime governativi in Libia ma senza prospettare – almeno per ora – sanzioni economiche o di altro tipo. I Ventisette dichiarano che "condannano la repressione in corso contro i manifestanti in Libia, deplorano la violenza e la morte di civili", chiedono "la fine immediata dell’uso della forza" e ricordano che "la libertà di espressione e il diritto di riunirsi pacificamente sono diritti fondamentali di ogni essere umano e devono essere rispettati e protetti". I ministri chiedono poi che "alle legittime aspirazioni ed alle richieste del popolo per le riforme si risponda con un dialogo guidato dai libici, dialogo aperto, inclusivo, significativo e nazionale, che porti ad un futuro costruttivo per il Paese e per il popolo". "Noi incoraggiamo fortemente tutte le parti in questa direzione", si legge ancora nel documento che invita "tutte le parti a mostrare moderazione". Il ministro degli Esteri finlandese Alexander Stubb, spalleggiato dai colleghi di Svezia e Danimarca, avrebbe invece voluto una dichiarazione che in caso di mancato arresto della repressione minacciasse sanzioni come il blocco dei beni all’estero contro Muhammar Gheddafi personalmente, la sua famiglia e alti funzionari del governo. "Come possiamo da un lato vedere quel che succede in Libia, con quasi 300 persone uccise, e poi non parlare di sanzioni o divieti di viaggio per esempio per Gheddafi", ha detto Stubb, e ha osservato che "non è certo compito dell’Ue cambiare il leader in Libia ma la leadership di Tripoli dovrebbe ascoltare la popolazione e, ad essere onesti, ascoltare la gente non significa usare le armi automatiche". Senza arrivare all’analisi del ministro della Repubblica Ceca Karel Schvarzenberg, per cui la caduta di Gheddafi "sarebbe una catastrofe", la maggioranza dei ministri ha però ritenuto prematuro e con tutta probabilità anche controproducente parlare ora di sanzioni. Tantopiù considerando la minacca di Gheddafi di lasciare libero corso a nuove ondate di migranti sospendendo l’applicazione degli accordi di cooperazione – in primo luogo con l’Italia – per frenare il fenomeno. A Bruxelles il ministro degli Esteri Franco Frattini ha sottolineato che l’Europa ha buoni motivi per temere quella minaccia e ha proposto di mobilitare fondi europei in una sorta di "Piano Marshall" per aiutare i Paesi nord-africani e del Medio Oriente, mostrando di "appoggiare una riconciliazione pacifica" e senza dare l’impressione di voler "esportare la nostra democrazia". Franco Serra
22 febbraio 2011 LA PISIZIONE ITALIANA Berlusconi alla fine condanna le violenze L’amicizia tra Roma e Tripoli non può più esimere il governo italiano da un netto altolà al Colonnello. Silvio Berlusconi definisce "inaccettabile" l’uso della violenza contro i cittadini libici, segue con "estrema preoccupazione" l’evolversi della situazione e chiede che l’Ue "impedisca che la crisi degeneri in guerra civile". La presa di posizione del premier arriva in serata, dopo che il ministro degli Esteri, Franco Frattini ha già fatto sua la posizione di condanna dell’Ue. E mentre comincia l’evacuazione degli italiani - stamattina il primo volo speciale da Tripoli - il responsabile della Farnesina si prepara a rispondere domani in Parlamento alle opposizioni che accusano l’Esecutivo di atteggiamento "nebbioso". Diretta conseguenza, dicono, del feeling con Gheddafi, rinfacciando a Berlusconi il baciamani al Colonnello e i 5 miliardi di dollari promessi per chiudere il contenzioso coloniale. Dopo una giornata di accuse al governo di inattivismo, Palazzo Chigi in serata dirama una nota. Silvio Berlusconi, vi si legge, "segue con estrema attenzione e preoccupazione l’evolversi della situazione e si tiene in stretto contatto con tutti i principali partner nazionali e internazionali". Il premier "è allarmato per l’aggravarsi degli scontri e per l’uso inaccettabile della violenza sulla popolazione". E sollecita "l’Ue e la Comunità internazionale a compiere ogni sforzo per impedire che la crisi degeneri in una guerra civile" e "favorire invece una soluzione pacifica che tuteli la sicurezza dei cittadini così come l’integrità e stabilità del Paese e dell’intera regione". "In Libia – aveva anticipato nel pomeriggio Franco Frattini – siamo sull’orlo di una guerra civile, dobbiamo far sì che la richiesta forte dell’Europa sia ascoltata". Alla Farnesina intanto si mette a punto un piano di evacuazione per i cittadini italiani. Stamattina un volo speciale organizzato dal ministero affiancherà quelli di linea. Finmeccanica ha già fatto rientrare una decina di dipendenti, lo stesso l’Eni. Gli italiani in Libia sono circa 1.500, la maggior parte è a Tripoli, 500 dipendenti di grandi imprese, pochissimi a Bengasi. L’attivismo del governo però non basta a placare le opposizioni. A cominciare dal segretario del Pd, che chiama il titolare della Farnesina per avere notizie sull’evolversi della crisi e sollecitare il governo a impegnarsi al massimo per un impegno dell’Europa. Oggi sarà al Pantheon al sit-in del Pd. Duro il suo giudizio: "Ora ci vorrebbe un’Italia che non si limitasse a dire "tutto quello che dirà l’Europa, per me va bene" – attacca Pierluigi Bersani – perché è l’Italia che deve dire cosa deve fare l’Europa nel Mediterraneo". E il nostro Paese, primo partner commerciale nel Mediterraneo, "adesso si sta facendo di nebbia davanti a un popolo che chiede libertà". "Dal governo italiano non è giunta una sola parola contro la repressione violenta del regime di Gheddafi che ha causato centinaia di morti", accusa il vicecapogruppo di Fli alla Camera, Benedetto Della Vedova. Il portavoce dell’Idv, Leoluca Orlando accusa Frattini di "complicità". E il senatore dipietrista Stefano Pedica accusa il Pd di avere approvato nel 2009 il trattato di amicizia tra Roma e Tripoli. Luca Liverani
22 febbraio 2011 GENOVA Bagnasco: "Le popolazioni prima o dopo reagiscono alle dittature" "Oltre la Libia c'è tutta l'area del Nord Africa e questo a me pare che corrisponda ad un fatto generale che è successo anche nell'Est, vale a dire ad un certo momento, oltre che ai problemi economici e politici, le popolazioni prima o dopo reagiscono necessariamente ad una antropologia quindi ad una visione dell'uomo che è contro i suoi diritti fondamentali, contro la sua dignità". Così il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei e arcivescovo di Genova, ha commentato quanto sta accadendo in Libia e in tutto il Nord Africa. A margine di un convegno sul disarmo nucleare, il porporato ha ribadito: "Oltre agli elementi di tipo economico, certamente c'è questo dato di fondo che non può essere compresso da nessun regime, da nessuna dittatura. Prima o poi esplode".
22 febbraio 2011 La sfida di trovare nuovi interlocutori in Libia, comunque finisca Niente sarà più come prima. Gheddafi è ormai un "intoccabile" Il fumo dei mitragliamenti di Bengasi e delle bombe sganciate sulla capitale Tripoli ci impediscono di vedere ma, al tempo stesso, dicono tutto. Ad esempio, il prezzo che i libici sono disposti a pagare per liberarsi della famiglia Gheddafi, sfidando quelle armi che con troppa disinvoltura molti Paesi hanno fornito al rais dopo la conversione filo-occidentale. Secondo gli ultimi dati disponibili (2007), la Libia, con soli 6,5 milioni di abitanti, è il quarto acquirente di armi dell’Africa Settentrionale (e il nono miglior cliente delle fabbriche italiane d’armamenti), con una spesa annua di 423 milioni di euro. Ma, soprattutto, non c’è repressione, per quanto feroce, che possa impedire due riflessioni. La prima: ora che le rivolte hanno sconvolto per intero il Maghreb, dal Marocco (dove ci sono stati altri morti) alla Giordania, capiamo che l’architrave degli assetti regionali sta proprio in Libia. In Egitto e in Tunisia, la transizione verso nuovi regimi forse più democratici, pur dolorosa, si è avviata senza salti nel buio, con la partecipazione decisiva e organizzata delle forze armate, l’istituzione più compatta e meno screditata. In Libia, invece, il rivolgimento potrà solo essere radicale o non essere, e il bagno di sangue è già inevitabile. Quarant’anni di potere spregiudicato e tirannico hanno inciso tracce profonde nell’animo della gente. E la politica di spogliazione del clan Gheddafi ha provocato l’indignazione di molti e l’ambizione di altri. Fatichiamo a capire che cosa stia davvero succedendo a Tripoli e nelle altre città, ma ancor più difficile risulta immaginare il Paese che uscirà da tanta violenza. Abbiamo un’unica certezza, ed è la seconda riflessione: nulla sarà più come prima. Da questo punto di vista la sorte di Muhammar Gheddafi è indifferente. Se sarà sconfitto e cacciato, l’Italia e l’Europa avranno interlocutori nuovi e imprevedibili. Se il Colonnello riuscirà invece a restare in sella, l’avrà fatto solo al prezzo di stragi orrende. L’Europa (e l’Italia in particolare) che oggi gli chiede, e anzi quasi gli grida, di fermare le violenze potrebbe di nuovo averlo come interlocutore? Considerarlo un partner affidabile nella politica di contenimento dell’immigrazione irregolare? Firmare altri contratti per il petrolio e per il gas? Ospitarlo nelle proprie capitali, con tende, guardie del corpo e lezioni sul Corano incluse? Le poche notizie che arrivano in queste ore dalla Libia raccontano di ministri che si dimettono, unità dell’esercito che si ribellano, ambasciatori che disertano. E di civili massacrati per le strade. Bengasi e Al Bayda sono nelle mani dei ribelli e a Tripoli per la seconda notte consecutiva si è combattuto tra le case. È la fine violenta di un regime violento. Per un crudele paradosso, proprio il Paese più chiuso del Maghreb ora ci interpella nel modo più pressante. E ci propone la sfida più complessa. La richiesta di democrazia e benessere che viene dalle popolazioni del Maghreb non può essere ignorata, e deve anzi essere appoggiata. Ma i legittimi interessi dei nostri Paesi (gestione dei flussi migratori, forniture energetiche regolari, scambi commerciali ordinati, rispetto dei patti e degli accordi siglati) non devono essere sottovalutati. È un intreccio, che oggi però cambia trama. Si apre, appunto comunque vada, una stagione nuova nella millenaria vita dei popoli del Mediterraneo. Potremmo persino sperare che questi poveri morti della Libia servano a dare uno scossone alla vecchia e tremolante Europa. A farle capire quanto grande sia ancora, almeno in potenza, il suo ruolo sulla faccia del mondo. Fulvio Scaglione
22 febbraio 2011 IMMIGRAZIONE A Lampedusa sbarchi continui Ue: non ci saranno smistamenti Proseguono gli sbarchi di migranti provenienti dalle coste della Tunisia verso Lampedusa, nonostante le avverse condizioni del mare. In mattinata i carabinieri ne hanno bloccati 43, che erano riusciti ad approdare direttamente sulla terraferma. Nel Centro di prima accoglienza di Lampedusa si trovano meno di mille immigrati, dopo i massicci trasferimenti avvenuti a partire dal pomeriggio di ieri con un ponte aereo verso altri Cpt di Sicilia, Puglia e Calabria. Le condizioni meteo in peggioramento, con mare forza 6 e forti raffiche di maestrale, secondo la centrale operativa della Capitaneria di porto di Palermo dovrebbero tuttavia scoraggiare la partenza di altri barconi dalla Tunisia. "Solidarietà " con il governo italiano, "disponibilità a fornire materiale umano e mezzi finanziari", ma non ci sarà alcuna apertura nei confronti di una distribuzione del fardello dell'immigrazione proveniente dai Paesi del Nord Africa. È quanto si apprende da fonti diplomatiche europee. Secondo le fonti, i governi del nord Europa hanno intenzione di mettere sul tavolo del Consiglio affari interni e giustizia (Gai), che si terrà giovedì e venerdì prossimi, la disponibilità a considerare la questione delle rivolte nei Paesi arabi come "un problema europeo", ma fanno notare che "un paese di 60 milioni di abitanti non può avere problemi a fronteggiare qualche migliaio di migranti". Inoltre osservano che "la legislazione europea è chiara": nel senso che la gestione degli immigrati, intesa come rimpatrio degli illegali e valutazione delle domande d'asilo, spetta al Paese in cui essi approdano. "Tra l'altro - osserva la fonte - l'Italia non ha voluto alcuno degli immigrati che sono arrivati a Malta. E a suo tempo la Germania non battè ciglio di fronte ai 300.000 che arrivarono nel paese al tempo della crisi nei Balcani". Un aiuto politico per alleviare la pressione sull'Italia potrebbe semmai arrivare con la disponibilità ad una azione comune dei 27 nei confronti dei Paesi di origine per "convincerli" a facilitare la riammissione degli espatriati. E sul fronte immigrazione c'è da registrare anche una battuta di Bossi: gli immigrati in fuga dal Nord Africa "intanto non sono arrivati e speriamo che non arrivino. Se arrivano li mandiamo in Francia e Germania...". Il leader del Carroccio risponde così ai cronisti a Montecitorio che gli chiedono se la Lega Nord "è preoccupata per l'arrivo di immigrati in fuga dal Nord Africa". Quanto alla Libia, "aspettiamo ordini dall'Unione Europea". A LAMPEDUSA SBARCHI CONTINUI Era l’alba di ieri mattina quando 131 adulti stipati su due barconi - il primo con 89 persone a bordo, il secondo 42 - approdavano nel porto di Lampedusa dopo essere stati soccorsi a poche miglia dall’isola da due motovedette della Guardia costiera. Le due imbarcazioni, vecchi pescherecci, erano state avvistate la sera prima da un aereo militare in servizio di pattugliamento nel Canale di Sicilia. Domenica c’erano stati altri due sbarchi, con l’arrivo di 73 immigrati, che si sono dichiarati tunisini. Sempre ieri si è avuto un terzo sbarco: altri 6 uomini sono stati soccorsi al largo di Lampedusa su una piccola barca in avaria che procedeva a remi. Sull’isola, che conta poco più di 5.500 residenti, attualmente si trovano, ospiti nel Centro di prima accoglienza, ancora circa 1.300 immigrati, che fanno parte di quella ondata di una settimana fa che in poche ore ha riversato sull’isola migliaia di tunisini. Anche se la Centrale operativa della Capitaneria di porto di Palermo ha rilasciato un bollettino di cattivo tempo con previsioni meteo-marine in netto peggioramento, mare forza sei e forti raffiche di maestrale, che dovrebbero scoraggiare la partenza di altri barconi, sull’isola resta alta e accesa la preoccupazione di nuovi e ben più consistenti arrivi, se si dovessero aprire i "rubinetti" libici. "Sì, siamo e sono seriamente preoccupato, per quello che potrebbe abbattersi sull’isola. Con la Libia in pieno caos e Gheddafi che dicono dileguato all’estero, salterebbero anche gli accordi tra Roma e Tripoli stipulati per frenare l’esodo clandestino da quella nazione - avverte il sindaco di Lampedusa, Bernardino De Rubeis -. Il Paese sguarnito d’ogni autorità, il territorio senza più controlli alle frontiere, significa che dobbiamo solo prepararci ad affrontare eventuali ondate di umanità disperata. Il senso di apprensione che si respira sull’isola è anche la mia viva preoccupazione". E conclude: "A giorni si completerà nel suo insieme la missione "Frontex", uomini e mezzi, non solo navali, inviati sull’isola di Lampedusa per cercare di contrastare il fenomeno. Per affrontare l’emergenza immigrazione e ridurre il malumore che si respira proprio mentre stiamo preparandoci alla stagione estiva. Ho visto 5000 immigrati arrivare da noi in pochissimi giorni. Era una processione continua. Non riesco a immaginare quello che potrebbe accadere nella peggiore delle ipotesi. Ma effettivamente è preoccupante pensare a un ammassamento esagerato di persone in poche ore. La verità è che questa preoccupazione si avvicina sempre di più". Claudio Monici
2011-02-21 21 febbraio 2011 LIBIA - LA DIRETTA Tripoli: aerei contro la folla Bruciano i palazzi del potere Ore 19.43 - Sarkozy condanna "l'uso inaccettabile della forza" Il presidente francese, Nicolas Sarkozy, ha condannato "l'uso inaccettabile della forza" in Libia e ha sollecitato il Paese nordafricano a mettere "immediatamente fine" alle violenze. In un comunicato Sarkozy ha anche sollecitato le autorità libiche a "trovare una soluzione politica per rispondere alle aspirazioni di libertà e democrazia della gente". Ore 19.38 - Piloti atterrati a Malta rifiutano di bombardare la folla e chiedono asilo Hanno ricevuto l'ordine di bombardare i manifestanti a Bengasi e a quel punto hanno deciso di fuggire. È il racconto fatto al loro arrivo a Malta da parte dei due colonnelli dell'aeronautica libica fuggiti con due Mirage, secondo quanto hanno riferito fonti governative e militari. I due ufficiali hanno chiesto asilo politico e stanno fornendo informazioni riservate sulle attività militari in corso in Libia, che vengono messe a disposizione di tutti i Paesi dell'Unione europea . Ore 19.20 - Procedure di rimpatrio per i dipendenti italiani Impregilo ha attivato le procedure per rimpatriare i dipendenti italiani, e i loro familiari, basati in Libia. Lo si apprende da fonti della compagnia. Si tratta di una cinquantina di persone, in parte a Tripoli e in parte a Misurata. La decisione è stata presa dopo che, nel corso del fine settimana, i disordini si sono estesi da Bengasi, Bayda e Tobruk alle città dell'ovest, inclusa la capitale. Il rimpatrio dei dipendenti dell'Impregilo, che lavora in Libia da oltre 30 anni, è condotto d'intesa con l'unità di crisi attivata dalla Farnesina. Per ora non si prevede un ponte aereo per l'evacuazione e l'indicazione della Farnesina ai 1.500 connazionali che vivono "stabilmente" nel Paese è di partire con voli commerciali. Voli che Alitalia ha "potenziato", aumentando la capacità mentre una "squadra" dell'unità di crisi è pronta a partire per Tripoli per dare sostegno e assistenza. Il ministro degli Esteri Franco Frattini, da Bruxelles, ha affermato che l'Italia è pronta, "ove occorra, con piani di tutela nazionale dei nostri cittadini" a fare fronte a una situazione che "è in evoluzione". "Abbiamo già portato in patria parte del personale di Eni e di Finmeccanica", ha riferito Frattini. C'è inoltre l'idea "che l'Italia possa usare corridoi umanitari per portare interventi di emergenza. Questa è una posizione condivisa", ha aggiunto. Ore 19.18 - Al Jazira, si dimettono ambasciatori libici Gli ambasciatori libici in Cina, Gran Bretagna, Indonesia, Polonia, India e presso la Lega Araba si sono dimessi dalle loro funzioni. Lo riferisce la tv satellitare Al Jazira. Nove membri dell'ambasciata libica a Londra hanno lasciato l'edificio e si sono uniti alle proteste in strada. Lo riporta la Bbc. Ore 18.14 - Vice-ambasciatore libico all'Onu invoca intervento internazionale Il vice-ambasciatore libico all'Onu ha invocato un intervento internazionale contro quello che ha definito "un genocidio" perpetrato dal regime di Tripoli e ha chiesto che venga istituita una no fly zone su Tripoli. Lo riferisce la Bbc nel suo sito internet. Secondo l'emittente britannica l'intera delegazione libica presso le Nazioni Unite ha chiesto un'azione internazionale. Ore 18.09 - Allerta in tutte le basi aeree italiane "In tutte le basi aeree italiane il livello di allarme sarebbe massimo in relazione alla crisi libica": è quanto apprende l'Ansa da qualificate fonti parlamentari. Secondo le stesse fonti, una consistente quota di elicotteri dell'Aeronautica militare e della Marina militare in queste ore avrebbe ricevuto l'ordine di spostarsi verso il sud. Ore 17.50 - Ban ki-moon chiama Gheddafi: "Basta violenze" Il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, ha parlato oggi, a lungo, con il leader libico, Muammar Gheddafi, chiedendogli di cessare ogni violenza. Lo si legge in una nota diffusa dalle Nazioni Unite. Il documento non precisa se il colonnello si trovi ancora in Libia. Ore 17.30 - L'Ue e Frattini condannano la violenza L'Italia, insieme all'Unione europea, condanna la violenza e la repressione in Libia "senza se e senza ma". Lo ha detto il ministro degli esteri Franco Frattini. L'Unione europea "condanna" la repressione delle manifestazioni in Libia e chiede la "cessazione immediata" dell'uso della forza. Lo chiedono i 27 ministri degli Esteri Ue in una dichiarazione comune adottata oggi nella quale si chiede anche "a tutte le parti" di astenersi da ogni forma di violenza. Ore 16 - Obama valuta "azioni appropriate" Barack Obama sta valutando "azioni appropriate" nei confronti della Libia. Lo ha annunciato una fonte dell'amministrazione americana che ha chiesto al regime di Muammar Gheddafi di non usare la forza contro i manifestanti anti-governativi. "Chiederemo chiarimenti al governo libico. Continueremo a sollevare la necessità di evitare il ricorso alla violenza contro i manifestanti pacifici e a invocare il rispetto dei diritti universali", ha spiegato la fonte. Ore 15.40 - Migliaia in piazza a Tripoli Un testimone riferisce che migliaia di persone si stanno radunando sulla Piazza Verde a Tripoli. "In queste ore migliaia di cittadini starebbero affollando Piazza Verde, la ex Piazza Italia", ha riferito il testimone, che ha chiesto di rimanere anonimo. Ore 15.20 - Si dimette il ministro della Giustizia Il ministro della Giustizia libico si è dimesso in segno di protesta "per l'eccessivo uso di violenza contro le manifestazioni". Lo riferisce il quotidiano libico Qurina. Ore 14 - La Fidh: diverse città in mano agli insorti Diverse città della Libia, tra cui Bengasi e Sirte, sono finite nelle mani dei manifestanti dopo le defezioni nell'esercito: è quanto ha annunciato la Federazione internazionale per i diritti dell'Uomo (Fidh). Ore 13.50 - Voci di golpe contro Gheddafi Fonti libiche hanno fatto sapere alla tv satellitare Al Jazira che all'interno dell'esercito vi sarebbero grandi tensioni, al punto da poter prevedere che il capo di stato maggiore aggiunto, El Mahdi El Arabi, possa dirigere un colpo di stato militare contro il colonnello Gheddafi. Ore 12.30 - Tarhouna, in Tripolitania, è caduta in mano ai manifestanti La città di Tarhouna, in Tripolitania, è caduta in mano ai manifestanti, secondo quanto afferma la tv satellitare al Jazira citando un attivista libico, Khaled al Tarhouni. Sempre secondo la stessa fonte tutte le Forze dell'ordine si sarebbero unite ai ribelli in numerose città. Ore 12.20 - Il vicario apostolico di Tripoli: la comunità cattolica non colpita "Dal luogo nel quale mi trovo non constato niente, la città è silenziosa ed è ferma. Non c'è niente che faccia pensare agli scontri, anche se ho avuto notizie di scontri e saccheggi avvenuti nella notte. La comunità cattolica non ha incontrato finora particolari difficoltà". È quanto riferisce sulla situazione in Libia mons. Giovanni Martinelli, vicario apostolico di Tripoli. Molti fedeli si recano nelle nostre chiese per implorare la pace. Le due chiese, di Tripoli e di Bengasi, non hanno subito alcuna offesa", dice il vescovo all'agenzia vaticana Fides. Ore 11.20 - Gheddafi non è fuggito, si trova nel Paese ll leader libico Muammar Gheddafi è ancora nel Paese e non si è rifugiato in Venezuela. Lo hanno detto fonti libiche alla tv al Arabiya, smentendo voci diffusesi in nottata. Ore 11.10 - 61 morti a Tripoli Si contano 61 morti oggi a Tripoli: lo afferma la tv satellitare Al Jazira, citando fonti mediche nella capitale libica. Ore 11 - Le forze dell'ordine partecipano ai saccheggi La tv satellitare al Jazira riferisce che a Tripoli forze dell'ordine si sono date a saccheggi di uffici e banche e che tutte le città della zona a sud della capitale, Jebal Nafusa, sono i mano ai ribelli. Ore 10.50 - Le tribù del Sud si schierano con i rivoltosi "La maggior parte delle tribù del sud della Libia è passata dalla parte dei manifestanti". È quanto ha reso noto un esponente delle tribù del sud del paese nord africano, Ahned Omar, alla tv araba 'al-Jazeerà. "I capi tribù del sud si sono schierati contro Muammar Gheddafi - ha affermato - e ora il colonnello non potrà contare sulla loro protezione". Ore 10 - La Ue pensa all'evacuazione dei suoi cittadini L'Unione europea sta considerando di evacuare i suoi cittadini dalla Libia, in particolare dalla città di Bengasi. Lo ha riferito il ministro spagnolo degli Esteri Trinidad Jimenez, al suo arrivo al Consiglio esteri della Ue. Ore 9.50 - Il ministro Frattini preocupato per una Libia divisa a metà Il ministro degli Esteri Franco Frattini ha espresso grande preoccupazione "per il fatto che si stanno affermando ipotesi come quelle di emirati islamici nell'est della Libia". "A poche decine di chilometri dall'Europa questo costituirebbe un fattore di grande pericolosità", ha detto il ministro. "Sono molto preoccupato per una Libia divisa a metà, tra Tripoli e la Cirenaica", ha ribadito Frattini. Ore 9.30 - Saccheggiata una tv a Tripoli, edifici pubblici in fiamme La sede di una tv a Tripoli è stata saccheggiata e nella capitale libica alcuni edifici pubblici sono stati dati alle fiamme. Lo riferiscono testimoni. Incendiato il Palazzo del Popolo, uno dei principali edifici del governo libico. Ore 8.30 Human Rights Watch: 233 morti Sarebbero 233 le persone che hanno perso la vita durante le rivolte divampate in Libia contro il regime di Gheddafi dal 17 febbraio scorso. Di queste, 60 sarebbero morte ieri a Bengasi. È il bilancio aggiornato dall'ong Human Rights Watch. IL DISCORSO DI GHEDDAFI JUNIOR ALLA TV La Libia è vittima di un complotto esterno, corre il rischio di una guerra civile, di essere divisa in diversi emirati islamici, di perdere il petrolio che assicura unità e benessere al Paese, di tornare preda del colonialismo occidentale. Così si è espresso in nottata, mentre circolano voci incontrollate di una possibile fuga del rais Gheddafi, il figlio di quest'ultimo, Seif al-Islam, che, mentre i disordini arrivano a Tripoli e per le strade della capitale si spara, in un discorso alla tv alla nazione ha promesso al Paese riforme, una nuova Costituzione, e posto due opzioni: "Siamo a un bivio: o usiamo i nostri cervelli, stiamo uniti e facciamo le riforme insieme, altrimenti dimentichiamoci delle riforme e per decenni avremmo la guerra in casa". E ha assicurato che il padre-rais "dirige la battaglia a Tripoli" e che "vinceremo" contro il nemico e "non cederemo un pollice del territorio libico". Del rais non si hanno più notizia, e mentre si parla di un bilancio di 300 morti, 50 solo nel pomeriggio a Bengasi, e testimoni affermano di udire folle in fermento e spari a Tripoli, alcuni capi tribali abbandonano il regime, invitano Gheddafi a "lasciare il Paese" e anche il rappresentante libico alla Lega Araba annuncia che lascia l'incarico per "unirsi alla rivoluzione". In questo contesto Seif al-Islam, voce "riformista" e 'illuminatà del regime, ha detto, parlando apparentemente a braccio e in dialetto libico direttamente al suo popolo, che la Libia "non è la Tunisia e non è l'Egitto". Ha parlato di "giusta rabbia della gente" a Bengasi e in altre città per le persone che sono rimaste uccise, ha ammesso che "sono stati commessi degli errori", con l'esercito che "non era preparato" a una simile situazione e si è fatto cogliere dalla tensione. Anche se, ha detto, i media hanno "esagerato" il numero di morti. Ma la direzione della rivolta, ha detto a chiare lettere, viene da fuori: "C'è un complotto contro la Libia", diretto da gente, anche "fratelli arabi", che "vi usano", "standosene comodamente seduti a Londra o a Manchester". "Milioni di sterline sono state investite" in questo complotto, che però è mosso da poche centinaia di elementi, "che non esprimono il popolo libico". Il secondogenito di Gheddafi ha detto che sono state attaccate caserme, aperte prigioni, rubate armi pesanti, che dei "civili" guidano perfino "carri armati". Se tutti i libici si armano ne nascerebbe una "guerra civile" che durerebbe 40 anni. Non ci sarebbero 84 morti ma "migliaia"; il Paese verrebbe diviso in "staterelli" ed "emirati islamici", sarebbe un "bagno di sangue", ci vorrebbero visti da uno staterello all'altro, "come in Corea". E i libici, ha evocato Seif al-Islam, perderebbero il petrolio, che è "ciò che li tiene insieme", ne fa un Paese, e con esso le scuole, gli ospedali, il benessere. "Se ci separiamo - ha dichiarato - chi farà la riforma? Chi spenderà per i nostri figli, per la loro salute, la loro istruzione?". Inoltre, ha domandato, "pensate che il mondo occidentale, permetterebbero di perdere il nostro petrolio, permetterebbero un'emigrazione incontrollata", la formazione di emirati terroristi? Europa e Stati Uniti "tornerebbero a occuparci, a imporre il colonialismo". Quindi la proposta di convocare, entro poche ore, una Assemblea generale del popolo per costruire una "nuova costituzione", fare le riforme per creare insieme "la Libia che sognate". E una minaccia: "L'esercito - ha detto - ora ha il compito di riportare l'ordine con ogni mezzo" e "non è l'esercito egiziano o tunisino" "Distruggeremo la sedizione e non cederemo un pollice del territorio libico". I libici, ha concluso hanno combattuto e vinto contro gli italiani" e "sono capaci di farlo". YEMEN, UN ALTRO MANIFESTANTE UCCISO Un manifestante è stato ucciso oggi ad Aden, in Yemen, da colpi di arma da fuoco esplosi dalle forze di sicurezza. Lo riferiscono fonti ospedaliere. Il decesso porta a 12 il numero di manifestanti uccisi dal 16 febbraio, da quando sono iniziati gli scontri nella città. Secondo quanto riferito da testimoni, membri delle forze di sicurezza a bordo di due veicoli hanno aperto iul fuoco nel quartiere di Khor Maksar, in una zona dove i dimostranti avevano dato fuoco a dei pneumatici per interrompere la circolazione. Cinque i feriti, tra cui una persona poi deceduta in ospedale. BAHREIN, GLI USA SOSTENGONO LE RIFORME Restano tutti in Piazza della Perla, epicentro della contestazione a Manama, le migliaia di manifestanti, in maggioranza sciiti, che in Bahrein dallo scorso 14 febbraio stanno chiedendo con inusuale decisione riforme e cambiamenti strutturali, sull'onda delle rivolte in vari Paesi del Nord Africa. Ciò mentre gli Usa fanno sentire da più fonti la loro preoccupazione e mentre la gara inaugurale del Gran Premio di Formula Uno resta in forse. Ma - anche - mentre l'opposizione si prepara al dialogo, avendo raccolto la solidarietà di vari ordini e categorie professionali. Le azioni di forza per ora appaiono sospese: l'unione generale dei sindacati del Bahrein ha anche annunciato di aver revocato lo sciopero generale. Ora la palla passa alla politica, con i vari gruppi d'opposizione che lavorano a "un documento riassuntivo di tutte le loro richieste" da presentare alla famiglia dell'emiro, dal re al principe ereditario, allo zio primo ministro dall'indipendenza del 1971: i Khalifa che sono sunniti. A loro ieri si è rivolta anche il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, definendo "inaccettabili" le repressioni degli ultimi giorni e chiedendo che le autorità tornino "al più presto" a percorrere la via delle riforme. MAROCCO: CINQUE MORTI NEGLI SCONTRI AL NORD È di cinque morti il bilancio degli scontri di ieri oggi ad Al Hoceima, nel nord del Marocco. I cadaveri carbonizzati, ha annunciato il ministro dell'Interno Taib Cherkaoui, sono stati ritrovati all'interno di una banca che era stata data alle fiamme. I cadaveri non sono stati ancora identificati. Nel corso degli scontri di ieri nella città e in quelle di Marrakech e Larache, ha aggiunto il ministro, ci sono stati 128 feriti, 115 dei quali agenti di polizia. In manette sono finite 120 persone. Il ministro ha attribuito i disordini a dei "provocatori".
20 febbraio 2011 L'Europa, L'Italia e il colonnello Libia: il dovere e il coltello Anche in tempi di Wikileaks, la diplomazia cerca di lavorare sotto traccia. Ed è ciò che si può supporre e sperare stiano facendo in queste ore la Farnesina (malgrado le dichiarazioni di facciata del premier) e la commissione Ue, mentre in Libia la situazione rischia di precipitare. In realtà, le poche notizie che filtrano dalla cortina di censura imposta ai mezzi di informazione e di blackout operato sulle comunicazioni non permettono di capire la portata delle proteste popolari e della repressione governativa. Secondo le organizzazioni umanitarie, sarebbero cento le vittime nella regione di Bengasi, da sempre ostile al regime di Muhammar Gheddafi, mentre a Tripoli, mille chilometri più a Ovest, la situazione sarebbe tranquilla. In un Paese vastissimo, poco popolato (6,5 milioni di abitanti) e storicamente diviso tra tribù, i focolai di rivolta – sull’onda del contagio tunisino ed egiziano – hanno più difficoltà a saldarsi e la reazione dell’esercito sembra essere stata più decisa e brutale che a Tunisi e al Cairo. La presa sul potere del Colonnello è dimostrata dai suoi 41 anni al vertice, il più longevo dittatore dell’area mediorientale, capace di sopravvivere a un lunghissimo isolamento internazionale e di rinascere a leader del panafricanismo e partner presentabile dell’Occidente. Anche gli Usa ritennero, nel 1986, di provare a eliminarlo con i bombardamenti piuttosto che con un’improbabile sollevazione interna. Ma i tempi sono cambiati: Gheddafi si è "pentito" dell’appoggio diretto al terrorismo, risarcendo le vittime dell’attentato di Lockerbie, ha rinunciato alle armi di distruzione di massa, aperto a qualche concessione in tema di diritti umani. E, soprattutto, ha trasformato lo "scatolone di sabbia" di salveminiana memoria in un fornitore affidabile di energia. Ricompare qui lo stretto e, in questo momento, ancor più scomodo legame tra Roma e Tripoli. Dalla Libia (prima fonte di approvvigionamento) importiamo petrolio per 6,6 miliardi di euro e gas per 2,3 miliardi; molte nostre aziende chiave, a partire da Eni e Finmeccanica, hanno rilevanti commesse sul suolo africano. E, non ultimo, Banca centrale e fondo sovrano libici sono insieme i primi azionisti di Unicredit, tanto che la crescita nell’azionariato dell’Istituto fu in settembre tra le cause della rimozione dell’amministratore delegato Alessandro Profumo. Ma non c’è soltanto l’aspetto economico, come noto. Gheddafi, in cambio di sostanziose contropartite e dopo un cinico "apri e chiudi" delle frontiere, s’è impegnato infine a mettere il "tappo" ai flussi di migranti verso le coste siciliane. A quale prezzo, almeno in alcuni casi, lo testimonia la vicenda, documentata da Avvenire, degli eritrei respinti nel deserto e finiti nei campi dei predoni del Sinai. Dalle prime trattative fino all’intesa del 2007, con il governo Prodi, e al trattato di amicizia del 2008, con il governo Berlusconi, l’Italia ha scelto una comprensibile realpolitik nell’interesse nazionale, accompagnata da altri Paesi europei, desiderosi di entrare nella partita energetica. L’incendio, dunque, non può che preoccupare. Oggi, davanti alla sanguinosa repressione delle manifestazioni e alla luce della simpatia che hanno guadagnato le sollevazioni contro i despoti della regione, appare difficile schierarsi apertamente con chi dà ordine di sparare sui dimostranti. D’altra parte, non è nemmeno responsabile soffiare su un fuoco che può provocare danni enormi senza la garanzia che sia la vera scaturigine di un assetto migliore per il Paese. Né – ovviamente – ci si può fare sorprendere dagli eventi, fatta salva l’idea che le "ingerenze" vanno commisurate alla gravità dei fatti. Più che mai, quindi, serve un’azione incisiva dell’Europa. Con la prevedibilmente lenta e debole risposta Ue, sull’Italia ricadrebbe il dovere di far valere i suoi rapporti privilegiati con Tripoli. Invitare alla moderazione nel controllo delle proteste è la prima, doverosa mossa. Se poi la mobilitazione fosse rappresentativa di una spinta democratica, sensato sarebbe premere per autentiche riforme, sebbene sia noto che è il Colonnello ad avere il coltello dalla parte del manico. E che può schiacciare la rivolta minacciando di imporre un alto prezzo a chi voglia frenarlo dall’esterno.
21 febbraio 2011 AUTOMOBILISMO Formula 1, cancellato il Gp del Bahrein Gli organizzatori del Gran Premio del Bahrein hanno cancellato oggi quella che sarebbe stata la prima gara del Mondiale di Formula Uno per via delle rivolte nel paese mediorientale. "Il Bahrein International Circuit ha annunciato oggi che il Regno del Bahrein rinuncerà a ospitare il Gran Premio di Formula Uno di quest'anno così che il Paese possa concentrarsi sul suo processo di dialogo nazionale", hanno fatto sapere gli organizzatori.
21 febbraio 2011 GERMANIA La Merkel perde ad Amburgo Prima sconfitta del Cdu È stato un inizio d'anno catastrofico per la Cdu della cancelliera tedesca Angela Merkel: il partito ha perso il primo grande appuntamento elettorale del 2011, quello nella città-Land di Amburgo, dove è stato schiacciato dalla Spd. Le prime proiezioni parlano chiaro: i socialdemocratici torneranno al governo. Sono al 49,4% ma possono arrivare alla maggioranza assoluta; i conservatori, sprofondati al 21,4%, saranno costretti a lasciare leccandosi le ferite. E per la Cdu il risultato è perfino inferiore alle previsioni della vigilia, che stimavano una perdita massima di 20 punti percentuali: secondo le proiezioni, il rosso è di 21,2 punti, rispetto al 42,6% del 2008. Sempre rispetto alle elezioni precedenti, la Spd ha guadagnato 15,3 punti, mentre i Verdi hanno registrato un +1,6 punti all'11,2% e la Linke è rimasta sostanzialmente stabile, scendendo al 6,1% (6,4% nel 2008). L'altra novità di oggi è l'ingresso della Fdp nel Parlamento di Amburgo. Il partito del vice cancelliere e ministro degli Esteri tedesco, Guido Westerwelle, infatti, ha superato la soglia di sbarramento del 5%, ottenendo il 6,5% dei voti. "Questo è un risultato storico. Non solo per noi, ma anche per gli altri", ha commentato il leader della Spd nazionale, Sigmar Gabriel, secondo il quale il risultato dimostra che il partito è stato capace di rispondere ai bisogni e alle preoccupazioni quotidiane dei cittadini. Per i cristiano democratici della Merkel, si tratta di una dura sconfitta e la stampa non nasconde la possibilità che questo risultato si trasformi in uno "sgradevole trend" nel corso dell'anno. Certo è, che per la Merkel il 2011 sarà particolarmente delicato: nei prossimi sette mesi, ci saranno altre sei elezioni regionali in Germania e la Cdu dovrà difendersi altre tre volte (Sassonia-Anhalt il 20 marzo, Baden-Wuerttemberg il 27 marzo e Meckleburgo Pomerania Occidentale il 4 settembre). Sconfitte come quella odierna, che segue la perdita del Nord Reno-Westfalia nel maggio 2010, metterebbero in serie difficoltà i conservatori in vista delle politiche del 2013. Già ora, a causa della batosta di Amburgo, per la coalizione della Merkel sarà ancora più difficile riuscire a passare le leggi al Bundesrat. Dopo la sconfitta nel Nord Reno-Westfalia, la coalizione aveva perso la maggioranza - per un voto - alla Camera alta dei rappresentanti regionali. Senza Amburgo, che conta tre seggi su 69, il divario si allarga a quattro voti e questo significa che sarà molto più difficile spingere per l'approvazione delle leggi senza fare grosse concessioni all'opposizione. Gli analisti politici si domandano se il voto di oggi possa davvero comportare rischi futuri per l'Unione (Cdu-Csu) della Merkel, che a livello nazionale sta risalendo gradualmente nei sondaggi (è al 36% circa, rispetto al 33,8% delle politiche 2009). Secondo alcuni osservatori, non ci dovrebbero essere conseguenze, soprattutto perchè il voto di Amburgo era basato su temi locali. Molti attribuiscono la debacle all'incapacità di governare del sindaco, Christoph Ahlhaus, il quale ha sostituto Ole von Beust lo scorso luglio. È da allora che la Cdu regionale ha cominciato a perdere terreno, insieme alla coalizione cristiano democratici-Verdi. Sfuma, quindi, anche il sogno di vedere l'alleanza Cdu-Verdi come un possibile modello da esportare a livello nazionale. La Spd torna così al potere ad Amburgo dopo 10 anni. Nel 2001, infatti, venne battuta dalla Cdu e dovette lasciare dopo avere governato la città anseatica per 44 anni di fila.
21 febbraio 2011 MISSIONE Afghanistan, 60 civili uccisi da raid Nato Karzai "addolorato", l'Isaf apre inchiesta Durante un attacco aereo della Nato domenica nella provincia orientale afghana di Nangarhar sarebbero stati uccisi per errore otto civili, fra cui sei membri di una stessa famiglia. Lo riferisce l'agenzia di stampa Afghan Islamic Press. Il portavoce provinciale, Ahmad Zia Abdulzai, ha precisato che un missile lanciato contro tre talebani che stavano collocando un ordigno esplosivo sul ciglio di una strada ha deviato la sua traiettoria colpendo la casa dove si trovavano i civili. L'incidente, se confermato, complica ulteriormente la fase di crisi apertasi con la denuncia dell'uccisione la settimana scorsa di una cinquantina di civili da parte della Forza internazionale di assistenza alla sicurezza (Isaf) nella provincia nord-orientale di Kunar, episodio stigmatizzato dal presidente Hamid Karzai e su cui l'Isaf ha aperto una inchiesta. In un comunicato a Kabul, ha successivamente reso noto che anche su questo "deplorevole episodio" è stata aperta un'inchiesta. Addolorato per le morti dei civili, il capo dello Stato Karzai ha disposto che le autorità competenti per la sicurezza inviino una commissione nel distretto di Ghaziabad. Citando informazioni fornitegli dai suoi servizi di intelligence, Karzai ha sostenuto che "durante operazioni militari internazionali e raid aerei, almeno 50 civili - compresi donne e bambini - sono stati uccisi e numerosi altri hanno riportato ferite". In precedenza, il governatore di Kunar, Sayed Fazullah Wahidi, aveva rivelato che negli attacci militari erano morti 51 civili, di cui almeno 20 donne, e 13 talebani. In un suo comunicato l'Isaf ha però assicurato che le vittime erano davvero 36 insorti, un dato confortato dai video di cui dispongono i sistemi d'arma utilizzati, anche se ha indicato di aver inviato sul posto una commissione di inchiesta perchè, ha precisato il colonnello Patrick Haynes, direttore del Centro per le operazioni congiunte del Comando Isaf, "prendiamo le accuse di vittime civili molto seriamente". ATTENTATO A KUNDUZ, 50 TRA MORTI E FERITI Almeno 20 persone sono morte e una trentina sono rimaste ferite in un attentato suicida nella provincia settentrionale afghana di Kunduz. Lo riferisce l'agenzia di stampa Islamic News Agency. L'attentato è avvenuto nel distretto di Imam Sahib, e secondo le prime informazioni i morti sarebbero almeno 20 ed altrettanti i feriti. L'attentatore suicida, si è appreso, si è fatto esplodere all'interno dell'edificio del governatorato del distretto, dove era affollata moltissima gente, da qui l'elevato bilancio delle vittime. Il capo del distretto, Ayub Haqyar, era fuori dall'edificio al momento dell'attentato, ma ha confermato che l'attacco è opera di un kamikaze e che "le vittime sono moltissime".
2011-02-19 19 febbraio 2011 L'ONDA LUNGA DEL MAGHREB Libia cresce la protesta: "Almeno 84 morti" Le forze di sicurezza hanno ucciso almeno 84 persone in Libia in tre di giorni di manifestazioni. Lo afferma Human Rights Watch citando testimonianze di fonti mediche e di residenti. Ieri sera Amnesty international aveva fornito un bilancio di 46 morti. "Le autorità libiche devono porre fine immediatamente agli attacchi contro i manifestanti pacifici e proteggerli da gruppi antigovernativi", si legge in un comunicato dell'organizzazione umanitaria che ha sede a New York. L'accesso a Internet è stato completamente bloccato in Libia nel corso della notte. Lo riferisce Arbor Networks, una società specializzata nella sorveglianza del traffico internet basata negli Stati Uniti.La Libia ha "bruscamente interrotto" l'accesso a internet alle 02.15 locali (le 1.15 in Italia), ha precisato la società, aggiungendo che le connessioni internet erano già molto disturbate ieri. Nelle manifestazioni degli ultimi giorni in Libia, soprattutto nelle città della Cirenaica, nell'est del Paese, sono rimaste uccise dall'intervento delle forze di sicurezza almeno 46 persone, secondo quanto ha riferito Amnesty International. E' sempre più in fiamme l'est della Libia: anche ieri Bengasi, Al Baida e oltre, verso il confine con l'Egitto, sono state teatro di nuove manifestazioni e di nuovi disordini nonostante il pugno di ferro del leader Muammar Gheddafi che, attraverso i "Comitati rivoluzionari e il popolo", ha minacciato "i gruppuscoli" anti-governativi di una repressione "devastante". Decine i morti. Gran parte delle vittime sono state registrate proprio a Bengasi e a Al Baida, afferma al'organizzazione umanitaria denunciando il comportamento "sconsiderato" delle autorità. A Bengasi, la seconda città del paese da sempre 'ribelle', migliaia di dimostranti sono scesi in piazza ed alcuni di loro hanno occupato l'aeroporto per impedire l'arrivo di rinforzi. La BBC in serata ha reso noto che lo scalo era stato chiuso. In alcune zone della città è stata sospesa l'erogazione della corrente elettrica. Per tarpare le ali tecnologiche della protesta, Facebook da ieri sera era stato reso inaccessibile e la navigazione su Internet resa più difficoltosa. Anche le comunicazione telefoniche per tutta la giornata di ieri sono risultate ardue.Due poliziotti sono stati impiccati dai manifestanti ad Al Baida (terza città del Paese) mentre a Bengasi la sede della radio è stata incendiata. Le forze di sicurezza hanno successivamente ricevuto l'ordine di ritirarsi dal centro delle due località, ufficialmente "per evitare ulteriori scontri con i manifestanti e altre vittime". Ma nello stesso tempo non si sono allontanate, prendendo il controllo di tutte le vie d'accesso, sia per impedire a chi ha partecipato ai disordini di allontanarsi sia per bloccare eventuali civili o miliziani intenzionati ad unirsi alla piazza. In serata il sito di un giornale online vicino al figlio riformista di Gheddafi, Seif al Islam aveva ammesso 20 morti a Bengasi e sette a Derna, dove ieri si sono celebrati i funerali delle vittime di giovedi. Ieri ci sono stati morti anche in due prigioni dove i detenuti avrebbero approfittato della situazione instabile per scatenare una rivolta: sei sarebbero stati uccisi a Jadaida, nella capitale; numerosi sono invece riusciti a fuggire dalla prigione al-Kuifiya di Bengasi, ed hanno poi appiccato il fuoco all'ufficio del procuratore generale, a una banca e a un posto di polizia. Poi, da un esule libico che vive in Svizzera, arrivano notizie simili ma con un punto di vista diverso. Al Baida e Derna sono ormai "due città libere" e "il potere è passato al popolo", proclama Hassan Al-Jahmi - uno dei promotori della 'Giornata della Collera' - ai sui circa 30.000 simpatizzanti su Facebook. E su Youtube un video amatoriale mostra incidenti a Tobruk, con un monumento al 'Libro Verde' di Gheddafi, simbolo della sua rivoluzione, gettato giù dal suo piedistallo. A Tripoli invece, per tutta la giornata la vita è andata avanti abbastanza normalmente. Gheddafi si è fatto vedere nel centro della città, nella Piazza Verde, dove è stato salutato con entusiasmo dai suoi sostenitori. Non ha parlato ma hanno parlato i comitati rivoluzionari: una risposta "violenta e fulminante" colpirà - hanno detto - gli "avventurieri" che protestano, e qualunque tentativo di "superare i limiti" si trasformerà in "suicidio". "No, non lo ho sentito. La situazione è in evoluzione e quindi non mi permetto di disturbare nessuno": così il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, lasciando palazzo Grazioli, ha risposto ai cronisti che gli chiedevano se avesse avuto modo di sentire il leader libico in queste ore. "Siamo preoccupati per tutto quello che sta succedendo in tutta l'area", ha aggiunto". "In Libia èin corso un silenzioso massacro di giovani intellettuali e lavoratori che protestano contro un regime liberticida. Le autorità italiane assistono in modo silenzioso e forse imbarazzato nel ricordare le indegne sceneggiate a cui ci ha costretto ad assistere il colonnello Gheddafi sul territorio italiano con la sola voce indignata di una parte dell'opposizione. Chiediamo che il Governo riferisca in Parlamento al più presto su quanto sta avvenendo e che le Camere esprimano una condanna netta e ferma per atti di violenza perpetrati nei confronti di spontanee manifestazioni di protesta popolare contro un regime tirannico". Lo afferma il leader dell'Udc Pier Ferdinando Casini.
19 febbraio 2011 L'ONDA LUNGA DEL MAGHREB Libia cresce la protesta: "Almeno 84 morti" Le forze di sicurezza hanno ucciso almeno 84 persone in Libia in tre di giorni di manifestazioni. Lo afferma Human Rights Watch citando testimonianze di fonti mediche e di residenti. Ieri sera Amnesty international aveva fornito un bilancio di 46 morti. "Le autorità libiche devono porre fine immediatamente agli attacchi contro i manifestanti pacifici e proteggerli da gruppi antigovernativi", si legge in un comunicato dell'organizzazione umanitaria che ha sede a New York. L'accesso a Internet è stato completamente bloccato in Libia nel corso della notte. Lo riferisce Arbor Networks, una società specializzata nella sorveglianza del traffico internet basata negli Stati Uniti.La Libia ha "bruscamente interrotto" l'accesso a internet alle 02.15 locali (le 1.15 in Italia), ha precisato la società, aggiungendo che le connessioni internet erano già molto disturbate ieri. Nelle manifestazioni degli ultimi giorni in Libia, soprattutto nelle città della Cirenaica, nell'est del Paese, sono rimaste uccise dall'intervento delle forze di sicurezza almeno 46 persone, secondo quanto ha riferito Amnesty International. E' sempre più in fiamme l'est della Libia: anche ieri Bengasi, Al Baida e oltre, verso il confine con l'Egitto, sono state teatro di nuove manifestazioni e di nuovi disordini nonostante il pugno di ferro del leader Muammar Gheddafi che, attraverso i "Comitati rivoluzionari e il popolo", ha minacciato "i gruppuscoli" anti-governativi di una repressione "devastante". Decine i morti. Gran parte delle vittime sono state registrate proprio a Bengasi e a Al Baida, afferma al'organizzazione umanitaria denunciando il comportamento "sconsiderato" delle autorità. A Bengasi, la seconda città del paese da sempre 'ribelle', migliaia di dimostranti sono scesi in piazza ed alcuni di loro hanno occupato l'aeroporto per impedire l'arrivo di rinforzi. La BBC in serata ha reso noto che lo scalo era stato chiuso. In alcune zone della città è stata sospesa l'erogazione della corrente elettrica. Per tarpare le ali tecnologiche della protesta, Facebook da ieri sera era stato reso inaccessibile e la navigazione su Internet resa più difficoltosa. Anche le comunicazione telefoniche per tutta la giornata di ieri sono risultate ardue.Due poliziotti sono stati impiccati dai manifestanti ad Al Baida (terza città del Paese) mentre a Bengasi la sede della radio è stata incendiata. Le forze di sicurezza hanno successivamente ricevuto l'ordine di ritirarsi dal centro delle due località, ufficialmente "per evitare ulteriori scontri con i manifestanti e altre vittime". Ma nello stesso tempo non si sono allontanate, prendendo il controllo di tutte le vie d'accesso, sia per impedire a chi ha partecipato ai disordini di allontanarsi sia per bloccare eventuali civili o miliziani intenzionati ad unirsi alla piazza. In serata il sito di un giornale online vicino al figlio riformista di Gheddafi, Seif al Islam aveva ammesso 20 morti a Bengasi e sette a Derna, dove ieri si sono celebrati i funerali delle vittime di giovedi. Ieri ci sono stati morti anche in due prigioni dove i detenuti avrebbero approfittato della situazione instabile per scatenare una rivolta: sei sarebbero stati uccisi a Jadaida, nella capitale; numerosi sono invece riusciti a fuggire dalla prigione al-Kuifiya di Bengasi, ed hanno poi appiccato il fuoco all'ufficio del procuratore generale, a una banca e a un posto di polizia. Poi, da un esule libico che vive in Svizzera, arrivano notizie simili ma con un punto di vista diverso. Al Baida e Derna sono ormai "due città libere" e "il potere è passato al popolo", proclama Hassan Al-Jahmi - uno dei promotori della 'Giornata della Collera' - ai sui circa 30.000 simpatizzanti su Facebook. E su Youtube un video amatoriale mostra incidenti a Tobruk, con un monumento al 'Libro Verde' di Gheddafi, simbolo della sua rivoluzione, gettato giù dal suo piedistallo. A Tripoli invece, per tutta la giornata la vita è andata avanti abbastanza normalmente. Gheddafi si è fatto vedere nel centro della città, nella Piazza Verde, dove è stato salutato con entusiasmo dai suoi sostenitori. Non ha parlato ma hanno parlato i comitati rivoluzionari: una risposta "violenta e fulminante" colpirà - hanno detto - gli "avventurieri" che protestano, e qualunque tentativo di "superare i limiti" si trasformerà in "suicidio".
19 febbraio 2011 Interrogativi aperti su Egitto e Tunisia Nel vulcano che ribolle la realtà brucia gli schemi Un nuovo Ottantanove, così alcuni osservatori, soprattutto tra i giornalisti che hanno assistito alle manifestazioni di Piazza Tahrir, definiscono il movimento che ha portato alla fuga di Ben Ali in Tunisia e alle dimissioni di Mubarak in Egitto. Che cosa sta succedendo in Medio Oriente? Il paragone con i fatti dell’89 ha senso o è un’esagerazione giornalistica? Dove arriverà l’onda lunga della protesta? E perché nessuno o quasi l’ha prevista? Sono queste alcune delle domande che si affacciano con più insistenza. Su Avvenire, Luigi Geninazzi e Riccardo Redaelli hanno già sottolineato aspetti inediti (che sconsigliano paragoni), incognite (che inducono a prudenze) e promesse che motivano quelle domande. Ma è naturale che la maggior parte di esse rimanga ancora senza risposta: i processi storici coinvolgono la libertà dei singoli e sono perciò indeducibili a priori. Alcuni elementi di riflessione tuttavia si possono già indicare. Il primo è la nuova fortuna della parola "rivoluzione". I giornali tunisini ed egiziani non parlano soltanto di intifada ("rivolta"), ma apertamente anche di thawra ("rivoluzione"). Per comprendere la portata della scelta lessicale, si tenga presente che in Egitto o Tunisia la Rivoluzione per antonomasia era finora quella che negli anni Cinquanta si era conclusa con la cacciata dei poteri coloniali diretti (francesi) o indiretti (re Farouq e gli inglesi). La nuova rivoluzione invece si è appuntata contro avversari interni con l’obiettivo di far cadere il regime. Come ha scritto Malika Zeghal commentando a caldo i fatti tunisini sulla newsletter di Oasis, "ci troviamo ora ben al di là di un nazionalismo che si definiva in rapporto all’altro (il colonizzatore e l’occidente) o attraverso certe ideologie". Il passato coloniale sembra finalmente archiviato, anche come immaginario. Non si tratta peraltro neppure della rivoluzione islamica tout court che ha conosciuto l’Iran nel 1979. Anche se la componente islamista è ben rappresentata, prevale per ora un riferimento a valori universali come la triade "lavoro-libertà-dignità nazionale" in Tunisia. In Egitto il tema principale è la lotta alla corruzione, con innumerevoli arresti di ministri, uomini d’affari e personalità illustri. È questo il significato di "rivoluzione" dopo il crollo delle ideologie? In realtà, un’ideologia è presente, soprattutto in Egitto, meno in Tunisia. Si tratta dell’islam politico. La domanda su cui si è incentrata finora l’attenzione di molti analisti è in che misura i movimenti islamisti, prima di tutto i Fratelli musulmani, mantengano nei fatti la visione teorica per cui l’islam fornisce un modello politico immediatamente applicabile e in grado di risolvere tutti i problemi, e in che misura invece abbiano virato verso posizioni che, limitando le tentazioni egemoniche, riconoscono un certo grado di mediatezza all’azione politica rispetto ai principi religiosi ispiratori. L’islam è la soluzione è e rimane il celebre slogan dei Fratelli musulmani, ma come si declina oggi concretamente? Si tratta di una domanda molto rilevante, ma forse – e questa è la terza osservazione – non la più rilevante. Che è piuttosto se per i giovani manifestanti la priorità sia davvero l’instaurazione di uno Stato islamico. In questi giorni lo Shaykh di al-Azhar è dovuto intervenire per mettere in guardia la Costituente dall’ipotesi di modificare l’articolo 2, che dichiara l’islam religione di Stato e la sharia fonte principale della legislazione. Già la presa di posizione dello Shaykh la dice lunga. Ma la cosa più interessante sono i 322 commenti alla notizia che si possono potevano leggere sul sito del quotidiano Ahram. Circa la metà dei pareri è negativa. Sono cristiani che scrivono (lo si capisce dai nomi), ma anche "egiziani" (senza ulteriore qualifica confessionale) e molti musulmani. Dichiarano "la religione a Dio e l’Egitto per tutti" o liquidano la presa di posizione delle autorità religiose con un lapidario "è finito il tempo dell’ingerenza". Altri domandano uno Stato civico dawla madaniyya, parola che nel mondo arabo indica uno Stato laico non ostile alla religione. Molti mettono in guardia: le autorità "stanno cercando di giocare di nuovo il vecchio gioco", dividendo cristiani e musulmani. C’è anche chi si domanda: se l’Egitto deve restare uno Stato islamico, perché protestare tanto contro il vicino Stato ebraico? Anche facendo la tara sul fatto che l’enorme massa di poveri che vive in Egitto non si trova rappresentata nei commenti sui forum perché non ha modo di accedere a Internet, l’impressione è che il dibattito sia apertissimo e tutt’altro che scontato nei suoi esiti. Martino Die< - Direttore Fondazione Oasis
2011-02-17 17 febbraio 2011 L'ONDA LUNGA NEL MAGHREB Libia, "giorno della collera" "9 morti negli scontri" La tensione nell'area mediorientale e del Maghreb resta alta. Oggi è il "giorno della collera" in Libia e ancora oggi si attendono grandi mobilitazione. A Tripoli si fronteggeranno i manifestanti anti-regime e i sostenitori del leader Muhammar Gheddafi. Già nei giorni scorsi le due fazioni sono state coinvolte in scontri e c'è il forte timore di una repressione autoritaria che faccia degenerare la situazione. La Farnesina mette in allerta gli italiani che dovessero recarsi nel Paese nordafricano indicando anche la giornata di venerdì come a rischio e consigliando di "evitare gli assembramenti di folla, di allontanarsi immediatamente dalle zone dove siano in corso manifestazioni e, in generale, di rimanere sempre aggiornati sull’attualità internazionale e regionale". MORTI E FERITI Su blog e social network, per tutta la giornata di ieri, si sono rincorse voci di incidenti in Libia. Lunghe ore di forte tensione che sono seguite a una notte di scontri, arresti, feriti e, secondo informazioni non confermate ufficialmente, ci sono anche delle vittime. Secondo siti vicino all'opposizione e alle ong libiche i morti a seguito delle colluttazioni di ieri tra manifestanti antigovernativi e polizia ad Al Baida, nell'est della Libia, sarebbero almeno 9, 13 secondo altre fonti. Sarebbero poi trentotto le persone rimaste ferite negli scontri avvenuti fino ad ora a Bengasi. Sostenitori del colonnello Muammar Gheddafi e polizia hanno caricato i manifestanti riuniti davanti a un commissariato, per chiedere la liberazione di un attivista. LE PRESSIONI DEGLI USA Gli Stati uniti hanno chiesto alle autorità di Tripoli di andare incontro alle aspirazioni della popolazione. "I Paesi della regione stanno affrontando le medesime difficoltà in materia di demografia, aspirazioni popolari e bisogno di riforme", ha dichiarato il portavoce del dipartimento di Stato americano, Philip Crowley. "Incoraggiamo questi Paesi a prendere delle misure specifiche che rispondano alle aspirazioni, ai bisogni e alle speranze del loro popolo. La Libia rientra senza alcun dubbio in questa categoria", ha aggiunto il diplomatico statunitense. Crowley ha evitato di rispondere esplicitamente a chi gli chiedeva se non ritenesse Muammar Gheddafi "un dittatore". Ma il suo pensiero è emerso con chiarezza: "Non credo che sia arrivato al potere democraticamente", ha detto.
17 febbraio 2011 LIBIA Dopo 40 anni il colonnello trema Vacilla anche il trono di Gheddafi. Al governo dal 1969, il colonnello risulta essere il più longevo tra i suoi pari arabi, con la sola eccezione del sultano Qabus dell’Oman. La "Guida della rivoluzione" aveva tradito un forte nervosismo assistendo al crollo di due dei suoi vicini diretti. Si era pure lasciato andare, quando era apparso chiaro che il rais tunisino avesse deciso di abbandonare il Paese, a un commento inequivocabile: "Non c’era persona migliore di Ben Ali per governare. La Tunisia ora vive nella paura". Anche durante i giorni decisivi della rivolta egiziana è rimasto costantemente in contatto telefonico con Muburak per "discutere degli sviluppi in corso in Egitto". Ora toccherà a lui far fronte alle manifestazioni di piazza convocate per oggi dalla Conferenza nazionale dell’opposizione libica, la piattaforma che raggruppa le principali formazioni critiche del regime. Una data scelta con cura, visto che il 17 febbraio ricorre l’anniversario dell’Intifada scoppiata a Bengasi nel 2006. D’altra parte, gli ingredienti per una rivolta ci sono tutti nella "Repubblica delle masse": regime autoritario, violazioni dei diritti umani, repressione sistematica di ogni forma di dissenso politico, controllo della stampa, ricorso ai tribunali segreti, pratica della tortura contro oppositori e rifugiati, corruzione diffusa. Senza parlare della volontà di trasformare la Jamahiriya in repubblica ereditaria affidata al figlio Saif al-Islam. In tutto questo l’Europa – e in particolar modo l’Italia – ha molte responsabilità. I ripetuti ricatti libici sul nostro Paese riguardo l’immigrazione clandestina o il passato coloniale fascista hanno finito per conferire alle stravaganze di Gheddafi carta bianca in cambio dell’apertura all’Italia dei cantieri libici. E il colonnello non aspettava altro per tenere, senza disturbo, le sue lezioni sull’islam nel cuore di Roma davanti a un pubblico strettamente femminile. Non meglio si è comportata la comunità internazionale favorendo la cosiddetta "soluzione libica": un cambio di rotta politica attuato in maniera morbida, con l’abbandono delle ambizioni nucleari e la fine del sostegno ai movimenti islamici radicali di mezzo mondo in cambio della revoca, nel 1999, dell’embargo economico internazionale motivato dal caso Lockerbie, e la risoluzione 748 dell’Onu con cui la Libia è stata depennata dalla lista degli Stati canaglia. Camille Eid
17 febbraio 2011 BAHREIN La piazza ora tenta la "spallata" al re Resta alta la tensione in Bahrein, dove ieri si è contato il terzo giorno di proteste. L’assunzione di responsabilità pubblica del re, che alla tv di Stato si è scusato per i manifestanti uccisi dalla polizia, non è bastata a placare gli animi. Centinaia di manifestanti anti governativi hanno partecipato al funerale di uno dei due manifestanti sciiti rimasti uccisi due giorni fa durante gli scontri con la polizia. In centinaia hanno trascorso la notte accampati in piazza delle Perle. I manifestanti promettono ancora battaglia: "Sabato organizzeremo – ha annunciato Ebrahim Sharif, il leader del movimento laico "Azione democratica nazionale" in un’intervista al quotidiano Wall Street Journal – la più grande manifestazione politica nella storia del Bahrein. Puntiamo a far scendere in strada 100 mila persone, di sicuro non saranno meno di 50 mila". L’organizzazione politica di Sharif fa parte di un comitato di sette gruppi, tra cui il blocco sciita al-Wafaq, nato per coordinare la protesta contro il governo e unificare le richieste dell’opposizione. Sheik Ali Salman, leader del blocco sciita, ha stilato le richieste dell’opposizione: "Potere al popolo, realizzazione di una "vera" monarchia costituzionale ed elezione del primo ministro, attualmente di nomina regia". Da parte sua re Al Khalifas, al potere dal 1971, avrebbe segretamente chiesto aiuto ai sauditi per domare la rivolta in patria. A svelarlo è il sito di intelligence israeliana Debkafile, secondo cui Al Khalifas ha chiesto a Riad di mettere le proprie forze in stato di allerta in modo che possano intervenire se la situazione dovesse sfuggire di mano. Riad, dal canto suo, ha già iniziato ad aumentare la sicurezza a tutela della propria minoranza sciita nelle regioni orientali del regno ricche di petrolio, proprio in conseguenza delle proteste in Bahrein. La situazione sta mettendo a serio rischio anche il Gran Premio di Formula Uno previsto in Bahrein per il mese prossimo. "Il pericolo è evidente, o no? – ha detto al Daily Telegraph il patron del Circus, Bernie Ecclestone – : se queste persone volessero fare storie e ottenere un riconoscimento a livello mondiale, sarebbe dannatamente facile. Prova a creare problemi sulla griglia in Bahrein e otterrai una risonanza planetaria". (E.A.)
17 febbraio 2011 IRAN "Mussavi e Karrubi saranno processati" "Sono disposto a pagare qualunque prezzo per il mio Paese". È un attivista politico dal 1962 Mehdi Karrubi, uno dei leader dell’opposizione iraniana. Conosce, dunque, fin troppo bene i rischi del dissenso. Tanto che queste parole le ha pronunciate ieri mattina. Diverse ore prima che la magistratura ne annunciasse l’imminente processo. Le "menti della sedizione", ovvero Karrubi e l’altro riferimento del fronte anti-Ahmadinejad, Hossein Mussavi, non sfuggiranno "ai doveri della giustizia" e "saranno processati a tempo debito", ha detto il vice-capo del potere giudiziario Ali Razini. L’ultima "colpa" dei due è quella di aver partecipato alle manifestazioni di lunedì duramente represse dal governo: negli scontri sono morti due ragazzi. L’ala conservatrice è determinata a punirli. Oltre al giudizio in aula, Mussavi e Karrubi saranno sottoposti a quello "del popolo": domani il regime ha promosso un corteo "d’odio" contro di loro, accusati di essersi "venduti" agli Usa e a Israele. Anche, ieri, nella comunità internazionale si sono levate le voci di condanna del pugno di ferro del cancelliere tedesco Merkel e del ministro degli Esteri italiano Frattini. Inutile l’intento di Mussavi di smentire ingerenze straniere. Il dissidente invitato gli altri Paesi a non immischiarsi, rispondendo così indirettamente al presidente Obama, che aveva espresso la speranza che gli iraniani "avessero il coraggio" di continuare a protestare. Un modo per prendere le distanze da Washington, il cui sostegno darebbe ad Ahmadinejad la giustificazione per una repressione feroce dell’opposizione. Gli oltranzisti, però, sono apparsi sempre più determinati a schiacciare il dissenso: un corteo conservatore nella città santa di Qom ha chiesto, ieri, a gran voce "l’impiccagione" dei due traditori. Le minacce, però, non riescono a fermare la protesta. Ieri ci sono stati nuovi scontri durante i funerali delle due vittime delle manifestazioni di lunedì, Saneh Jaleh e Mohammed Mokyhtari, di 26 e 22 anni. Mentre la loro identità è nota, l’appartenenza politica resta un enigma. Il governo sostiene che Jaleh fosse un "basiji", ovvero un suo attivista. Mussavi, però, ribadisce che si tratta di proprio sostenitore. Il sito dissidente Kaleme ha dato notizia di nuovi incidenti tra miliziani islamici e studenti nell’Università delle Arti, quella frequentata da Jaleh. Alcuni ragazzi e un docente – riporta la testata online – sarebbero stati arrestati. I pasdaran hanno fatto anche irruzione in casa del figlio di Karrubi, formalmente per una perquisizione. Secondo fonti dell’opposizione, in realtà, le forze di sicurezza avrebbero cercato il giovane Hossein per metterlo in cella. Lucia Capuzzi
17 febbraio 2011 LA RIVOLTA INFINITA Scioperi a catena nell'Egitto dei generali: fuori i corrotti Mentre continuano a peggiorare le condizioni di salute dell’ex presidente egiziano Hosni Mubarak, secondo i media intenzionato a morire nella propria residenza di Sharm-El-Sheikh, i ripetuti appelli rivolti dall’esercito a coloro che ancora manifestano sono finora caduti nel vuoto: assembramenti e scioperi sono segnalati in numerose città, soprattutto nella capitale e in alcuni centri del Delta del Nilo, del canale di Suez e di Alessandria. Gli operai chiedono aumenti salariali e migliori condizioni di lavoro, oltre alla rimozione di una classe dirigente compromessa con l’odiato regime, ma le forze armate invitano a riprendere le attività, fortemente compromesse da quasi tre settimane di stop. A causa del protrarsi della serrata del settore bancario almeno fino a domenica prossima, anche la Borsa del Cairo risulta ancora chiusa. Così come scuole, uffici pubblici e numerosi esercizi commerciali. Tutti i comparti produttivi sono travolti e penalizzati, dal tessile all’agricoltura, dalla sanità all’istruzione. Gli operatori turistici sono costretti a uno stop forzato in piena alta stagione: il turismo ha portato in Egitto nel 2010 oltre 12 milioni di visitatori (dati dell’Autorità egiziana per il Turismo, il cui obiettivo per il 2011 era di 14 milioni di presenze), per 13 miliardi di dollari annui, pari al 6 per cento del Pil. Musei e siti archeologici dovrebbero riaprire sabato. Ieri, la tv di Stato – citando fonti del ministero della Salute – ha calcolato in 365 le vittime delle proteste, 65 in più rispetto alla cifra diffusa dall’Onu. In tema di scuse anche quelle del maggiore quotidiano egiziano, Al Ahram, noto da sempre per le sue posizioni filogovernative, che in un editoriale ha chiesto scusa ai suoi lettori per la copertura "non professionale" degli avvenimenti. Il resto della stampa nazionale dà rilievo al moltiplicarsi delle indagini nei confronti dei ministri uscenti o di alti funzionari. Tra questi l’ex ministro degli Interni, Habib El Adli, ritenuto responsabile dell’organizzazione dell’attentato alla Chiesa dei Santi di Alessandria d’Egitto, il 1 gennaio di quest’anno: ieri è partita l’inchiesta. Secondo gli investigatori, El Adli avrebbe costituito negli anni una "task-force" di 22 uomini, a capo di un gruppo più ampio di ex-islamisti radicali, trafficanti di droga, criminali comuni e mercenari, pronti a entrare in azione ogni qual volta il regime di Mubarak si fosse sentito in pericolo. Il massacro di Alessandria d’Egitto, in cui sono morti 24 egiziani di fede cristiano copta, doveva ingigantire, agli occhi dell’opinione pubblica nazionale e internazionale, il pericolo del terrorismo islamico e quindi rafforzare il supporto alla presidenza Mubarak nell’anno delle elezioni presidenziali. I beni di El Adli sono stati congelati e il suo passaporto requisito. Fonti dell’intelligence britannica hanno ricostruito e avallato tale pista investigativa dopo aver ascoltato direttamente, presso l’ambasciata del Cairo, alcuni uomini del "gruppo scelto" evasi da una prigione egiziana durante le recenti proteste e recatisi presso la sede diplomatica. Intanto, il Consiglio supremo delle forze armate, alla guida dell’Egitto da neanche una settimana, ha incontrato i giuristi incaricati di effettuare la revisione costituzionale: i giuristi avranno una decina di giorni per apportare degli emendamenti alla Carta e indire un referendum, che si terrà entro due mesi. Poi, sarà la volta delle elezioni, legislative e presidenziali. Federica Zoja
17 febbraio 2011 IL POLITOLOGO "Obama punti sui giovani. I regimi sono vulnerabili" Nell’affaire egiziano l’Amministrazione Obama ha quasi perso la faccia. Se è riuscita a emergere dalla parte giusta della crisi che ha portato al collasso di uno storico alleato come Hosni Mubarak, lo si deve all’istinto di Barack Obama. Ma se Washington vuole avere un’influenza sui prossimi atti del dramma mediorientale, deve imparare a usare meglio il suo "soft power". Aiutata da una maggiore destrezza con i social network e da una buona dose di potere "hard", soprattutto economico. L’analisi di Joseph Nye, professore di Harvard ed ex presidente del National intelligence council della Casa Bianca, parte dalla constatazione che il "soft power" americano – insieme di valori trasmesso dai media e dalla cultura popolare, secondo la definizione da lui coniata nel 1990 – è in declino, soprattutto in Medio Oriente. Colpa dell’antiamericanismo nato dopo le guerre in Afghanistan e Iraq, ma anche di un messaggio poco chiaro dell’Amministrazione Obama. Professor Nye, che cosa può fare l’Amministrazione Usa per spingere nella direzione che desidera, vale a dire quella democratica, i movimenti anti-autoritari in corso in Medio Oriente? Quale può essere insomma il suo modello di "esportazione della democrazia"? Il governo americano deve trovare un messaggio forte da lanciare ai giovani della regione. Finora si è mosso in ordine sparso. Il segretario di Stato Clinton, il capo degli Stati maggiori riuniti Mullen, persino il senatore Kerry, a turno hanno prima invitato Mubarak a concedere riforme, poi hanno timidamente abbracciato la piazza. Ora hanno atteggiamenti ugualmente contraddittori nei confronti di Yemen e Barhein. La sensazione è che siano stati colti di sorpresa dalla forza di questi movimenti. Come è possibile? La realtà è che per l’Amministrazione Obama la promozione della democrazia non era inizialmente una priorità nei rapporti con i regimi mediorientali. Obama ha sempre sostenuto, in principio, la promozione della democrazia in Medio Oriente, ma è stato timido nel criticare i regimi autoritari della regione. In un discorso lo scorso febbraio in Qatar, ad esempio, Hillary Clinton ha elencato diritti umani e democrazia ultimi fra gli obiettivi di Washington nel mondo arabo, dopo la soluzione del conflitto israelo palestinese, il controllo del programma nucleare iraniano, la lotta all’estremismo violento e la promozione di opportunità per i giovani. A cosa si deve questa ambivalenza? Obama è salito al potere in un momento in cui il modello di promozione aggressiva della democrazia di George W. Bush era stato discreditato. Il nuovo presidente è arrivato alla Casa Bianca promettendo di riscattare l’immagine dell’America e assicurando amicizia al mondo islamico. Ma per non rischiare l’antiamericanismo e garantirsi la cooperazione dei regimi arabi nella lotta al terrorismo, si è adattato allo status quo, limitandosi a generici richiami alla mancanza di apertura dei regimi arabi. È stato così anche dietro le quinte? Non del tutto. L’amministrazione ha continuato a finanziare programmi di promozione della democrazia e a usare i propri ambasciatori per invitare i regimi alle riforme. Ma la sensazione è che la Casa Bianca abbia mantenuto un equilibrio precario. Una politica estera intelligente nell’età dell’informazione richiede una gestione più sofisticata del potere. In quali termini? Dobbiamo saper ragionare simultaneamente in termini di strumenti di potere "hard", come le minacce economiche e persino militari, e nuovi strumenti "soft" che possano far penetrare all’interno di queste società i nostri valori in forma attraente. Oggi accadono molte più cose fuori dal controllo anche dei governi più potenti e autoritari. Cose che gli Stati Uniti, se non vogliono essere colti di sorpresa e avere un impatto sull’esito di questi movimenti, non possono ignorare. Elena Molinari
2011-02-12 12 febbraio 2011 LA SVOLTA La resa di Mubarak, Egitto in festa L'esercito egiziano ha iniziato stamattina rimuovere le barricate dalle strade intorno a piazza Tahrir, a Il Cairo, simbolo delle proteste che hanno portato alle dimissioni del presidente Hosni Mubarak. Militari e volontari rimuovono le barriere di metallo, i barili e i rottami dei veicoli distrutti in questi 18 giorni di protesta e utilizzati come scudo durante i momenti di maggiore tensione. Per tutta la notte gli egiziani hanno festeggiato le dimissioni di Mubarak e già dalle prime ore di questa mattina in molti si sono riuniti nella storica piazza Tahrir in attesa delle prime dichiarazioni dell'esercito, che da ieri detiene il potere. Intanto, dagli attivisti del web ai manifestanti di piazza, dai dissidenti egiziani al potente movimento dei Fratelli Musulmani, tutta l'opposizione egiziana festeggia con entusiasmo le dimissioni di Hosni Mubarak che ieri ha consegnato il potere alle forze armate. Resta incerto però il futuro politico del Paese e il mondo arabo, ma non solo, guarda con attenzione alle prossime mosse del Cairo. La Russia "spera che le procedure democratiche in Egitto saranno pienamente ripristinate e che a questo scopo saranno utilizzate tutte le procedure elettorali legittime": lo ha detto il leader del Cremlino, Dmitri Medvedev. "Noi riteniamo anche molto importante - ha proseguito il presidente russo - che in Egitto siano mantenute la pace e la concordia interconfessionale. L'Egitto, come Paese democratico e forte, rappresenta un fattore importante per portare avanti il processo di pace in Medio Oriente". "L'EGITTO È LIBERO" È un urlo di gioia incontenibile quello che esplode in piazza Tahrir alle prime luci della sera. "L’Egitto è libero!", il presidente Mubarak si è dimesso ed il boato che accoglie l’annuncio tanto atteso ripaga la folla di tutte le sofferenze, le paure e le delusioni che hanno segnato una lotta durata 18 lunghi giorni. In un tripudio di bandiere nazionali centinaia di migliaia di persone s’abbracciano felici tra applausi e grida di giubilo, mentre da un lampione viene agitato il fantoccio del rais impiccato che era stato appeso giorni fa. "Abbiamo abbattuto il regime!", e ancora "Allah akbar!", Dio è grande, l’invocazione delle preghiere del venerdì che ora risuona come un grande inno di ringraziamento. Hosni Mubarak ha rinunciato al mandato presidenziale e ha passato il potere all’esercito. Lo annuncia il vice-presidente Omar Souleiman, pallido e teso. In un intervento alla televisione spiega che "Mubarak ha deciso di dimettersi dalla carica di presidente" aggiungendo che, come suo ultimo atto da Capo dello Stato, il rais ha incaricato il Consiglio supremo della Difesa di "gestire il Paese nelle difficili circostanze che sta attraversando". È una specie di golpe consensuale. Ma oggi tutti fanno festa ai militari artefici della svolta storica. Anche i Fratelli musulmani che, mettendo da parte le loro diffidenze, si sono congratulati con l’esercito "per aver mantenuto le promesse". ll più festeggiato è il generale Tantawi, il ministro della Difesa che da oggi è il capo provvisorio della nazione, salutato con entusiasmo dalla folla. Adesso Mubarak, l’uomo che ha retto l’Egitto per trent’anni con pugno di ferro, non è più al Cairo, si è rifugiato nel suo resort di lusso sul mar Rosso, a Sharm-el-Sheikh. Cocciuto e orgoglioso, non se l’è sentita di presentarsi a viso aperto alla nazione, come aveva fatto per ben tre volte dall’inizio della protesta, e ha mandato avanti il suo vice. "Un importante comunicato presidenziale", era stato preannunciato dalla Tv di Stato a metà pomeriggio, accolto con una buona dose di scetticismo dai dimostranti anti-Mubarak, furiosi per il discorso tenuto giovedì notte da un vecchio leader che s’ostinava a mantenere il potere, trasferendo solo alcune delle sue prerogative al vice Suleiman. Rabbia e delusione avevano spinto milioni di egiziani a scendere in strada per chiedere, con ancora più forza, la caduta del rais e la fine del regime. Fin dalle prime ore del mattino la piazza della Liberazione era stracolma di manifestanti, visibilmente scontenti ma fermamente decisi ad andare fino in fondo. Mentre il caos contagiava le altre città del Paese. A el-Arish (Sinai settentrionale), si sono registrate le ultime vittime della rivolta: dieci persone che hanno perso la vita negli scontri. Nel frattempo era scattata la parola d’ordine: assediamo pacificamente i luoghi simboli del potere. Un migliaio di persone aveva già passato la notte davanti all’orribile palazzo a forma di cilindro che ospita la Tv di Stato, altri continuavano a presidiare il Parlamento. E intanto si metteva a punto una nuova strategia d’attacco, puntando sul palazzo presidenziale a Heliopolis, vicino all’aeroporto. I dimostranti che marciano compatti in una città deserta per il venerdì festivo trovano la strada sbarrata dai carri armati della "Harass Gemoury", la Guardia Presidenziale, maglioni blu e berretti rossi. Non forzano il blocco, sarebbe una follia suicida. Si stendono per terra preparandosi a un lungo sit-in. Sanno che il palazzo presidenziale è vuoto, hanno appena appreso la notizia che è fuggito a Sharm-el-Shaik. "Ma non c’importa dove sia, l’importante è che non sia più presidente dell’Egitto". Messo da parte Mubarak, il potere passa al Consiglio supremo della Difesa e non al vice-presidente Suleiman. Che fosse l’esercito il vero arbitro della situazione lo si poteva facilmente intuire dal "Comunicato n. 1" diffuso giovedì pomeriggio da un portavoce militare. E ribadito ieri con altri due comunicati dove le Forze Armate promettono l’abolizione il più presto possibile dello stato d’emergenza, l’organizzazione di elezioni libere e trasparenti e la transizione pacifica del potere. L’esercito "non si opporrà alla volontà popolare", è l’impegno solenne dichiarato in tv. Da oggi in Egitto comandano i militari. E si apre la corsa alla successione. L’egiziano Amr Moussa, uno dei possibili candidati, si è dimesso con due mesi di anticipo sulla scadenza naturale del mandato da segretario generale della Lega Araba. Mentre l’ex direttore dell’Aiea. Mohammed el-Baradei, ha annunciato che "la presidenza non è nei miei pensieri". Ma il dittatore è caduto e la festa va avanti tra caroselli di auto e clacson assordanti fino a tarda notte. È un crepitio continuo di spari. Ma questa volta sono fuochi d’artificio. Luigi Geninazzi
12 febbraio 2011 LA SVOLTA IN EGITTO La vera forza della divisa è il mondo degli affari Sarà davvero sufficiente l’uscita di scena del presidente Hosni Mubarak a far voltare pagina alla Repubblica araba d’Egitto? La risposta non può che essere negativa. Il rais, in realtà, è solo la punta di un iceberg mastodontico, quello di una leadership militare che lo stesso presidente ha coccolato, nutrito, fatto arricchire nel corso di tre decenni. Fra Mubarak e i suoi generali esiste un rapporto di osmosi tale, fra interessi economici e politici condivisi, per cui oggi è difficile immaginare la sopravvivenza degli uni senza l’altro. Non sorprende che in Egitto, caduto il tabù della salute del presidente, anche dopo 18 giorni di proteste popolari non si parli apertamente degli interessi economici in divisa: le forze armate, la vera classe dirigente del Paese, sono rimaste sempre nell’ombra lasciando ad altri, i servizi segreti, il compito di sporcarsi le mani e attirarsi l’odio degli oppositori. Ancora oggi l’esercito gode della stima della popolazione, che lo considera super partes. Ma presto, c’è da scommetterci, l’opinione pubblica comincerà a sbirciare nelle tasche dei suoi vertici militari e a chiedere spiegazioni. Si ritiene che almeno il 45% dell’economia egiziana sia controllato dall’esercito, che negli anni ha ricevuto in "dono" terre, fabbriche, proprietà immobiliari e complessi industriali in tutto il Paese. I militari hanno goduto dei proventi non solo dell’industria bellica – con commesse da capogiro, negli anni ’80, da Saddam Hussein, dal Kuwait, dalla Somalia e dal Sudan, in particolare – ma anche di quella civile. Ecco dunque che le forze armate traggono guadagno dall’industria alimentare, tessile, manifatturiera, dall’agricoltura, dal turismo, dall’edilizia, da cementifici e acciaierie, dal comparto sanitario e da quello degli idrocarburi senza essere mai tenute a rendere noto il proprio bilancio: tutto passa sotto il grande ombrello protettivo del Segreto di Stato. Una volta in pensione dall’esercito, comandanti e generali assumono prestigiosi incarichi di governo oppure si convertono al business nelle maggiori realtà industriali, talvolta di proprietà dello Stato talvolta privatizzate. Un intreccio fra affari, politica e sicurezza che ricorda da vicino il modello americano, di cui l’Egitto è un’emanazione nel mondo arabo: ogni anno, un fiume di dollari (1,3 miliardi) scorre da Washington verso le casse del Cairo per finanziare la stabilità dell’alleato arabo, ritenuta indispensabile per il quieto vivere di Israele. Soldi di cui i cittadini egiziani non vedono neanche l’ombra, perché finiscono direttamente al ministero della Difesa e della produzione militare (circa 42.000 i dipendenti): è di almeno 250 milioni di euro annui il profitto netto derivante da attività civili. Il budget ministeriale, esclusi gli aiuti americani, è di 6 miliardi di dollari. Al decimo posto nel mondo per grandezza (tra 400.000 e 450.000 gli arruolati, mentre i riservisti sarebbero altrettanti), le forze armate egiziane si articolano in esercito, marina, aeronautica e aviazione militare, cui si aggiungono forze paramilitari. Infine, le Forze di sicurezza centrali e quelle di confine, che però fanno capo al ministero degli Interni. Ora ai militari egiziani il compito, paradossale, di pilotare una svolta epocale verso una società sempre più civile e meno militarizzata che ne lederà gioco forza gli interessi e ne ridimensionerà il ruolo. In parte, il ministro della Difesa Mohammed Tantawi sembra aver già dimostrato di essere l’uomo giusto, lui che, conosciuto come il "cane barboncino di Mubarak " fino a pochi giorni fa, non ha esitato, secondo indiscrezioni, a criticare il presidente con la controparte statunitense. Dimostrando di voler saltare giù dal treno prima che deragliasse. Federica Zoja
12 febbraio 2011 CRONOLOGIA DELLA RIVOLTA I 18 giorni in piazza per rovesciare il vecchio Faraone 18 giorni che hanno cambiato la storia dell’Egitto, e che probabilmente modificheranno gli assetti strategici di tutto il Medio Oriente, sono iniziati in sordina tra le righe della rivolta tunisina. Per giorni interni i giovani egiziani hanno guardato con ammirazione e invidia quanto accadeva a Tunisi, maturando la consapevolezza della possibilità di una svolta che si stava affacciando in Nord Africa. A metà gennaio, quando la destituzione del presidente tunisino Ben Ali segnava la vittoria della "Rivoluzione dei gelsomini", hanno preso coraggio. E sono passati dalla Tv ai computer. La rivolta è iniziata così, di tastiera in tastiera, su blog e social network. I Fratelli musulmani, principale gruppo di opposizione al Cairo, nemmeno si erano accorti del rimestio di frustrazione rabbia che stava coalizzando sul Web la parte più giovane e vitale del Paese. Chiusi nelle loro prospettive ideologiche, non erano in piazza quando, il 25 gennaio, il movimento di protesta nato su Internet proclamava la "Giornata della collera ", dando vita alle prime manifestazioni per chiedere la fine del regime di Mubarak. Quel giorno, quindicimila ragazzi sceglievano piazza Tahrir come il luogo in cui tutto sarebbe ricominciato. Le "Giornate della collera". La Giornata della collera vien presto declinata al plurale, perché i manifestanti non ci mettono molto a capire che indietro non si torna, che "si può" andare sino in fondo, come in Tunisia. Le "Giornate della collera" si estendono così al 26 e 27 gennaio, con manifestazioni partecipate al Cairo e nelle altre città. Il regime di Mubarak non perde tempo: agenti in assetti anti-sommossa, lacrimogeni, proiettili di gomma e colpi di arma da fuoco sparati in aria entrano nelle cronache egiziane come fu, a suo tempo, per quelle tunisine. Mohammed el-Baradei, ex direttore dell’Agenzia internazionale per l’Energia atomica e uno dei leader più rispettati dell’opposizione egiziana, rientra in tutta fretta al Cairo. Migliaia di manifestanti lo accolgono festanti all’aeroporto: cercano un volto per la rivoluzione. Il blocco delle comunicazioni. Il 28 gennaio entrano in scena i Fratelli musulmani. Con un tentativo maldestro di recuperare il ritardo di sensibilità, proclamano il "Venerdì della collera" e tentano di strutturare politicamente la rivolta. Il regime, intanto, non molla e con una reazione lenta e tardiva impone un blocco totale di Internet e telefonia. È la prima volta al mondo che un Paese intero viene completamente "sconnesso", isolato. La censura, peraltro efficacemente bypassata dai giovani della rete, suscita la violenta reazione della Comunità internazionale, Stati Uniti in testa, che chiedono alle autorità del Cairo di rimuovere immediatamente i blocchi. Mubarak tenta un’apertura nominando vice-presidente il capo dei Servizi segreti Omar Suleiman. Ma gli scontri proseguono. E il regime interviene con la mano pesante: 100 le vittime della repressione secondo fonti indipendenti, 300 secondo l’Onu. La "Marcia del milione". Il primo febbraio scendono in piazza al Cairo oltre due milioni di persone. La "Marcia del milione" segna la svolta nella rivolta egiziana: per la prima volta in trent’anni l’ipotesi che il "Faraone" se ne vada diventa una possibilità concreta. Piazza Tahrir è percorsa da un brivido quando viene annunciato un discorso di Mubarak alla nazione. Qualcuno pensa alle dimissioni. Non sarà così: il rais annuncia che non si ricandiderà alle elezioni di settembre, promette riforme, ma resta al suo posto. Il rischio guerra civile. In piazza cominciano a comparire i primi cortei pro-Mubarak. I fedelissimi del regime attaccano i manifestanti in piazza Tahrir. Almeno dieci persone muoiono negli scontri tra fazioni. Il rischio di una guerra civile attraversa il Paese. Il "Venerdì della partenza". Due milioni di persone tornano in piazza al Cairo. È il "Venerdì della partenza", anche se il presidente Hosni Mubarak non parte per nulla. Si dimettono però tutti i vertici del suo partito, il Pnd. Sono le prime crepe che sgretoleranno l’apparato. Suleiman tenta un dialogo con le opposizioni, annuncia due Commissioni indipendenti che faranno le riforme. Ma il rais resta dov’è. E la protesta si rafforza. I manifestanti si accampano in piazza Tahrir, determinati a non andarsene fino alle dimissioni del presidente. Il discorso alla nazione. Il 10 febbraio fonti ufficiali annunciano che alle 21 Mubarak parlerà alla nazione per annunciare le sue dimissioni. Piazza Tahrir esulta di gioia. Poi la doccia fredda. In tarda serata il rais compare in Tv: si dice pronto a cedere i poteri ma annuncia anche di voler restare al suo posto. Qualcuno parla di un messaggio registrato. Qualcuno dice che è solo un ultimo, estremo, tentativo di restare in sella. Ma la rabbia esplode tra i manifestanti. Si trasformerà in euforia il giorno dopo, quando verranno annunciate le dimissioni di Mubarak. La fine di un regno durato 30 anni. Una caricatura di Hosni Mubarak viene issata dai giovani su un semaforo nel centro del Cairo (Epa) Barbara Uglietti
12 febbraio 2011 MAGHREB Ora s'infiamma l'Algeria: manifestazioni e scontri nella capitale Scontri tra manifestanti e forze di sicurezza ad Algeri dove è in corso la protesta per chiedere le dimissioni del presidente Abdelaziz Bouteflika. Secondo quanto riferito da testimoni e giornalisti, ci sarebbero già stati alcuni arresti. L'opposizione e alcuni sindacati e gruppi della società civile hanno organizzato la protesta sfidando il divieto di manifestare nella capitale algerina in vigore dal 2001. Circa duemila dimostranti hanno forzato un cordone di polizia. Le autorità algerine hanno schierato un numero imponente di forze di sicurezza nel centro della città per impedire lo svolgimento della manifestazione. Già prima dell'inizio della protesta, convocata per le 11 nel centro della città, si erano registrati tafferugli tra gruppi di dimostranti e forze di sicurezza che avevano fermato diverse persone. La polizia ha schierato mezzi blindati e anti-sommossa a delimitare il centro della capitale algerina. Tra gli arrestati, vi sarebbe un alto esponente del movimento di opposizione Rcd, Othmane Maazouz, e la polizia avrebbe malmenato un 90enne, noto attivista per i diritti umani, Ali Yahia Abdelnour.
2011-02-11 11 febbraio 2011 SVOLTA IN EGITTO Mubarak si dimette Poteri all'esercito Dopo 30 anni ininterrotti al potere è finita l'era Mubarak in Egitto. Il vicepresidente Omar Suleiman ha annunciato che il presidente Hosni Mubarak si è dimesso e ha passato i poteri al Consiglio Supremo delle Forze Armate. Alla notizia piazza Tahrir, al Cairo, è esplosa in grida di giubilo. Centinaia di migliaia di persone festeggiano a piazza Tahrir, da dove si leva il coro "il popolo ha abbattuto il regime!". Suleiman, apparso sulla tv di stato spiegando che Mubarak "ha deciso rinunciare alla sua carica di presidente della Repubblica", ha aggiunto che con l'ultimo atto da presidente ha incaricato il Consiglio Supremo di Difesa (i militari) di gestire "il Paese nelle difficili circostanze che sta attraversando" Poche ore prima dell'annuncio, l presidente egiziano Hosni Mubarak aveva lasciato Il Cairo con la propria famiglia per raggiungere la propria residenza a Sharm el-Sheikh.
In mattinata si era riunito al Cairo il Consiglio Supremo delle Forze Armate egiziane: al ternine della riunione, l'esercito con un comunicato aveva decretato la fine dello stato di emergenza "una volta che saranno finiti i disordini", e si terrano elezioni libere e indipendenti. L'Esercito ha fatto appello perché "si torni a una vita normale": invitiamo "le persone nobili che hanno condannato la corruzione e chiedono le riforme", "a tornare a una vita normale", recita il comunicato. I militari si fanno inoltre garanti delle "riforme legislative e costituzionali" promesse dal presidente Hosni Mubarak. Il testo è stato letto alla Tv di Stato da uno speaker e non da un portavoce dell'esercito. Il palazzo è presidiato all'esterno dai manifestanti, che hanno impedito l'accesso ad alcuni ospiti previsti nei programmi mattutini, e costringendo la Tv a scusarsi per le assenze. Migliaia di dimostranti anti-governativi hanno presidiato piazza Tahrir al Cairo, così come altri luoghi sensibili della capitale, dal palazzo presidenziale alla sede della tv. I dimostranti, riferiscono i corrispondenti di al Jazira, hanno bloccato l'area di accesso al palazzo del Parlamento, poco distante da piazza Tahrir. Imponente la presenza anche nei pressi del palazzo della tv, visto dai dimostranti come uno dei simboli del potere del regime: centinaia di persone si aggirano nelle strade circostanti, avvolte ancora dalle coperte con cui hanno passato la notte. I manifestanti nella zona, sempre secondo al Jazira, superano già le 10-20 mila persone. SCONTRI NEL SINAI Una persona è morta e diverse altre sono rimaste ferite nell'attacco ad un commissariato a El Arish, località della penisola del Sinai prossima alla Striscia di Gaza. Lo ha riferito al Jazira, aggiungendo che un migliaio di persone ha attaccato la stazione di polizia con armi da fuoco, compreso un lanciagranate Rpg. La vittima è un manifestante. LA CRONACA DI GIOVEDI' H a parlato come "un padre che si rivolge alle giovani generazioni e accoglie le sue giuste domande", annunciando che trasferirà alcuni suoi poteri al vicepresidente,Omar Suleiman, ma non si capisce bene da quando. Il rais fa un passo indietro ma non si ritira del tutto, non dà le dimissioni ed orgogliosamente ribadisce che manterrà il suo mandato presidenziale fino a settembre, impegnandosi a garantire elezioni libere e corrette alle quali non si candiderà. Per questo procederà alla modifica di alcuni articoli della Costituzione. È disposto a togliere lo stato d’emergenza, "se ci saranno le condizioni". Ma, dice, "non accetterò diktat da altri Paesi e resterò qui nella mia terra fino alla morte". E, con aria contrita, afferma che il sangue dei martiri non è stato versato invano e che "i responsabili della repressione contro i dimostranti saranno puniti". Il discorso tanto atteso di Mubarak ha fatto esplodere la rabbia tra le decine di migliaia di dimostranti radunati in piazza Tahrir, dove fino a pochi istanti prima risuonavano le grida di giubilo. Grande era la delusione. "Vattene, vattene" è tornata a gridare la folla. La gente si è sentita presa in giro. Non solo da Mubarak, ma anche dal suo vice Suleiman, il quale dopo aver proclamato che "l’esercito proteggerà la rivoluzione dei giovani" ha invitato gli stessi a tornare a casa. A piazza Tahrir la gioia che era esplosa per molte ore nell’attesa dell’annuncio del presidente si è ben presto trasformata in sorda ribellione. La partita non è ancora conclusa, il braccio di ferro continua. Le prime anticipazioni del passo indietro di Mubarak erano arrivate nel pomeriggio. Lo aveva detto alla Bbc Hossan Badrawi, il neo-segretario generale del Pnd, il partito unico al potere. "Mi aspetto che il presidente risponda alle domande del popolo, perché alla fine ciò che conta per lui è la stabilità del Paese. La poltrona non gli interessa". Pare un epitaffio che sembra sancire la fine del presidente-Faraone. Lo conferma poco dopo anche il premier Ahmed Shafiq: "Mubarak è pronto a lasciare". Ma è sempre ai militari che bisogna rivolgersi per capire realmente cosa stia succedendo in queste ore convulse che segnano la fine di un’epoca. Nel pome- riggio la tv di Stato interrompe i programmi per dare voce ad un militare in uniforme. Faccia inespressiva e linguaggio burocratico, legge il Comunicato n.1 con cui il Consiglio superiore delle Forze armate, riunito in seduta d’emergenza, annuncia "l’avvio delle misure necessarie per proteggere la nazione e sostenere le legittime richieste del popolo". Traduzione: ci siamo assunti noi il compito di defenestrare il rais, come chiedevano i dimostranti. Strana riunione che vede l’assenza del Comandante supremo dell’esercito, il presidente Mubarak, e del suo vice Suleiman. Il Consiglio, viene spiegato, "ha deciso di rimanere riunito in sessione permanente per esaminare le decisioni che possono essere prese al fine di proteggere la nazione, le conquiste e le ambizioni del grande popolo d’Egitto". L’ombra del colpo di Stato cala sulla piazza. C’è chi continua a far festa e a cantare: "Il popolo voleva la caduta del regime ed il regime è caduto". Ma c’è chi inizia a gridare: "Non vogliamo un governo militare". Per la prima volta dall’inizio delle protesta la piazza è divisa. "Non ho voglia di far festa, sono molto preoccupato. Temo un golpe. A questo punto il problema non è il presidente ma il regime". Nel frattempo s’inseguono voci e smentite sulla sorte di Mubarak che varie fonti dell’opposizione danno in viaggio verso la sua residenza estiva sul mar Rosso, a Sharm-el-Sheikh. Una conferma, anonima, giunge dall’aeroporto militare. Altre fonti sostengono che il rais stia fuggendo all’estero. Poi l’ultimo colpo di scena: Mubarak spiega che non ha alcuna intenzione di lasciare l’Egitto. In queste ore di grande confusione ogni scenario è possibile. Ma è probabile che la protesta non si fermi. Già ieri era diventata sempre più vasta e massiccia con medici, avvocati, operai e impiegati statali, tutti uniti in uno sciopero generale. "Per salari più dignitosi e per la libertà", era lo slogan. Al Cairo il traffico, solitamente caotico, è rimasto completamente bloccato per lo sciopero dei mezzi pubblici. "Se va avanti così dovrà intervenire l’esercito ", aveva minacciato il ministro degli Esteri, Aboul Gheit. Brutti presentimenti gravano sul futuro dell’Egitto.
11 febbraio 2011 L'esercito prende le redini Il vero padrone Mubarak fa un altro passo indietro, pensa di trasferire alcuni suoi poteri al vice-presidente Omar Suleiman, ma non intende dimettersi. La vicenda egiziana è sempre più ingarbugliata, alla fine di una giornata drammatica, vissuta con il fiato sospeso dopo l’annuncio di una svolta che aveva galvanizzato la piazza. E che alla fine lascia la folla con la delusione di dimissioni che non sono arrivate. Eppure, è già possibile trarre qualche lezione. L’arbitro che ha deciso di cercare di mettere fine alla lunga e drammatica partita, apertasi il 25 gennaio tra il raìs ed il movimento di protesta, è l’esercito. Anche se la parola fine non è stata scritta. La rivolta, generata dalla profondità dello spazio virtuale della rete e dei social netwok, è dilagata in tutto il Paese. Un popolo costretto per tanti anni al mutismo ha alzato la voce gridando la sua voglia di libertà. È il trionfo di quella che è stata chiamata "la Repubblica di piazza Tahrir", la roccaforte della protesta dove per 17 giorni, nonostante i ricatti del governo e gli attacchi sanguinosi dei miliziani del partito unico di regime, è andato in onda l’incredibile spettacolo della democrazia, un happening variopinto cui hanno preso parte studenti in jeans e contadini in tunica, ragazze vestite all’ultima moda occidentale e donne col velo integrale, cristiani e musulmani, tutti insieme per chiedere verità e dignità, libertà e giustizia sociale. Di fronte a questa pressione dal basso la piramide del presidente-Faraone ha cominciato a perdere pezzi, in una confusa e tardiva perestrojka che però non ha investito del tutto il potere del vecchio leader, ostinatamente attaccato alla poltrona. La sua promessa di non candidarsi alle prossime elezioni di settembre è stata accompagnata dalla pretesa di rimanere a guidare il processo di transizione, contando sull’appoggio internazionale e sulle divisioni dell’opposizione. Intanto dagli Stati Uniti giungevano messaggi ambigui, con un portavoce che contraddiceva un altro. Un balletto che allargava la distanza tra il gioco politico (anche, e inevitabilmente, diplomatico e internazionale) e l’Egitto reale. Il movimento di protesta è rimasto infatti compatto nel chiedere le immediate dimissioni di Mubarak. Un braccio di ferro insostenibile per il più grande Paese del mondo arabo il cui leader, cocciuto e orgoglioso, è ormai un ostacolo da rimuovere per tanti, quasi tutti. In che modo? La risposta è stata abbozzata dall’esercito, i cui vertici sono apparsi in tv annunciando "l’avvio di misure necessarie per proteggere la nazione e sostenere le legittime richieste del popolo", una formula che ricalca i messaggi con cui nel mondo arabo sono spesso iniziati i colpi di Stato. Più delle parole sono state eloquenti le immagini: l’intero Stato maggiore riunito, ad eccezione del comandante supremo, Hosni Mubarak appunto. È stato evitato, probabilmente, lo scenario peggiore, quello di una repressione sanguinosa. A meno che la piazza, delusa, tenti la spallata finale. Mubarak resta come un simulacro vuoto, sotto la tutela dell’esercito, vero padrone della situazione. Le Forze armate si confermano l’arbitro principale del durissimo bracco di ferro tra la protesta polare e il vecchio raìs. Piazza Tahrir ha visto in poche ore trasformare la sua gioia in rabbia e delusione. E oggi sarà un altro venerdì di collera. Una collera sempre più grande. Luigi Geninazzi
11 febbraio 2011 IL REGIME DEGLI AYATOLLAH Teheran teme l’effetto Egitto Karrubi finisce agli arresti L’Onda verde, in piazza, farà a meno del suo leader. Mehdi Karrubi, capo dell’opposizione iraniana al governo, è stato arrestato ieri, nella sua casa di Teheran, alla vigilia del 32esimo anniversario della Rivoluzione islamica, che cade oggi. La conferma è stata data dal figlio stesso di Karrubi, su SahamNews , il sito dei democratici anti- governativi. Karrubi, insieme a Mir-Hossein Mussavi, altro leader dell’opposizione, stavano organizzando per il 14 febbraio una manifestazione nella capitale a sostegno delle rivolte in Egitto e Tunisia. Il figlio di Karrubi, che per primo ha diffuso la notizia, sarebbe stato fermato davanti la casa del padre da un gruppo di agenti della sicurezza che da tempo vi stazionano per attività di osservazione. Gli sarebbe stato intimato di non entrare in casa, dove Karrubi si troverebbe agli arresti domiciliari; l’unica persona a cui non sia stato dato il divieto d’accesso fino al 14 febbraio è la moglie del leader dell’opposizione. Già due giorni fa i Pasdaran avevano messo in guardia l’opposizione dalla tentazione di ritornare in piazza il 14 febbraio e i siti anti-governativi davano notizia dell’arresto di altri due politici: il collaboratore di Karrubi, Taghi Rahmani, e Mohammad Hossein Sharifzadegan, ex ministro nel governo del presidente riformista Mohammad Khatami e membro dell’ufficio elettorale di un altro leader dell’opposizione. Da mesi Karrubi e Mussavi denunciano di trovarsi nel mirino del governo, sottoposti a un regime di stretta sorveglianza, controllo dei loro movimenti e limitazione degli incontri con i loro sostenitori. Ieri, la notizia dell’arresto, dopo che il procuratore generale, Gholamhossein Mohseni-Ejei ha accusato i due leader dell’opposizione di volere creare "divisioni" all’interno del Paese con la manifestazione prevista per il 14 febbraio. Il governo iraniano, in questi giorni, ha sostenuto le proteste in Tunisia e, soprattutto, in Egitto, paragonando Hosni Mubarak allo scià Reza Pahlavi e le proteste in piazza Tahrir allo stesso movimento di Liberazione che segnò la nascita, 32 anni fa, della Repubblica islamica.
Ma Karrubi ha spostato l’asse della propaganda sulle contestatissime elezioni presidenziali del 2009, la cui validità aveva duramente contestato insieme a Mussavi, accusando il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad di brogli. E le sue parole, nei giorni scorsi, riferite al governo, avevano il segno di una vera e propria sfida: "Se non daranno il permesso al loro stesso popolo di protestare, ciò andrà contro quello che dicono a sostegno della rivoluzione in Egitto". Karrubi e Mussavi hanno anche insistito sulla dimostrazione di forza di entrambi i regimi, affermando che "l’arresto di manifestanti e l’uccisione di giovani uomini e donne, nelle strade e nelle prigioni non hanno potuto salvare gli autoritari dalla perdita della fiducia della popolazione ". Come dire che, alla rabbia, alla "hogra" delle popolazioni del Mahgreb nei confronti di una elite di potere e, per esteso, ai persiani della Repubblica iraniana, la repressione fa un baffo rispetto alla possibilità di ritornare in piazza. Nel Paese dell’ex scià, comunque, il malcontento, rispetto alla politica interna, è alto. Dal giugno 2007 il Paese raziona la benzina per auto, nel timore di nuove sanzioni Onu. E dalla fine di dicembre 2010 è duramente provata da una riforma economica che ha tagliato i sussidi pubblici che mantenevano artificiosamente basso il prezzo del carburante (11 centesimi di dollaro al litro, paria a mille rial nel 2007), quadruplicandolo. Le sanzioni Onu sono arrivate e l’Onda verde, che ha dimostrato per prima l’efficacia dei social network nelle sollevazioni di massa, guarda all’Egitto e alle proprie tasche, non dimentica Nasser e preme. Laura Silvia Battaglia
2011-02-10 10 febbraio 2011 IL CAIRO, Egitto alla svolta: "Mubarak potrebbe dimettersi domani" Il presidente egiziano "Hosni Mubarak potrebbe lasciare la presidenza della repubblica". È quanto ha annunciato il premier Ahmed Shafiq, citato dalla tv satellitare "al-Arabiya". "La situazione - ha spiegato - potrebbe risolversi presto".
9 febbraio 2011 IL PAESE IN RIVOLTA Egitto, tre morti in scontri nel sud Al Qaeda: ora la "guerra santa" È di almeno tre morti e circa cento feriti il bilancio ancora provvisorio di scontri tra manifestanti anti-governativi e forze di sicurezza in corso da ieri a el-Kharga, un'oasi situata oltre 400 chilometri dal Cairo, nel governatorato sud-occidentale egiziano di al-Wadi al-Jadid, noto anche come New Valley. Lo hanno riferito fonti di polizia, che hanno giustificato il ricorso alle armi con il pericolo di essere sopraffatti dalla folla. Le tre vittime sono decedute in ospedale. Dopo la reazione degli agenti in assetto anti-sommossa, i dimostranti hanno assaltato e dato alle fiamme diversi uffici pubblici, tra cui due commissariati, una caserma, un tribunale e la sede locale del Partito Democratico Nazionale, al potere da un trentennio e facente capo al presidente Hosni Mubarak. Si tratta del primo scontro serio tra poliziotti e contestatori del regime negli ultimi giorni: dopo gli attacchi contro i manifestanti del 28 gennaio, la Giornata della Rabbia, era sembrato che le forze dell'ordine fossero praticamente scomparse dalle strade in ogni parte dell'Egitto, e il controllo della situazione fosse passato all'esercito, mantenutosi fino ad allora neutrale. MANIFESTAZIONI AL CAIRO Circa diecimila manifestanti anti-regime si sono riuniti questa mattina davanti alla sede dell'Assemblea del popolo (Camera) al Cairo, e più o meno altrettanti davanti alla casa del premier, generale Ahmed Shafik. Altri gruppi di manifestanti hanno raggiunto anche la sede del ministero degli Interni e della presidenza del Consiglio dei ministri. E migliaia di manifestanti anti-Mubarak hanno trascorso la notte accampati nella "tendopoli" che ha occupato tutti i prati e le aiuole della gigantesca piazza Tahrir al Cairo e attorno ai carri armati dell'esercito. Dopo le grandi manifestazioni di ieri, che si sono estese in diverse città in tutto l'Egitto, stamani, nel 16.mo giorno della "Rivoluzione sul Nilo", piazza Tahrir appare tranquilla nelle immagini trasmesse in diretta dalle tv, fra cui Al Jazira International. "Non siate stanchi, non siate stanchi. La libertà non è stata ancora liberata", scandiva un manifestante con l'altoparlante mentre la popolazione di oppositori "accampati" si svegliava. Diversi militanti jihadisti facenti capo ad Al Qaida sono fra le migliaia di detenuti evasi dalle carceri in Egitto durante i disordini di queste settimane, secondo il vicepresidente egiziano, Omar Suleiman. Parlando ai giornalisti, Suleiman ha detto che le forze di sicurezza e di intelligence egiziane avevano "compiuto sforzi notevoli per ottenere l'estradizione in Egitto di militanti (islamici) dall'estero", di membri di "organizzazioni jihadiste... legati a leader esterni, in particolare ad Al Qaida". Si tratta, ha aggiunto Suleiman, di combattenti che non hanno rinunciato alla loro ideologia o alla violenza. Ora, ha detto il vicepresidente egiziano, "ci vorrà molto lavoro per riportarli in carcere". Il sedicente Stato Islamico dell'Iraq, branca irachena di al-Qaeda, ha chiamato alla jihad i manifestanti anti-governativi che da più di due settimane protestano contro il presidente Hosni Mubarak, e li ha esortati a battersi per l'instaurazione di un regime fondato sulla sharia, la legge coranica: l'appello è contenuto in un messaggio apparso nelle ultime 24 ore su diversi siti filo-integralistici di Internet, ed è stato intercettato dagli specialisti di Site, gruppo di monitoraggio anti-terrorismo on-line con sede negli Stati Uniti. Si tratta della prima reazione conosciuta di un qualche movimento comunque affiliato a al-Qaeda rispetto agli avvenimenti in corso in Egitto. Nel messaggio si afferma che nel Paese nord-africano "si è aperto il mercato della guerra santa", alla quale debbono partecipare tutti gli uomini in grado di combattere, e che si sono altresì "schiuse le porte del martirio". I dimostranti egiziani sono quindi invitati a non lasciarsi tentare dalle "vie ingannevoli e brute" del secolarismo, della democrazia e del "marcio nazionalismo pagano", in quanto "la vostra Jihad è a sostegno dell'Islam, degli egiziani deboli e degli oppressi, del "vostro popolo in Iraq e a Gaza", e "a favore di ogni musulmano che sia stato raggiunto dall'oppressione del tiranno d'Egitto e dei suoi padroni a Washington e a Tel Aviv". Segue l'offerta di "sette consigli" per costringere Mubarak alla caduta, e per assicurarsi che nessuno di coloro che fanno parte della sua cerchia possa mantenere il potere.
2011-02-09 9 febbraio 2011 IL PAESE IN RIVOLTA Proclama di al-Qaeda: egiziani, battetevi per la sharia Circa diecimila manifestanti anti-regime si sono riuniti questa mattina davanti alla sede dell'Assemblea del popolo (Camera) al Cairo, e più o meno altrettanti davanti alla casa del premier, generale Ahmed Shafik. Altri gruppi di manifestanti hanno raggiunto anche la sede del ministero degli Interni e della presidenza del Consiglio dei ministri. E migliaia di manifestanti anti-Mubarak hanno trascorso la notte accampati nella "tendopoli" che ha occupato tutti i prati e le aiuole della gigantesca piazza Tahrir al Cairo e attorno ai carri armati dell'esercito. Dopo le grandi manifestazioni di ieri, che si sono estese in diverse città in tutto l'Egitto, stamani, nel 16.mo giorno della "Rivoluzione sul Nilo", piazza Tahrir appare tranquilla nelle immagini trasmesse in diretta dalle tv, fra cui Al Jazira International. "Non siate stanchi, non siate stanchi. La libertà non è stata ancora liberata", scandiva un manifestante con l'altoparlante mentre la popolazione di oppositori "accampati" si svegliava. Diversi militanti jihadisti facenti capo ad Al Qaida sono fra le migliaia di detenuti evasi dalle carceri in Egitto durante i disordini di queste settimane, secondo il vicepresidente egiziano, Omar Suleiman. Parlando ai giornalisti, Suleiman ha detto che le forze di sicurezza e di intelligence egiziane avevano "compiuto sforzi notevoli per ottenere l'estradizione in Egitto di militanti (islamici) dall'estero", di membri di "organizzazioni jihadiste... legati a leader esterni, in particolare ad Al Qaida". Si tratta, ha aggiunto Suleiman, di combattenti che non hanno rinunciato alla loro ideologia o alla violenza. Ora, ha detto il vicepresidente egiziano, "ci vorrà molto lavoro per riportarli in carcere". Il sedicente Stato Islamico dell'Iraq, branca irachena di al-Qaeda, ha chiamato alla jihad i manifestanti anti-governativi che da più di due settimane protestano contro il presidente Hosni Mubarak, e li ha esortati a battersi per l'instaurazione di un regime fondato sulla sharia, la legge coranica: l'appello è contenuto in un messaggio apparso nelle ultime 24 ore su diversi siti filo-integralistici di Internet, ed è stato intercettato dagli specialisti di Site, gruppo di monitoraggio anti-terrorismo on-line con sede negli Stati Uniti. Si tratta della prima reazione conosciuta di un qualche movimento comunque affiliato a al-Qaeda rispetto agli avvenimenti in corso in Egitto. Nel messaggio si afferma che nel Paese nord-africano "si è aperto il mercato della guerra santa", alla quale debbono partecipare tutti gli uomini in grado di combattere, e che si sono altresì "schiuse le porte del martirio". I dimostranti egiziani sono quindi invitati a non lasciarsi tentare dalle "vie ingannevoli e brute" del secolarismo, della democrazia e del "marcio nazionalismo pagano", in quanto "la vostra Jihad è a sostegno dell'Islam, degli egiziani deboli e degli oppressi, del "vostro popolo in Iraq e a Gaza", e "a favore di ogni musulmano che sia stato raggiunto dall'oppressione del tiranno d'Egitto e dei suoi padroni a Washington e a Tel Aviv". Segue l'offerta di "sette consigli" per costringere Mubarak alla caduta, e per assicurarsi che nessuno di coloro che fanno parte della sua cerchia possa mantenere il potere.
2011-02-05 5 febbraio 2011 IL PAESE AL BIVIO Egitto ancora in piazza Esplode un gasdotto Un'esplosione è avvenuta stamane in un gasdotto nei pressi della cittadina egiziana di El Arish, nel nord del Sinai."È un atto di sabotaggio". Lo hanno detto fonti del governatorato del nord Sinai, spiegando che l'esplosione di questa mattina non ha provocato né vittime né feriti perché l'installazione è distante dal centro abitato. Le fonti hanno spiegato anche che l'incendio che è scoppiato dopo l'esplosione è stato domato. Intanto, in seguito all'esplosione nel gasdotto, è stato sospeso il flusso di gas verso Israele. Intanto il premio Nobel per la pace ed ex direttore generale dell'Agenzia atomica internazionale Aiea, Mohammed el-Baradei, ha confermato in un'intervista alla Cnn di essere pronto a guidare l'Egitto. "Io voglio vedere questo Paese muoversi verso la democrazia, una democrazia basata sulla giustizia sociale", ha premesso el Baradei. "In ogni modo, se il popolo mi chiede di guidare il Paese, io non lo abbandonerò", ha assicurato. Il Medio Oriente sta attraversando una "tempesta perfetta" e i leader della regione devono rapidamnente avviare vere riforme democratiche altrimenti il rischio è di instabilità ancora maggiore, secondo il Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton. "La regione è scossa da una tempesta perfetta di potenti tendenze", ha detto Hillary Clinton durante il suo intervento alla conferenza internazionale sulla sicurezza in corso a Monaco di Baviera, "È questo che ha spinto i manifestanti nelle strade di Tunisi, del Cairo e di città in tutta la regione. Lo status quo semplicemente non è sostenibile".
5 febbraio 2011 IL FRONTE INTERNAZIONALE Obama liquida il faraone ed elegge Suleiman rais Una manovra di accerchiamento, una trattativa serrata per costringere Mubarak a capitolare. Un lavoro dietro le quinte che, significativamente, non deve restare troppo segreto. L’altra notte la Casa Bianca fa filtrare la notizia di una serie di colloqui con "autorità egiziane" per valutare una "varietà di modi differenti" per giungere all’uscita di scena di Hosni Mubarak e formare un governo di transizione. Una trattativa che lascia intendere contatti diretti di Washington con il vice presidente Omar Suleiman e un pressing serrato sui più stretti collaboratori del rais egiziano perché lo convincano ad uscire di scena. La prima conferma della nuova strategia di Washington, dopo il fallimento dell’inviato speciale Usa Frank Wisner, giunge da fonti anonime americane ed egiziane raccolte dal New York Times: Mubarak dovrebbe cedere il potere a un governo di transizione guidato dal vicepresidente Omar Suleiman con la supervisione delle forze armate e il beneplacito dei Fratelli Musulmani, con cui la Casa Bianca ha aperto diversi canali di comunicazione. Questa, nel concreto, la "transizione immediata" chiesta più volte dal presidente statunitense. E non è certo un caso che la Abc, la tv più vicina alla Casa Bianca, sia riuscita ieri ad intervistare per prima Suleiman. In serata, poi, la conferma ufficiale dello stesso Barak Obama: in Egitto "sono iniziate le discussioni" per giungere subito a una transizione politica che deve portare a elezioni "libere e giuste". "Inaccettabile" per il presidente Obama ogni violenza contro chi protesta pacificamente come contro la stampa mentre "il ritorno ai vecchi metodi non funzionerà". E soprattutto, Mubarak "deve ascoltare il suo popolo". Vale a dire andarsene. La proposta del Comitato dei saggi egiziani al vice presidente Suleiman di assumere il potere doveva essere ancora formulata, quando nel pomeriggio a Bruxelles inizia il vertice dei capi di stato e di governo della Ue dedicato anche alla crisi nel Nord Africa. "La transizione in Egitto deve cominciare ora", afferma la dichiarazione conclusiva dei Ventisette. Anche da parte loro un colpo sull’acceleratore se nella bozza preparatoria i leader europei chiedevano una "transizione rapida". Nel testo finale non viene mai citato il presidente Mubarak, ma il consiglio dell’Ue chiede moderazione alle parti in lotta e alle autorità egiziane che "vengano soddisfatte le aspirazioni del popolo egiziano con riforme politiche, non con la repressione". Un testo approvato anche dal premier italiano Silvio Berlusconi che tuttavia, prima del vertice, aveva auspicato una transizione democratica "senza rotture con il presidente Mubarak, che in tutto l’Occidente, Stati Uniti in testa, è considerato l’uomo più saggio e un punto di riferimento preciso". Spetterà all’alto rappresentante Ue, Catherine Ashton, mettere a punto un pacchetto di misure e a recarsi presto in Egitto e Tunisia per appoggiare la transizione. Solo la Russia si smarca criticando l’Onu per non aver rispettato la sovranità del Cairo. Intanto l’Egitto sembra aver trovato un traghettatore. Luca Geronico
5 febbraio 2011 LA SVOLTA Egitto, la piazza vince: "Fuori" Mubarak Cantano, danzano, si abbracciano in un clima di festa sulla grande piazza della Liberazione, tornata a riempirsi di una folla oceanica convocata per "il giorno della partenza" di Mubarak. Il giubilo è alle stelle quando si diffonde la notizia (falsa) delle dimissioni del rais. Ma è vero che il suo potere è ormai un vuoto simulacro, e a voler imbalsamare il presidente-Faraone sono proprio i suoi più stretti collaboratori. Dopo l’ultimatum della piazza ieri sera è giunto un suggerimento più che autorevole da parte del "Comitato dei saggi" (composto da un folto gruppo di personalità del mondo politico economico e culturale egiziano) per una passaggio morbido delle prerogative presidenziali nelle mani del vice, Omar Suleiman, lasciando all’82nne leader un potere formale. Lui per il momento resta. Ma anche il movimento di protesta che ha preso il via il 25 gennaio non dà segni di cedimento. Sembra un flash-back di martedì scorso, stessa gente e stessa richiesta. Come se qualcuno avesse girato l’interruttore cancellando in un colpo solo le terribili immagini di violenze e di scontri che fino all’altra sera erano sotto i nostri occhi. Già, che fine hanno fatto le squadracce di energumeni e di miliziani in borghese che per 48 ore avevano seminato il terrore? Di loro non c’è più traccia, almeno nel centro della capitale. L’esercito, sia pur tardivamente, ha preso in mano la situazione. Militari in tenuta antisommossa si schierano attorno alla piazza dove, in prima mattinata, era venuto a controllare le misure di sicurezza il ministro della Difesa Hussein Tantawi. Cavalli di frisia, filo spinato e nuovi check-point sono stati predisposti attorno agli alberghi ed ai luoghi sensibili. "Siamo qui per proteggervi, i sostenitori del governo non entreranno", è il messaggio che i soldati scandiscono con gli altoparlanti, mentre all’esterno gruppi di sostenitori di Mubarak iniziano a radunarsi per celebrare "il giorno della fedeltà" al vecchio rais. In serata i due schieramenti si sfiorano, l’esercito spara in aria per dissuadere i più facinorosi. E, incredibilmente, procede ad alcuni arresti tra i miliziani filo-regime. Sono poche migliaia i fans di Mubarak che si ritrovano in piazza Talaat Harb, non lontano dal luogo simbolo della rivolta, piazza Tahrir. Qui sono centinaia di migliaia, qualcuno dice addirittura due milioni, mentre ad Alesssandria sarebbero un milione. È la "Rivoluzione del loto" che fa seguito alla "Rivoluzione dei gelsomini" scoppiata in Tunisia, scrive il più importante quotidiano egiziano al-Ahram". La gente si mette pazientemente in fila nei pochi punti d’accesso alla piazza dove il servizio d’ordine è garantito dai Fratelli musulmani", la forza d’opposizione radicale, quella che ha presidiato la roccaforte della protesta resistendo all’assalto delle squadre pro-Mubarak. Ma oggi nessuno fa caso ai mucchi di pietre divelte dal selciato che possono sempre servire come armi di difesa. "Noi non ce ne andiamo, sei tu che te ne devi andare!" è lo slogan più ripetuto all’indirizzo di Mubarak, sullo sfondo di un gigantesco cartellone con la scritta "Game over". Un membro del clero islamico tiene il sermone dopo la preghiera di mezzogiorno, ricordando che "questa è una manifestazione nazionale dove si ritrovano uniti musulmani e cristiani". Ad Alessandria, la città segnata dalle violenze contro la Chiesa copta, un lungo corteo si snoda fino alla moschea di Al Kaed Ibrahim. E mentre i musulmani sono raccolti in preghiera, molti cristiani, presenti alla manifestazione anti-Mubarak, formano una catena umana a loro difesa. Al Cairo prende la parola Mohammed el-Tahtawy, portavoce dell’università al-Zahar, faro culturale dell’islam sunnita, annunciando le sue dimissioni e il suo sostegno alla rivoluzione. La presenza più significativa è quella di Amr Moussa, il segretario generale della Lega Araba venuto qui ad incontrare i leader della protesta. Moussa sta cercando di mediare tra dimostranti e governo e non nasconde di aspirare a un ruolo di prestigio in un futuro governo di transizione. A una domanda circa una sua possibile candidatura alla prossime elezioni presidenziali il politico egiziano risponde: "Perché no?", aggiungendo che un esecutivo di salvezza nazionale non potrà lasciar fuori i rappresentanti dei "Fratelli musulmani". No è l’unica "candidatura" della giornata, la sua. Perché in serata, dopo ripetute smentite, anche Mohammed el-Baradei, premio Nobel per la pace ed ex direttore generale dell’Agenzia atomica internazionale (Aiea), si dice pronto a diventare presidente "se il popolo lo chiederà". Intanto, secondo la tv al-Arabiya il vice-presidente Omar Suleiman avrebbe accolto l’idea avanzata dal "Comitato dei saggi" e sarebbe pronto ad assumere le prerogative del capo dello Stato in base all’art. 139 della Costituzione egiziana. L’ex capo dei servizi segreti, nominato recentemente vice di Mubarak, si sta dando molto da fare. In un’intervista alla tv americana Abc ha lasciato intendere che occorre trovare una via d’uscita dignitosa al vecchio rais, venendo incontro al suo desiderio espresso l’altra sera. "Sono stanco ma non posso lasciare il mio posto con questo caos", aveva dichiarato. Ma "è improbabile che il presidente rimanga solo con un ruolo formale", commenta il premier Shafiq. Preme la piazza, premono gli Stati Uniti, si alambiccano i consiglieri del sovrano. Tutti danno per scontata la fine imminente dell’era Mubarak. Luigi Geninazzi
2011-02-04 4 febbraio 2011 UN PAESE AL BIVIO Egitto, dalla Ue sostegno a "transizione rapida e ordinata" Cresce il pressing americano su Mubarak affinché il presidente egiziano lasci subito l'incarico. In nottata l'amministrazione Obama ha fatto filtrare la notizia che sta discutendo con "autorità egiziane" non meglio precisate una serie di opzioni che prevedono l'immediata uscita di scena di Hosni Mubarak e la formazione di un Governo di transizione. Una calma tesa, dopo le violenze e le intimidazioni di ieri e una notte relativamente tranquilla, regna al Cairo nella mattina del venerdì di preghiera che l'opposizione, che per 10 giorni ha tenuto la piazza, spera di trasformare in quella che ha convocato come la "giornata della partenza" di Mubarak, portando in strada almeno un milione di persone. Nel centro della capitale egiziana comincia a radunarsi qualche manifestante, sfidando il coprifuoco, secondo al Jazira International. Quest'ultima ha ascoltato in diretta una manifestante da Piazza Tahrir, che ha raccontato del clima di "eccitazione" per la giornata. La tv al Jazira ha detto che il segretario generale della Lega Araba è - per la prima volta dall'inizio delle manifestazioni anti Mubarak - in piazza Tahrir al Cairo, insieme con decine di migliaia di dimostranti.Secondo la 'radio della piazzà - una emittente sorta spontaneamente qualche giorno fa per raccogliere le voci della protesta di piazza Tahrir - Amr Moussa si starebbe preparando a tenere un discorso. Le comunicazioni non sono bloccate come alcuni giorni fa e che gli oppositori usano soprattutto i social network come Facebook e Twitter. I giornalisti, per lo più ormai relegati negli alberghi dopo gli arresti e le intimidazioni di ieri, temono di non poter garantire una copertura adeguata degli eventi. "Pieno sostegno" della Ue a un processo di "transizione ordinata e rapida" in Egitto e un forte impegno per completare la difesa dell'euro, rafforzando l'integrazione e la governance economica. Su queste due questioni si è concentrata l'attenzione dei leader della Ue, oggi a Bruxelles. Nella bozza di conclusioni, l'Europa ripete l'appello alle autorità egiziane perchè vengano evitate nuove violenze e si avvii subito un processo di riforme per rispondere alle domande del popolo. "Il dialogo con tutte le opposioni è assolutamente essenziale", ha detto al suo arrivo l'Alto rappresentante della politica estera della Ue Catherine Ashton, incaricata dai leader di mettere a punto un pacchetto di misure per aiutare il processo riformatore e democratico dell'Egitto e lo svolgimento di "libere e giuste" elezioni. Il premier Silvio Berlusconi ha auspicato che "si possa avere continuità di governo" nella transizione,
MUBARAK NON CEDE, ALTRI MORTI AL CAIRO Non accenna a spegnersi l’incendio che sta bruciando l’Egitto, vicino alla guerra civile, nonostante l’intervento di autorevoli "pompieri" come il primo ministro Shafiq e il vice presidente Suleiman. Gli scontri tra i sostenitori di Mubarak e i dimostranti anti-regime asserragliati in piazza Tahrir sono proseguiti anche ieri non più con sassi e bastoni ma con molotov e armi automatiche. E i cecchini appostati sui tetti, che hanno sparato sulla folla. Un’altra giornata di sangue dopo una notte segnata dal crepitio delle mitragliette che è andato avanti per due ore, intervallato dai cupi rimbombi dei colpi sparati verso il Nilo dai carri armati dell’esercito per scoraggiare i due schieramenti. La battaglia è ripresa la mattina e i professionisti della violenza, aiutati dagli agenti in borghese delle squadre filo-governative, sembrano aver avuto la meglio sui giovani dell’opposizione che a stento hanno presidiato il luogo-simbolo della protesta, e che hanno dovuto ritirarsi nelle strade adiacenti sotto il fuoco nemico. Il ministero della Sanità parla di 13 morti e 1200 feriti, numeri che inevitabilmente tenderanno a crescere. Tra le vittime c’è anche uno straniero di cui non si conosce ancora l’identità. Nel mirino ci sono soprattutto i giornalisti, molti dei quali sono stati picchiati e sequestrati dalle squadracce del rais, oppure arrestati dalla polizia. Le autorità hanno anche proceduto al fermo di alcuni attivisti dei diritti umani, tra i quali Daniel Williams, marito della giornalista italiana Lucia Annunziata, inviato al Cairo dell’organizzazione "Human Right Watch". "Il governo egiziano non deve prendersela coi giornalisti che fanno il loro lavoro", è il monito lanciato dal portavoce della Casa Bianca, Robert Gibbs. Nel Paese la tensione resta alta e persino il personale dell’Onu, circa 600 delegati, sta lasciando l’Egitto per trasferirsi "temporaneamente" a Cipro. Intanto l’esercito, dopo essere stato spettatore passivo, è riuscito a creare una zona-cuscinetto tra i due fronti, e per questo è stato subito accusato dai fans di Mubarak di aver preso le difese dei dimostranti. Se la battaglia sul terreno è sempre più aspra, nelle stanze del potere sta prendendo forma un atteggiamento più conciliante nei riguardi del movimento di protesta, giunta ieri al decimo giorno. Nel tentativo di riportare la calma è intervenuto dapprima il capo del nuovo governo, Ahmed Shafiq, che si è detto pronto ad andare in piazza per discutere con i manifestanti. Il premier ha ammesso di essere stato sorpreso dall’ondata di violenze di queste due giornate e ha chiesto scusa. "Si è trattato di un errore fatale", ha detto in una conferenza stampa promettendo un’inchiesta governativa. Ha negato però che dietro gli incidenti ci sia la regìa delle autorità. poi, nel pomeriggio, per la prima volta da quando è stato nominato vice-presidente, ha fatto sentire la sua voce anche il numero due di Mubarak, l’ex capo dei servizi segreti Omar Suleiman che ha annunciato una ripresa di contatti con l’opposizione. La sua apertura è stata seccamente respinta sia da Mohamed el-Baradei che dai Fratelli musulmani, i quali hanno ribadito la richiesta di sempre e cioè che prima di sedersi al tavolo delle trattative se ne deve andare il rais. Suleiman ha anche dichiarato che le elezioni presidenziali, previste per settembre, saranno anticipate di un mese e ha assicurato che non vedranno candidati né Hosni Mubarak né suo figlio Gamal, l’erede designato. E come gesto di buona volontà ha annunciato la liberazione di tutti i prigionieri politici. Mentre sarà proibito l’espatrio dei ministri sotto accusa per corruzione o per atti di repressione, come l’ex titolare degli Interni. Ma evidentemente alla folla non è bastato. E, in serata, si è fatto sentire Mubarak. "Mi dimetterei, se potessi, ma temo che il Paese precipiterebbe nel caos", ha detto il presidente in un’intervista alla corrispondente della Ab, Christiane Amanpour. Un segno di cedimento, o forse solo l’ultimo tentativo di restare in sella. Il Faraone, al potere dal 1981, ha accusato i Fratelli Musulmani di essere i responsabili di questa rivolta. Ha preso, ancora una volta, le difese dei suoi fedelissimi. "Sono molto scontento di quello che è successo ieri. Non voglio vedere gli egiziani combattersi tra di loro". Ha replicato alle critiche di Obama: "Tu non capisci la cultura egiziana, non sai cosa capiterebbe se io lasciassi ora", ha detto. Ha cercato di convincere un Paese che gli sta sfuggendo di mano. Lo stesso, "non scapperò mai – ha concluso il presidente Mubarak–. Morirò in questa terra". Luigi Geninazzi
2011-02-03 3 febbraio 2011 EGITTO AL BIVIO Al Cairo si spara ancora Assalto all'hotel dei giornalisti Sostenitori del presidente egiziano Hosni Mubarak hanno aperto oggi il fuoco sui manifestanti in piazza Tahrir al Cairo, dove gli scontri hanno causato sei morti e oltre 800 feriti in una nuova ondata di violenze. Gli scontri sono iniziati alle 4 ora locale (le 3 in Italia), ma la tv Al Arabiya ha fatto sapere che altri colpi d'arma da fuoco sono stati avvertiti anche nel primo pomeriggio. L'opposizione ha risposto agli attacchi rinnovando la richiesta che Mubarak lasci la guida del paese e anche i leader Ue hanno chiesto una rapida transizione verso un nuovo governo. Migliaia di oppositori del regime si sono barricati nella piazza centrale del Cairo, annunciando che resteranno fino a che il presidente non se ne andrà. Ma per la prima volta, oggi l'esercito è stato utilizzato per creare una zona cuscinetto di 80 metri tra oppositori e sostenitori del governo. Il nuovo primo ministro egiziano Ahmed Shafiq si è scusato per gli episodi di violenza nel centro del Cairo, che i manifestanti che chiedono le dimissioni del presidente Hosni Mubarak ritengono siano stati istigati proprio dal governo. "Come funzionari e come stato che deve proteggere i suoi figli, ho pensato fosse necessario per me scusarmi e dire che questa situazione non si ripeterà", ha detto il primo ministro ai giornalisti. Shafiq ha anche aggiunto di non sapere chi si celi dietro gli attacchi ma che il governo indagherà al riguardo. Sostenitori di Mubarak hanno preso d'assalto alcuni hotel del Cairo alla caccia di giornalisti stranieri. Lo dice la tv Al Arabiya. Al tradizionale National Prayer Breakfast, un incontro di preghiera che a Washington vede riuniti rappresentanti di tutte le fedi, Obama ha introdotto il suo intervento sottolineando che lui prega affinchè "un giorno migliore sorga in Egitto". "Siamo anche preoccupati per la violenza che vediamo in Medio Oriente - ha aggiunto -. Preghiamo che la violenza in Egitto abbia fine e i diritti e le aspirazioni del popolo egiziano possano essere realizzati. E che un giorno migliore sorga sull'Egitto e sul mondo intero". LA CRONACA DI MERCOLEDI' Scorre il sangue in piazza Tahrir, la pacifica roccaforte del movimento d’opposizione che ieri è stata presa d’assalto dai sostenitori del regime. È stata una giornata tragica, con scene di guerra civile. La tensione si respira già in mattinata, quando migliaia di persone, al grido di "Naem Mubarak!" ("sì Mubarak!"), marciano sul centro città innalzando i cartelli del raìs, riempiono la Corniche, il viale lungo il Nilo, ed invadono il ponte "6 ottobre". Me li trovo improvvisamente davanti all’uscita dell’hotel Hilton, a due passi dalla piazza occupata dai dimostranti anti-Mubarak. È lì che puntano con decisione, prendendo alla sprovvista coloro che sono rimasti a presidiarla dopo la manifestazione oceanica di martedì. S’accendono discussioni animate, qualcuno incomincia a tirare calci e pugni ed i tafferugli ben presto degenerano in scontri violenti. Uomini a cavallo e a dorso di cammello, armati di spranghe e bastoni, fanno irruzione sulla piazza costeggiando le mura rosate del Museo Egizio e seminando il panico. Decine di persone, colpite brutalmente, restano a terra. Subito dopo scoppiano fitte sassaiole tra le due fazioni che si trovano a distanza ravvicinata, separati da alcuni camion vuoti che vengono usati come riparo. Tutto questo avviene sotto gli occhi dei militari rimasti per lunghe ore spettatori passivi, chiusi dentro i loro carri armati. Non reagiscono neppure quando le pietre scagliate dall’una e dall’altra parte rimbalzano sulla blindatura dei mezzi corazzati. Si limitano a sparare qualche colpo in aria nel tentativo di disperdere la folla. I fan di Mubarak salgono sui tetti dei palazzi adiacenti, da dove scagliano massi di cemento sulla folla che presidia la piazza. Non si lanciano più solo pietre ma anche bottiglie molotov che provocano un incendio nel Museo Egizio. Solo allora intervengono unità dell’esercito con gli idranti per domare le fiamme e placare gli animi. Nel mirino finiscono anche i giornalisti stranieri, accusati di essere simpatizzati dei rivoltosi anti-Mubarak. Insulti e botte a varie troupes televisive, al-Arabya ha denunciato il sequestro di un suo reporter. La battaglia tra le due opposte fazioni va avanti fino a sera, sempre più furiosa e cruenta. Ci sono tantissimi feriti, stesi su barelle improvvisate o in fuga con la testa rotta e sanguinante. Oltre 1.500, secondo i dati forniti dal neo-ministro della Sanità, mentre ci sarebbero almeno 10 morti, tra cui un giovane soldato di leva. "L’attacco è stato guidato da agenti in borghese dei servizi di sicurezza", denunciano gli attivisti dell’opposizione che sono riusciti a mantenere il controllo di piazza Tahrir ma si trovano in difficoltà dopo le ultime mosse di Mubarak. Ferito ma non domo, il vecchio leone ha tirato fuori gli artigli. Dapprima l’annuncio in tv ("resto al potere fino alle prossime elezioni ma non mi ricandiderò"), quindi la discesa in campo dei suoi sostenitori e l’assalto al luogo-simbolo della rivolta. "Una folla in affitto" l’ha definita l’ex vice-segretario di Stato americano Jamie Rubin, secondo cui "i sostenitori di Mubarak sono stati assunti per creare instabilità". Anche El Baradei, a nome dei partiti d’opposizione, ha accusato il raìs di aver messo in atto "una strategia del terrore" ed ha chiesto di nuovo le immediate dimissioni del presidente. "Non se ne parla nemmeno". La scritta, a caratteri cubitali, è ben visibile in piazza Mustafà Mahmud, nel quartiere borghese di El Mohandiseen sull’altra riva del Nilo rispetto a piazza Tahrir. A prima vista sembra tutto uguale: folla variopinta, canti e slogan, bandiere nazionali. Ma è tutto il contrario. "Mubarak non te ne andare!", invocano migliaia di egiziani inneggianti al presidente-Faraone. Ci sono tante donne, tutte col velo, e uomini maturi che temono di perdere il piccolo benessere garantito loro dal raìs. In gran parte sono dipendenti pubblici, scesi in piazza su comando. Ce lo conferma un’insegnante, Maria Taha, che insieme ai suoi colleghi è stata "caldamente invitata" a prendere parte alle manifestazioni pro-Mubarak. Molti però l’hanno fatto con convinzione, come Abdel Haman, anziano ex ufficiale dell’esercito, che ci mostra una vecchia foto di Mubarak del ’73. "È l’eroe d’ottobre (in riferimento alla guerra d’Egitto contro Israele), noi lo amiamo!" dice commosso. E qui ci sono anche i poliziotti che sembravano spariti dalla città dopo la brutale repressione di venerdì scorso. Vengono applauditi dalla folla cui rispondono con grandi sorrisi innalzando le dita a V in segno di vittoria. "Quelli là (i dimostranti anti-Mubarak, ndr) hanno fatto la marcia di un milione? Noi siamo 80 milioni, il Paese è con il suo presidente", dicono i sostenitori del raìs. "Il presidente ha già concesso molto nel suo discorso in tv, la gente che è scesa in piazza a protestare adesso dovrebbe smetterla. Abbiamo bisogno di tranquillità e stabilità", è l’opinione che raccogliamo dalle labbra di padre Yusif, arciprete copto del quartiere. Ritorno alla normalità, è questa la parola d’ordine lanciata dall’alto e ripetuta con insistenza da radio e tv. Il coprifuoco è stato ridotto di due ore, molti negozi sono stati riaperti, da ieri funzionano i bancomat ed anche Internet, e non c’è penuria di generi alimentari anche se tutto costa più del doppio. D’improvviso lo scenario è cambiato, Mubarak appare più saldo al potere rispetto a qualche giorno fa, mentre l’esercito invita i dimostranti a porre fine alla protesta ed a sgomberare la piazza. Stessa cosa fa il vice presidente Omar Suleiman, per il quale il "dialogo con le forze politiche dipende dalla fine delle proteste". L’Egitto è ad un bivio drammatico. Luigi Geninazzi
2011-02-02 2 febbraio 2011 EGITTO AL BIVIO Cairo, scontri tra fazioni "Morti e feriti" Ci sono stati alcuni morti e molti feriti negli scontri in piazza Tahrir scatenati dall'arrivo dei manifestanti pro Mubarak. Lo ha detto la televisione Al Jazira. L'esercito egiziano ha invitato i manifestanti, ancora in piazza al Cairo contro il presidente Hosni Mubarak, di sospendere le proteste e tornare a casa. Lo ha riferito alla tv di Stato un portavoce delle forze armate. "L'esercito chiede ai manifestanti di tornare a casa per ristabilire la sicurezza e la stabilità delle strade", ha detto il portavoce riferendosi alla popolazione che anche oggi è scesa in piazza contro il governo Mubarak. La tv di Stato ha inoltre annunciato che il coprifuoco è stato ridotto in tre città del Paese tra cui nella capitale. Le attività del Parlamento in Egitto sono state sospese finché non verranno riesaminati i risultati delle elezioni legislative del 2010, contestati dall'opposizione. LA CRONACA DI LUNEDI' Lascerà il potere, ma non subito. Stretto nell’angolo da una protesta popolare che ieri ha toccato il suo culmine con centinaia di migliaia di persone scese in piazza per chiedere le sue dimissioni, Mubarak getta la spugna. Ma non pensa di fuggire come un qualsiasi dittatore, intende uscire di scena a testa alta. Lo ha annunciato a tarda sera in tv, in un discorso alla nazione al termine di una giornata che passerà alla storia. "Stiamo vivedo giorni molto difficili, la mia prima responsabilità è ristabilire la calma nel Paese. E a questo mi dedicherò nei mesi di mandato che mi restano. Non mi ricandiderò alle elezioni del prossimo settembre", ha dichiarato il raìs, anziano e sofferente, apparso molto provato e più malconcio del solito. Mubarak ha confermato l’avvio delle trattative tra il suo vice, Omar Suleiman, e le forze d’opposizione per mettere fine all’instabilità di questi giorni. E garantire la pacifica transizione del potere. Infine, ha affermato di essere pronto a cambiare la Costituzione per quanto riguarda la durata del mandato presidenziale e il potere dell’esecutivo. Il passo indietro gli è stato suggerito da Barack Obama, stando a fonti vicine alla Casa Bianca che hanno trovato conferma qui al Cairo. "Il tuo tempo è finito", avrebbe detto l’inviato americano Frank Wisner in un incontro molto teso con Hosni Mubarak. È una mezza vittoria per l’opposizione che ha ribadito la sua richiesta di immediate dimissioni del presidente: "Noi non lasceremo la piazza, è lui che deve lasciare subito". E ha annunciato che la protesta andrà avanti. "Mubarak, erhal!" (Mubarak, vattene!) è stato infatti lo slogan scandito da una folla oceanica per tutto il giorno. Mubarak "lasci il Paese per evitare un bagno di sangue", e lo faccia "entro venerdì", ha intimato Mohamed El Baradei, il premio Nobel per la pace divenuto un simbolo dell’opposizione egiziana. E dopo aver ascoltato il discorso del raìs ha commentato: "Non ci sarà alcun vuoto di potere se Mubarak se ne va". Poi ha aggiunto: "Non ascolta la voce del popolo" e la modifica della Costituzione è "una presa in giro". Non s’era mai visto sulle rive del Nilo un raduno di massa così imponente come quello che si è tenuto ieri nella centralissima piazza Tahrir, epicentro della rivolta che da otto giorni scuote l’Egitto. Accogliendo l’appello lanciato dal movimento spontaneo d’opposizione per una "Marcia di un milione di persone", una marea umana si è riversata per le strade e le piazze d’Egitto. A dire il vero non c’è stata alcuna marcia sul palazzo presidenziale di Heliopolis, alla periferia del Cairo, come invece era stato preannunciato. Un simile gesto avrebbe comportato l’abbandono di piazza Tahrir, riconquistata dai dimostranti venerdì scorso, col rischio di perdere il controllo del luogo simbolo della protesta popolare che ieri appariva invaso da una folla straripante. Trecentomila persone secondo le stime più realistiche, oltre un milione dicono gli organizzatori. Tantissima gente ha manifestato anche ad Alessandria, Suez, Ismaila e in molte altre città del Paese fino a tarda sera nonostante il coprifuoco, tranquillamente ignorato. Non è stata fermata neppure dal blocco dei treni e dalla chiusura delle strade principali, al Cairo c’è chi si è fatto decine di chilometri a piedi per unire la sua voce a quella dei dimostranti. Giovani e meno giovani, disoccupati e uomini d’affari, famigliole coi bambini ed anche moltissime donne non accompagnate da parenti (fatto insolito per un Paese islamico), ragazze in jeans e anziane signore con la jihab, il velo integrale, tutti in piazza della Liberazione (questo significa Tahrir in arabo) per condividere la speranza in un cambiamento che appare a portata di mano. Non c’è l’ombra di un poliziotto, in giro si vedono tantissimi militari che però mantengono un basso profilo. C’è una ressa enorme che s’accalca fin dalle prime ore del mattino, l’afflusso è lento ma ordinato ed i controlli vengono effettuati con gentilezza dai ragazzi del servizio d’ordine che distribuiscono volantini. Ma non c’è tensione bensì un clima di festa punteggiata da slogan fantasiosi ed ironici. "Mubarak, c’è un hotel a Gedda che ti sta aspettando", (alludendo alla fuga in Araba Saudita del dittatore tunisino Ben Alì). "Susanne (la moglie di Mubarak già fuggita a Londra, ndr), trascinati dietro tuo marito!". Protestano contro il regime, i trent’anni di leggi speciali, la corruzione diffusa. "Non abbiamo più paura – dice Magdi Allathay, ingegnere in pensione che ha sempre sognato questo momento – Abbiamo ritrovato la dignità". Al suo fianco c’è un giovane con la testa fasciata, Ahmed Balig, esponente del movimento studentesco "6 aprile". "Sono salvo per miracolo, mi hanno estratto una pallottola ad aria compressa, un regalo dei poliziotti che mi hanno sparato addosso durante una manifestazione", racconta. Nata spontaneamente dai giovani, la protesta contro Mubarak si è ben presto allargata a tutta la società coinvolgendo i partiti dell’opposizione tradizionale. I più attivi sono i Fratelli musulmani, l’organizzazione islamista messa fuori legge ma molto radicata nella società egiziana. Si dicono pronti ad un dialogo con i militari per "una pacifica transizione", insieme con tutte le altre forze che s’oppongono al raìs. Ma in Egitto c’è ancora chi sostiene Mubarak e ieri ha manifestato in suo favore. "Lui è il garante della stabilità del Paese, se cade finiremo come in Iraq!" hanno gridato alcune centinaia di persone che si sono radunate davanti all’edificio del ministero degli Esteri. È soprattutto la comunità copta, vittima spesso di violenze, a temere il caos e l’arrivo al potere degli integralisti islamici. Luigi Geninazzi
2 febbraio 2011 L'incendio nordafricano e l'Italia che ben pochi considerano Accade un mondo ma non lo si vuol vedere Si è incendiato il Nord Africa e brucia l’Egitto, Paese arabo da sempre considerato perno dell’amicizia con l’Occidente: un incendio che, per una miriade di fondate ragioni, fa paura, specie all’Europa, così geograficamente vicina, così politicamente (e culturalmente) lontana. Soprattutto colpevolmente distratta. Distrazione non solo europea. E non solo politica. Ma distrazione colpevole su tutta la linea. Perché, anche stavolta, di questo improvviso irrompere sulla scena di una rivolta popolare così ampia, così densa di allarmanti interrogativi per il futuro, quasi nessuno degli "esperti" s’era accorto, lo aveva previsto. E adesso, di fronte all’eruzione in corso, non trovano nulla da dire se non quello che qualsiasi profano vede a occhio nudo: è un rivolgimento, una rivoluzione, che resterà sui libri di storia. Ma in che modo, con quali conseguenze, nessuno lo sa . Eppure, averlo capito in tempo sarebbe stato necessario e utile, anche se non sufficiente. Così non è stato; ma non è una novità. Perché, solo per stare agli ultimi decenni, nessuno, o quasi, aveva previsto in tempi utili avvenimenti epocali quali il crollo del Muro di Berlino, non l’11 settembre 2001 a New York, non l’impennarsi del terrorismo, non la crisi finanziaria mondiale ancora in corso. Sono state tutte immense "sorprese". E si potrebbe continuare con gli esempi. Dunque, perché mai gli "esperti" non riescono a fare il loro mestiere? Per fortuna, qualcuno, fra loro, si pone onestamente la domanda. E dà risposte convincenti: se gli esperti non riescono più a vedere "avanti" come sarebbe loro compito, forse è perché si concentrano nello studio degli Stati, (governi, capi di stato, strutture economiche, politiche, culturali e simili), trascurando però quello dei popoli che li abitano. Sembra l’uovo di Colombo, ma probabilmente è vero. Tanto più in tempi di internet, di globalizzazione, ecc.. In altre parole: se non ti sforzi di andar a vedere, a sentire come vive e cosa pensa la massa delle persone, quella reale, non quella che ti passa il circuito dell’informazione più o meno "ufficiale", più o meno paludata, non potrai mai capire dove e come sta andando il mondo. È una lezione anche per l’attualità più stretta del nostro Paese: a volere credere ai mass media l’Italia è una nazione fatta di Ruby e dintorni (tutti i talk show che se ne sono occupati hanno, in effetti, aumentato l’audience),di immondizia per le strade, di mafiosi, di evasori al cubo, di politici corrotti e incapaci, e simili. Non che tutto questo non sia vero: ma c’è anche un’altra Italia (ed è maggioritaria) che sui mass media non compare. Un’Italia per bene che non fa audience: soprattutto perché il grosso dell’informazione non le dà spazio. Nessuno chiede di non denunciare i mali che affliggono il nostro Paese, diceva saggiamente il cardinal Tettamanzi ai giornalisti milanesi riuniti per la festa del loro protettore S. Francesco di Sales, ma questa che domina in questi giorni è una visione mutilata della realtà. Anzi: l’Italia vera è un’altra, fatela vedere. Ed è un peccato che a quella riunione mancassero i corrispondenti esteri, nonché quasi tutti gli "esperti" di cui sopra: i quali, tranne rare eccezioni, nel delineare il profilo del nostro Paese, più che ad andare a vedere come sono davvero gli italiani, (per le strade, nelle famiglie, nelle aziende, nelle scuole, nelle parrocchie, nelle associazioni di volontariato, nelle università) si limitano a ripetere quello che ne apprendono sui nostri mass media o frequentando solo certi circoli... E dunque, anche da noi c’è un vuoto di informazione sulle reali condizioni del nostro Paese. Che, se fosse davvero quello di Ruby & Co., sarebbe già scomparso da un pezzo. Perché, invece, sta ancora in piedi? Perché è sostanzialmente diverso da come lo si dipinge, anche se gli "esperti" non lo sanno, non lo vedono e, se lo vedono, non ne parlano. E questo è un danno, anche per loro: potrebbero venire, per l’ennesima volta, sonoramente smentiti. È una constatazione, ma anche una speranza. Gabriella Sartori
2 febbraio 2011 65 ANNI DI STORIA Il faro del mondo arabo che non sa più brillare "Un mondo arabo senza l’Egitto è perfino inimmaginabile: gli arabi perderebbero una parte della loro anima, il loro elemento di riferimento e di guida". Fu questa la reazione di un alto diplomatico egiziano alla decisione della Lega Araba che, nel 1979, decise di isolare per un decennio il Paese per ritorsione alla firma degli accordi di pace con Israele a Camp David. Una frase che suona insopportabilmente arrogante agli occhi di molti degli arabi non egiziani, ma che contiene almeno un fondo di verità. Dall’Egitto infatti partì il tentativo di modernizzazione, agli inizi del XIX secolo: dal nuovo esercito di Muhammad ’Ali fino alla costruzione di quel canale di Suez che ancora oggi ha una sua grande centralità geoeconomica mondiale. Ed egiziano è stato Muhammad Abduh, l’antesignano del riformismo islamico, un coraggioso e sfortunato movimento che – fra Ottocento e Novecento – voleva cogliere ciò che di buono veniva offerto dall’Europa per svecchiare l’islam partendo da un radicale rinnovamento dell’istruzione. E ancora in queste terre nacque l’organizzazione di maggior successo del radicalismo islamico, l’Associazione dei Fratelli Musulmani di Hasan al-Banna. Dopo la guerra, fu ancora l’Egitto con il colpo di stato degli "ufficiali liberi" e il socialismo islamico di Nasser (Gamal Abd al-Naser) a offrire un modello di governo postcoloniale e di rivoluzione. Insomma, l’Egitto si è sempre proposto come antesignano e punto di riferimento per il più vasto mondo arabo; eppure i risultati effettivi da esso raggiunti appaiono molto più deludenti: un riflesso sbiadito e deludente rispetto alle sue grandi ambizioni. Dalla monarchia alla repubblica Uno dei primi Paesi colonizzati ad ottenere l’indipendenza dopo la Prima guerra mondiale, l’Egitto rimase tuttavia a lungo sotto il controllo informale della Gran Bretagna, a cui era strettamente legata la monarchia regnante. Dopo il 1945, questa situazione risultava sempre meno tollerata dalla popolazione e dai movimenti nazionalisti. Con il colpo di stato militare degli "ufficiali liberi" del 1952, si aprì l’era repubblicana e, sotto la guida di Nasser, il Paese si propose quale potenza regionale di riferimento. La speranza era che, con la vera indipendenza, arrivasse il progresso economico, la forza militare e il primato politico fra gli arabi e nel più vasto movimento dei Paesi non allineati. Il nuovo presidente era convinto che le forze armate avrebbero dovuto essere l’architrave della modernizzazione della nazione: forti da garantire l’indipendenza e la sconfitta dell’odiato stato d’Israele che aveva già battuto gli arabi nella prima guerra arabo-israeliana del 1948; fautori di una modernità che si coniugava alla tradizione: il socialismo arabo, appunto. Infine – e questo era il compito più importante – l’Egitto doveva coagulare attorno a sé gli altri Paesi arabi, per dar vita a un unico grande stato che contenesse la nazione araba e realizzasse gli ideali pan-arabisti. La storia è stata molto severa con queste speranze: nel 1956, dopo aver nazionalizzato il Canale di Suez, l’Egitto venne attaccato da Francia e Gran Bretagna – imbarcatesi "nell’ultima avventura coloniale", come è stato detto – e da Israele. La sconfitta militare fu totale e immediata: solo l’intervento dell’Onu e l’unanime volontà di Usa e Urss obbligarono gli attaccanti a ritirarsi. Sconfitto militarmente, Nasser uscì tuttavia politicamente vittorioso dal conflitto e tentò di realizzare l’ideale pan-arabo con la Repubblica Araba Unita: l’unione con la Siria del 1958 doveva essere il primo passo per unire tutti i popoli arabi. Invece, già nel 1961 l’esperimento si risolse in un fallimento. E fallì anche l’ambizione di distruggere lo stato sionista tramite una politica di massiccio riarmo sostenuta dall’Unione Sovietica. Nel 1967, dopo continue provocazioni, Israele attaccò Egitto, Siria e Giordania infliggendo loro un’umiliante e disastrosa sconfitta nella celebre Guerra dei sei giorni. Questo fallimento sminuì il prestigio interno e internazionale di Nasser che rispose al crescente dissenso con l’aumento della repressione, sia verso i movimenti giovani marxisti, sia contro i vertici dei Fratelli musulmani, sempre più attivi e popolari. La svolta di Sadat Divenuto presidente nel 1970 alla morte di Nasser, Anwar Sadat sembrava la perfetta continuità con il passato. In realtà negli anni ’70 egli imporrà un cambiamento di rotta clamoroso, staccandosi dall’Unione Sovietica per divenire l’alleato cardine degli Stati Uniti. Prima però, occorreva "restituire l’onore agli arabi" vendicando l’umiliazione del 1967. E la guerra della Yom Kippur del 1973, pur non vinta dall’Egitto, ne risollevò il prestigio. Rafforzatosi, Sadat si preparò a incrinare la solidità del rifiuto arabo di Israele, avviando trattative con "l’entità sionista" (come veniva chiamato lo stato ebraico) che sfociarono negli accordi di pace di Camp David del 1979. L’Egitto riebbe il Sinai, perso nel 1967, e poté essere definitivamente riaperto il canale di Suez, i cui pedaggi sono fondamentali per l’economia del Paese. Il prezzo pagato fu però pesante: sospesa la sua partecipazione alla Lega Araba, il Cairo venne considerato come il traditore della causa dei palestinesi e del panarabismo. Ma, ancora una volta, l’Egitto aveva solo anticipato i tempi: molti altri Paesi arabi e la stessa Organizzazione per la liberazione della Palestina finiranno per riconoscere Israele e stringere accordi di pace. Agli inizi degli anni ’90, le speranze – poi infrante – di una pace definitiva in Medio Oriente riportarono il Cairo al centro della scena regionale. Ma Sadat non fece in tempo a vedere la storia dargli ragione: fu ucciso da un commando dei Fratelli Musulmani nel 1981, "giustiziato" per il suo tradimento. Il vice-presidente Hosni Mubarak ne prese il posto. La lunga stagnazione Anche se in questi giorni la folla che protesta per le vie del Cairo mostra delle foto di Hosni Mubarak ritoccate per richiamare visivamente Hitler, se c’è un dittatore che ricorda l’attuale (ancora per quanto?) presidente egiziano, questi è sicuramente il Segretario generale del partito comunista sovietico Leonid Breznev, l’uomo della lunga, grigia e desolante stagnazione che mise in ginocchio la superpotenza comunista. Similmente, sotto Mubarak, al potere da trent’anni, l’Egitto si è via via svuotato di ogni spinta propulsiva: sono stati abbandonati i grandi ideali di modernità e panarabismo, nonostante la retorica stantia di regime; represso ogni dissenso con la scusa di garantire l’ordine e di frenare l’integralismo; gestiti in modo populista, inefficiente e clientelare le ricchezze del Paese e la massa di aiuti economici fornita ogni anno da Stati Uniti e Unione Europea. La centralità e l’unicità regionale del Paese sono apparsi sempre meno evidenti e, agli occhi delle altre élite di potere arabe, sempre più insopportabili e ingiustificate le velleità di paese-guida che il Cairo continuava a propagandare. L’autunno del Faraone È davvero difficile non esprimere un giudizio severo verso il suo governo, in particolare per l’enorme corruzione che si annida nel Partito nazionale democratico (Pnr), al potere da sempre e che ormai ha perso ogni contatto con la società vera egiziana. Certo, contro Mubarak hanno giocato molti fattori: durante questi trent’anni egli ha dovuto lottare contro movimenti islamisti violenti che hanno insanguinato a lungo il Paese, accanendosi anche contro i turisti stranieri, nel tentativo di indebolire il regime. Paradossalmente essi lo hanno rafforzato: per difendersi dal "pericolo islamista", l’Occidente ha accettato di sostenere a qualsiasi costo il potere del "Faraone", il quale ha avuto buon gioco a scatenare una dura repressione delle opposizioni in nome della stabilità e della lotta al fanatismo religioso. Con il tempo, ogni opposizione – anche quelle moderate e liberali – sono finite schiacciate dal Moloch del partito-stato del presidente. Ancora più grave la sua volontà di trasformare l’Egitto repubblicano in una dinastia, cercando di imporre il figlio Gamal quale suo successore: una protervia che oggi paga a caro prezzo. Ma anche a livello internazionale l’Egitto non è stato aiutato. E in due modi contrapposti. Da un lato, la sua politica di favorire la pace fra palestinesi e israeliani è stata minata dal sistematico mancato rispetto degli accordi presi da parte israeliana (che hanno umiliato agli occhi delle masse arabe la moderazione egiziana) e dalla deriva estremista fra i palestinesi. Più il processo di pace naufragava, e più l’immagine di Mubarak si appannava nella regione. Ma anche l’Occidente lo ha indebolito: l’avventurismo di Bush ha posto i suoi alleati regionali in una situazione sempre più insostenibile; la quiescenza della comunità internazionale dinanzi alla corruzione del governo, alla manipolazione delle elezioni e alla repressione del dissenso hanno fatto sì che Mubarak percorresse fino in fondo il sentiero verso il disastro attuale. Un alto funzionario governativo non mostra tuttavia dubbi: "Ci aspettano tempi difficili e bui. In ogni caso, chiunque sarà al timone, l’Egitto continuerà a essere la pietra angolare del Medio Oriente e del mondo arabo". Speriamo solo, rispetto al passato, che sia una pietra meno insanguinata e più liberale per tutti i suoi abitanti. Riccardo Redaelli
2 febbraio 2011 SAMIR KHALIL "È un movimento di popolo Speriamo non si inquini" Per il bene dell’Egitto serve una transizione che sia insieme veloce e morbida, sull’onda di una protesta che per il momento mantiene la sua natura popolare e unitaria. Ma se permanesse il vuoto di potere derivante dall’inevitabile declino di Mubarak, verrebbe favorita l’ascesa dei Fratelli musulmani che già esercitano una forte egemonia sociale. Omar Suleiman, l’ex capo dei servizi segreti che il rais ha nominato vicepresidente da pochi giorni, è l’uomo che può guidare questo delicato passaggio. Samir Khalil, gesuita egiziano e islamologo di fama internazionale, insegna a Roma e Beirut ma conosce bene il suo Paese, e guarda con cauto ottimismo a quanto accade al Cairo. C’è da credere a chi parla di "rivoluzione laica" in un contesto in cui l’islam e gli islamisti sono così determinanti? Il movimento che sta terremotando il mio Paese è un movimento di popolo. Non è stato promosso dai religiosi, anche se i religiosi ne sono parte attiva. È una ribellione alimentata dalla miseria in cui vivono milioni di persone, acutizzata dalle conseguenze della crisi internazionale, e nella quale si innescano rivendicazioni diffuse di libertà e democrazia. Un movimento di opposizione, non a caso, si chiama Kefaya, che significa Basta. C’è un’insoddisfazione diffusa che non si è ancora tradotta in un programma strutturato e condiviso e in una leadership. Quale ruolo giocano i Fratelli musulmani, che godono di un vasto seguito nella società anche se sono stati finora di fatto esclusi dalla scena politica? Possono raccogliere i frutti del loro lavoro tra i ceti popolari, dove hanno dato risposte che lo Stato non dava realizzando iniziative nei campi dell’istruzione, dell’assistenza e della sanità, e sono molto potenti anche negli ordini professionali (avvocati, medici, ecc.). Tutto questo li rende autorevoli, rende più autorevoli le loro parole d’ordine. E in caso di elezioni possono candidarsi a guidare il Paese, usando la democrazia come mezzo per arrivare al potere. Ma per il momento sono solo uno degli attori della transizione. C’è chi prevede che dalle moschee arrivino parole d’ordine infuocate, come è accaduto venerdì scorso dopo la preghiera rituale. Cosa ci si può aspettare dagli imam? Manifestazioni e disordini successivi alla preghiera del venerdì sono un classico nel mondo islamico, anche l’Intifada e altri eventi sono nati così. Un fatto rivelatore: venerdì scorso girava su Internet un messaggio che consigliava di non lasciare le scarpe fuori dalle moschee ma di portarsele dentro in un sacchetto per evitare che la polizia, che presidiava all’esterno, le portasse via "indebolendo" così i manifestanti all’uscita. Comunque gli imam generalmente seguono la corrente che prevale, trovando nel Corano la "giustificazione" a quanto sta accadendo: per molto tempo hanno predicato a favore di Mubarak, adesso seguono l’onda dell’opposizione. L’altro giorno Shenuda III, il papa della Chiesa copta, ha invitato i suoi a non partecipare alle manifestazioni di protesta. Da dove nasce questo atteggiamento? I copti sono il 10% della popolazione ma non hanno potere, sanno che Mubarak ha arginato il fondamentalismo islamico impedendo eccessi anticristiani. Chiedono sicurezza e moderazione, temono salti nel buio. Dicono: meglio ciò che conosciamo di ciò che ancora non conosciamo, non vogliamo cadere dalla padella nella brace. Omar Suleiman, nominato vicepresidente pochi giorni fa da Mubarak, è in grado di garantire una transizione morbida verso una democrazia sostanziale? Dalla sua parte sta un curriculum significativo: è un uomo-chiave degli equilibri mediorientali, ha trattato con Hamas, con Israele e con gli americani, ha gestito il controllo e la repressione dei Fratelli musulmani è in grado di rinnovare il governo lasciando spazio all’opposizione, varando riforme sociali ed economiche e concedendo più spazi di libertà e democrazia. Se Mubarak si facesse da parte in tempi rapidi, potrebbe essere lui l’uomo che guida il cambiamento ed evitare che nel vuoto di potere trovino spazio forze estremiste. È necessario che il vento di libertà continui a soffiare e che l’unità di questo movimento di popolo non si frantumi e non si inquini. Giorgio Paolucci
2011-02-01 1 febbraio 2011 UN PAESE AL BIVIO Egitto, oggi un milione in marcia contro Mubarak Numerosi dimostranti anti-governativi si stanno radunando in piazza Tahrir al Cairo, nel giorno della "marcia di un milione" annunciata ieri. Lo riferiscono i media arabi. Obiettivo dei manifestanti il palazzo presidenziale, meta finale del corteo. In piazza Tahrir si nota ancora la presenza dei mezzi militari pesanti, che osservano il lento afflusso di persone, che già si contano a migliaia. I collegamenti internet restano bloccati in tutto il Paese, l'ultimo fornitore d'accesso ancora in funzione, il gruppo Noor, é stato bloccato ieri. Il colosso americano Google ha annunciato di aver messo a punto con Twitter un sistema che consente di inviare twit senza necessità di collegarsi al web. Stop anche ai treni, nel tentativo del governo di limitare l'afflusso di manifestanti al Cairo. Intanto, il principale leader dell'opposizione, Mohamed el-Baradei ha fatto appello a una revisione della politica di Wasghinton: "È necessario che inizi a costruire la fiducia con la gente, non con chi opprime la gente", ha detto il premio Nobel ed ex direttore generale Aiea rivolgendosi al presidente Usa Barack Obama in una intervista alla Cnn. Il vice presidente egiziano Omar Suleiman ha annunciato ieri sera di essere stato incaricato dal presidente Hosni Mubarak di avviare il dialogo con tutte le forze di opposizione sulla riforma costituzionale e legislativa. In serata alla tv ha detto che "il presidente Mubarak ha riaffermato la necessità di dare applicazione a tutte le sentenze della Corte di Cassazione". Secondo le prime interpretazioni, questa decisione potrebbe avere riflessi sui risultati delle elezioni parlamentari del dicembre scorso, che hanno escluso dal Parlamento egiziano la presenza di tutte le forze politiche di opposizione.Per Suleiman la priorità del nuovo governo è di combattere povertà, disoccupazione e corruzione, come ha riferito la televisione di Stato egiziana. L'emittente tv, citando Soleiman, ha inoltre riferito che il nuovo governo lavorerà per riequilibrare i bassi salari con l'alto livello di inflazione. Mentre l'Egitto si prepara allo sciopero generale e alla "marcia del milione" con l'obiettivo far scendere in strada un milione di persone al Cairo, ad Alessandria e nella altre città egiziane, l'esercito in un comunicato ha definito "legittim" le richieste dei manifestanti e ha promesso che non userà la violenza per reprimere le manifestazioni. UE, APPELLO MINISTRI LIBERE E GIUSTE ELEZIONI I ministri degli Esteri della Ue hanno lanciato un appello alle autorità egiziane perché spianino la strada allo svolgimento di "libere e giuste elezioni". Il Consiglio dei ministri degli Esteri della Ue chiede alle autorità egiziane di "intraprendere una ordinata transizione attraverso un governo di largo consenso che porti a un processo genuino di sostanziale riforma democratica nel pieno rispetto dello stato di diritto e dei diritti umani e delle libertà fondamentali, spianando la strada allo svolgimento di libere e giuste elezioni", recita il testo approvato al termine del consiglio Esteri della Ue.
1 febbraio 2011 REPORTAGE Caos e vetrine rotte: il rischio ora è l'anarchia Quando scatta il coprifuoco, anticipato ieri alle tre del pomeriggio, non dovrebbe più esserci in giro anima viva. Io però mi trovo bloccato nel traffico da un gigantesco ingorgo di auto sul ponte "6 ottobre" che costeggia il Nilo. Non funziona più nulla in questa megalopoli di oltre 15 milioni di abitanti piombata nel caos e nell’anarchia totale. La gente circola contromano a velocità pazzesca per aggirare i check-point dell’esercito. Banche, negozi e uffici sono chiusi, le pompe di benzina sono quasi tutte a secco e in quelle poche stazioni ancora aperte si formano lunghissime code. È iniziata la corsa all’accaparramento anche dei generi alimentari, con la conseguente impennata dei prezzi. E coi bancomat vuoti sta scarseggiando perfino il denaro contante. La Borsa, anch’essa chiusa, ha perso il 15% la settimana scorsa, gli ultimi turisti scappano, l’economia va a picco mentre continua il blocco di Internet che impedisce non soltanto il flusso delle comunicazioni ma anche qualsiasi tipo di transazione commerciale. Chi può ha messo in salvo i suoi capitali all’estero, 140 miliardi di dollari se ne sono già volati via dal Paese. Sul grande viale el-Dohal el-Arabia, il regno dello shopping di lusso fino a pochi giorni fa, non si contano le vetrine infrante e i negozi saccheggiati. Proprio mentre migliaia di dimostranti chiedevano democrazia sono entrate in azione bande di ladri e criminali che hanno devastato il centro città. Dalle carceri e dai commissariati di polizia sono evasi 16mila delinquenti (è la stima fatta dai giornali), probabilmente con la complicità dei sorveglianti e la regìa nascosta dei servizi segreti. Molti analisti parlano di una cinica strategia del presidente Mubarak che ha ordinato alle forze di polizia di ritirarsi dalle strade dopo gli scontri di venerdì scorso, gettando il Paese in un drammatico vuoto di sicurezza ed ordine pubblico. Volete la libertà? E allora avrete il caos! È questo il messaggio del vecchio rais al popolo che vorrebbe fare a meno di lui. Per proteggere case e proprietà la gente si è spontaneamente organizzata in squadre di auto-difesa che fanno la ronda nei quartieri. Mahmoud Elnouhei, 30 anni, ha passato la notte in auto, armato di un coltello da cucina. "Qui attorno ci sono stati veri e propri assalti ai palazzi", racconta mentre fuma la shisha, la tradizionale pipa con tabacco aromatizzato, al Pottery Café, uno dei pochi bar rimasti aperti nel quartiere di Zamalek. Mahmoud dirige un’impresa che esporta cotone in vari Paesi europei e negli ultimi giorni ha dovuto sospendere ogni attività. "Se quest’anarchia va avanti ancora per giorni, ci vorranno mesi o forse anni per risollevare l’economia del mio Paese", prevede tristemente. A Mohandissen, una delle più belle zone residenziali del Cairo, c’è un’aria spettrale. La paura si tocca con mano: molte strade sono bloccate da massi di cemento, le porte delle case e le vetrine dei negozi sono ricoperte da pesanti assi di legno, si respira un clima da stato d’assedio. La vita sembra invece scorrere pressoché normale nei quartieri più poveri. A Imbaba e Shoubra, dove le case sono addossate l’una all’altra formando un alveare umano, i vicoli sono affollati come sempre, le bancarelle di frutta e di carne non presentano segni di scarsità, ed i negozi sono aperti. Ma anche qui, quando cala il buio, ognuno si protegge come può. C’è chi ha divelto una panchina e l’ha messa di traverso davanti alla porta di casa. E chi fa roteare una spranga, minacciando di rompere la faccia ai malintenzionati. Il rischio è il dilagare della violenza in un Paese fuori controllo. Libertà e anarchia non sono mai state così vicine. Luigi Geninazzi
2011-01-29 29 gennaio 2011 NORD AFRICA IN FIAMME Egitto, esteso coprifuoco Ma la gente resta in strada I FIGLI DEL PRESIDENTE MUBARAK A LONDRA I due figli del presidente egiziano Hosni Mubarak, Alaa e Jamal, sono arrivati a Londra con le loro famiglie. Lo ha annunciato una fonte della comunità egiziana in Gran Bretagna alla tv araba al-Jazeera. Il figlio del presidente egiziano Hosni Mubarak, Jamal, era considerato candidato alla successione al potere. Già tre giorni fa la rivista online araba Ahbar al-Arab, edita negli Stati Uniti, aveva parlato di una sua fuga Londra con la moglie e la figlia. Secondo il sito, Mubarak Jr. sarebbe partito senza alcuna protezione da parte della sicurezza alla volta della Gran Bretagna, a bordo di jet privato dall'aeroporto della zona ovest del Cairo. La famiglia avrebbe caricato a bordo dell'aereo 97 valige. Poco dopo la diffusione di questa notizia, fonti del governo egiziano si erano affrettate a smentirla. CAPO SERVIZI SEGRETI NOMINATO VICEPRESIDENTE Il capo dei servizi segreti, Omar Soleiman, è stato nominato vicepresidente dell'Egitto dal rais Hosni Mubarak, durante una riunione straordinaria che si è tenuta alla presidenza. Secondo quanto riferisce l'Agenzia Mena, Soleiman ha già prestato giuramento, che è stato mostrato dalla televisione di stato egiziana. È la prima volta che Mubarak nomina un vicepresidente da quando è diventato capo di stato nel 1981. ESTESO IL COPRIFUOCO, MA LA GENTE RESTA IN STRADA Il governo egiziano ha esteso la durata del coprifuoco, che sarà in vigore dalle 16 (le 15 in Italia) alle 8 (le 7 in Italia) di domenica mattina. Lo ha annunciato la tv di Stato. Nonostante l'esercito abbia fatto sapere che "chiunque lo violi sarà in pericolo", decine di migliaia di manifestanti stanno convergendo in questo momento in piazza Tahrir al Cairo. TENTATO ASSALTO AL MINISTERO DEGLI INTERNI Un migliaio di manifestanti sta tentando di dare l'assalto al Ministero degli Interni e la polizia ha aperto il fuoco. È quanto riporta la televisione satellitare al Jazira. Il capo delle antichità egiziane, Zahi Hawass, ha affermato che è stato respinto in mattinata un tentativo di saccheggio al Museo Egizio. Lo riferisce la televisione di stato egiziana, affermando che l'esercito presidia la zona. EL BARADEI: OGGI TORNERÒ IN PIAZZA "Il presidente Mubarak non ha capito il messaggio del popolo egiziano. Il suo discorso era totalmente deludente, le proteste continueranno con sempre più intensità fino a che il regime non cadrà". Lo ha sottolineato il leader dell'opposizione laica egiziana El Baradei, in una dichiarazione a France 24. Il premio Nobel per la pace El Baradei ha inoltre annunciato: "Scenderò in piazza oggi con i miei colleghi per contribuire a un cambiamento e per dire al presidente Mubarak che deve andarsene. Quando un regime si comporta con tale bassezza e usa gli idranti su uno che ha vinto il Nobel per la pace, vuol dire che è l'inizio della fine e che è ora che se ne vada". 50MILA IN PIAZZA TAHRIR AL CAIRO Aumentano di ora in ora i manifestanti che stanno sfilando per il centro del Cairo contro il presidente egiziano Hosni Mubarak. Secondo l'inviato della tv araba al-Jazeera sarebbero circa in 50mila a piazza Tahrir, nel cuore della capitale. FRATELLI MUSULMANI: DESTITUZIONE DEL GOVERNO NON BASTA I Fratelli musulmani bocciano il discorso con cui Hosni Mubarak ha tentato di spegnere la rivolta dei giovani egiziani. La destituzione del governo decisa dal presidente egiziano "è solo un passo", ha spiegato Walid Shalabi, delegato alla comunicazione dalla guida suprema del gruppo, Ezzat al Badia. Gli obiettivi della protesta, ha aggiunto, sono soprattutto altri: "La fine dello stato di emergenza, lo scioglimento del Parlamento e l'indizione di elezioni libere e trasparenti". "Vogliamo un governo", ha aggiunto Shalabi, "che tenga conto delle libertà e che risolva il problema della disoccupazione". Nonostante sia ufficialmente messo al bando, il gruppo dei Fratelli musulmani è tollerato dal regime e ha collegamenti con diversi parlamentari. POLIZIA SPARA SUI MANIFESTANTI AD ALESSANDRIA Manifestanti si stanno scontrando ad Alessandria con forze dell'ordine che usano armi da fuoco con proiettili veri. Lo riferiscono le tv satellitari Al Jazira e Al Arabiya citando testimoni.. IL GOVERNO SI DIMETTE La tv egiziana ha annunciato le previste dimissioni del governo. Intanto si è dimesso anche il segretario generale del partito di Mubarak. 30 CADAVERI TRA CUI 2 BAMBINI AL CAIRO Trenta corpi, tra cui quelli di due bambini, sono stati portati all'ospedale Damardash del Cairo in seguito ai disordini di ieri. Lo riferiscono fonti sul posto. SPARI DAVANTI AL PARLAMENTO. CARRI ARMATI IN PIAZZA La polizia ha sparato alcuni colpo in aria per disperdere un gruppo di manifestanti che tentava di entrare nel Parlamento del Cairo. Lo hanno riferito fonti dei servizi di sicurezza egiziani. Il Parlamento si trova nei pressi di piazza Tahrir, epicentro delle proteste contro il presidente Hosni Mubarak, che stamattina è stata circondata dai carri armati. SCONTRI A ISMAILIYA Violenti scontri tra manifestanti e agenti di polizia si registrano nella città di Ismailiya. Reparti della polizia, che avevano lasciato la città ieri notte, sono tornati nel centro di Ismailiya. La tv riferisce di cariche della polizia contro i manifestanti, che rispondono lanciando sassi contro gli agenti. 200 PERSONE DAVANTI A STAZIONE DI POLIZIA DI SUEZ Sono circa 200 le persone che questa mattina hanno dato vita a una nuova manifestazione di protesta nella città egiziana di Suez. Secondo quanto riferisce l'emittente al-Jazeera, i manifestanti si sono concentrati davanti la stazione di polizia del quartiere di al-Arbayn della città, teatro nei giorni scorsi di violenti scontri tra polizia e manifestanti. Fonti locali sostengono che la piazza non abbia apprezzato il discorso tenuto ieri notte dal presidente, Hosni Mubarak. Non a caso vengono scanditi slogan che chiedono le sue dimissioni. TELEGRAPH, RIVOLTA PIANIFICATA DAL 2008 CON AIUTO USA La rivolta che minaccia il potere di Hosni Mubarak era stata pianificata da tre anni, con il sostegno segreto degli Stati Uniti. Un file redatto il 30 dicembre 2008 dall'ambasciata americana al Cairo e reso noto dal quotidiano britannico Telegraph, descrive il contenuto di un incontro tra un attivista del Movimento 6 aprile, protagonista delle proteste di questi giorni, e i diplomatici di Washington. "Diverse forze di opposizione (i partiti Wafd, Nasserite, Karama, Tagammu, i Fratelli musulmani, Kifaya, i Movimenti socialisti rivoluzionari)", si legge nel memo dell'ambasciatore Margaret Scobey, "hanno siglato un piano tacito per la transizione a una democrazia parlamentare, con una presidenza debole e un parlamento e un primo ministro forti, prima delle elezioni presidenziali del 2011". Il piano, prosegue Scobey, "è talmente delicato da non poter essere messo per iscritto". Così, anche la stessa identità del giovane attivista, avvertiva la diplomatica, avrebbe dovuto restare "segreta" per timore di "ritorsioni" da parte delle autorità egiziane al suo rientro in patria da un viaggio negli Stati Uniti. Washington, infatti, aveva provveduto a far partecipare il giovane - che si era guadagnato la fiducia americana anche per le torture inflittegli dal regime anni prima- a un "summit" di giovani attivisti organizzato a New York dal Dipartimento di Stato, dal 3 al 5 dicembre 2008. Al rientro l'attivista era stato fermato dalla polizia all'aeroporto del Cairo e gli erano stati sequestrati gli appunti sulla riunione americana.
29 gennaio 2011 IL CAIRO Distrutte due mummie di faraoni Saccheggiatori sono riusciti a entrare nel Museo Egizio del Cairo e a distruggere due mummie di faraoni, prima di essere respinti dalla polizia. Lo ha riferito la televisione di Stato egiziana. I dettagli dello scempio sono stati raccontati dall'archeologo Zahi Hawass, capo del Supremo consiglio delle antichità egiziane. "Sono rimasto profondamente amareggiato stamane quando sono arrivato al Museo e ho scoperto che qualcuno aveva tentato di saccheggiarlo con la forza durante la notte", ha riferito. "So che cittadini egiziani hanno cercato di fermare i saccheggiatori e si sono uniti alle forze della polizia turistica per respingerli, ma alcuni sono riusciti a penetrare dall'alto e hanno distrutto due delle mummie". I vandali hanno anche svaligiato la biglietteria. Nell'edificio a due piani del Museo, costruito nel 1902, sono conservate decine di migliaia di oggetti di incalcolabile valore, compresa la collezione del faraone Tutankamen.
29 gennaio 2011 NORD AFRICA IN FIAMME Mubarak scatena la battaglia del Cairo
Sotto una nuvola di fumo nero e acre brucia la città del moderno faraone, illuminata nel buio dai fuochi che si alzano dalle carcasse delle macchine e ormai in preda al saccheggio di massa. In serata, con un discorso alla tv di Stato, il presidente Mubarak si è rivolto direttamente al popolo esortandolo a smetterla con la violenza e annunciando le dimissioni del governo che "da domani sarà nuovo". La giornata era iniziata con una manifestazione, con una grande voglia di libertà che ha sfidato un impressionante dispiegamento di forze messe in campo dal vecchio rais. "La Mubarak!", no a Mubarak, è il grido che risuona sempre più forte e rimbalza dal Cairo ad Alessandria, da Suez a Porto Said in mezzo agli spari e ai cupi rimbombi delle armi da fuoco. "La giornata della collera" al culmine della protesta popolare che dura da tre giorni, ieri è diventata una giornata di guerra tra il regime egiziano e il suo popolo, segnando un drammatico punto di non ritorno dagli esiti imprevedibili. È passato da poco mezzogiorno quando la gente dopo la preghiera del venerdì in Moschea si dirige verso piazza Tahrir, simbolo dell’indipendenza del Paese, ma tutte le strade d’accesso sono sbarrate dai reparti antisommossa, migliaia di poliziotti in tuta nera e con il manganello ben in mostra. Non c’è alcuna possibilità di coordinamento tra i manifestanti. Fin dalle prime ore del mattino non ci si può connettere a internet, bloccati pure i telefoni cellulari e i satellitari. Il governo egiziano, l’alleato privilegiato dell’America e dell’Europa nel mondo arabo si comporta come la Cina comunista e la Birmania militarizzata. Ancora una volta sembrerebbe che Mubarak si stia aggiudicando la partita. In città piccoli gruppi dimostranti si fermano davanti ai cordoni di sicurezza, girano dietro l’angolo per rispuntare da un’altra parte. La scintilla della rivolta s’accende davanti alla grande Moschea di al-Fath all’inizio del lungo viale Ramsis che conduce alla piazza centrale. Ci troviamo in mezzo a una folla un po’ disorientata, non sa cosa fare ma ecco che all’improvviso siamo investiti dai gas lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo. La gente arretra poi forma vari cortei che si ingrossano man mano e avanzano lungo il viale. Sono soprattutto giovani in jeans e maglietta, gente semplice e normale mentre sono pochi gli uomini barbuti in tunica grigia, il distintivo degli integralisti come i Fratelli musulmani. I dimostranti sventolano le bandiere nazionali sollevano cartelli con la scritta "Mubarak c’è un aereo pronto anche per te!", alludendo alla fuga precipitosa del dittatore tunisino Ben Ali. Dall’alto del ponte 6 ottobre molti si fermano a guardare, ma poi da spettatori passivi si trasformano in protagonisti attivi, si uniscono ai manifestanti battendo le mani e urlando lo slogan contro il rais. Decine di migliaia di persone sono scese in piazza per la più imponente dimostrazione di protesta mai avvenuta negli ultimi trent’anni nel lungo regno dal faraone (così gli egiziani chiamano Mubarak), che sembra ormai agli sgoccioli. Compaiono ragazzi con la maschera sul volto davanti all’hotel Sheraton. Vedo una camionetta della polizia data alle fiamme sulla Corniche, l’elegante lungo fiume che costeggia il Nilo. Bruciano copertoni e si improvvisano barricate. Gli scontri sono sempre più violenti e si allargano ad altri quartieri della capitale. Gli incidenti scoppiano anche davanti all’università al-Azhar, centro intellettuale dell’Islam, viene presa d’assalto la sede del Partito nazionale democratico di Mubarak. Assediata per ore dai manifestanti pure la sede della tv di stato. La polizia dopo aver usato idranti e lacrimogeni per disperdere la folla passa alle maniere forti: carica la folla e la investe con le camionette. Fra i dimostranti si aggirano in borghese gli uomini del Mukabarat, i servizi segreti egiziani che colpiscono alle spalle. Corre voce che ci siano due morti fra i manifestanti, colpiti mentre tentavano di entrare in piazza Tahrir. Ci sono 13 vittime anche a Suez, secondo fonti mediche, e due a Mansura. Cinque morti solo al Cairo, 20 in tutto il Paese, oltre 900 i feriti nella capitale. Il governo proclama il coprifuoco fino alle sette di questa mattina. Prima al Cairo, ad Alessandria e Suez. A Suez, l’altro principale focolaio di rivolta, l’esercito intervenuto per sgomberare il centro avrebbe fraternizzato con i rivoltosi. A un certo punto, quando la situazione è ormai sfuggita di mano, anche al centro del Cairo si vedono comparire i blindati dell’esercito e i carri armati. Qualche colpo d’artiglieria pesante viene sparato. Brutto presagio per i giorni a venire. "L’inizio della fine per il regime di Mubarak " dice el-Baradei, l’ex direttore dell’Agenzia per l’energia atomica dell’Onu e Premio Nobel per la pace, tornato in patria per candidarsi alla guida del futuro governo di transizione. Dopo aver partecipato alla preghiera nel sobborgo di Giza, anche lui ha sfilato con la folla. Ma questa è una rivolta dal basso senza leader che si impongono dal-l’alto, e c’è qualcosa di emblematico nel fatto che el-Baradei ieri non abbia potuto unirsi ai dimostranti, riportato a casa sua dalle forze di sicurezza. Un presidio è rimasto davanti a casa fino a sera, ma non è ai domiciliari. Cade il buio al Cairo e l’incendio è ormai ben lontano dallo spegnersi. Mentre sto scrivendo suonano le sirene d’allarme dell’hotel che s’affaccia su piazza Tahrir. Gli spari si fanno sempre più vicini, sotto il centro commerciale è preso d’assalto e ormai brucia. Saccheggiati gli altri centri commerciali e alcune banche. Tutto attorno la polizia spara ormai a vista d’uomo. L’Egitto brucia e l’incendio rischia di propagarsi all’intero mondo arabo. La situazione è "molto fluida" commentano preoccupati dalla Casa Bianca che si dice pronta a rivedere la sua politica di aiuti militari ed economici al Cairo mentre significativamente Obama "non ha ancora deciso di telefonare" a Mubarak. Per tutto il pomeriggio si è atteso invano un discorso televisivo di Mubarak. Poi l’affondo della Casa Bianca: la situazione che si è venuta a creare "può essere risolta solo dal popolo egiziano". E il vecchio rais, ancora più solo, ha continuato a tacere. Luigi Geninazzi
29 gennaio 2011 LA RIVOLTA EGIZIANA Se crolla il "faraone" il Medio Oriente rischia il caos Casca o non casca? Con questo dubbio amletico sulle sorti del faraone Hosni Mubarak, inconcepibile anche solo qualche giorno fa, è trascorsa la giornata di venerdì, iniziata con l’oscuramento totale delle comunicazioni (telefoni fissi e mobili, internet, radio) eppure rivelatasi la più esplosiva dall’inizio delle agitazioni sociali in Egitto, martedì scorso. Sotto gli occhi sgranati di analisti, diplomatici, politici di tutto il mondo, che hanno potuto seguire su al-Jazeera e altre tv satellitari gli scontri al Cairo, la tradizionale rassegnazione egiziana è andata in frantumi come mai prima. Si è detto: Mubarak non è il tunisino Zine El Abidine Ben Ali, impossibile scalzarlo. Eppure la rabbia popolare sta facendo scricchiolare anche il suo trono trentennale. Ma l’Egitto non è la Tunisia, il Cairo ha un ruolo strategico nel Mediterraneo, a maggior ra- gione in questo primo scorcio di 2011. Ora che il Libano oscilla pericolosamente, in bilico sull’orlo di una nuova guerra civile, sotto gli occhi compiaciuti degli sciiti di Hezbollah; ora che i "palestinian papers" (le carte diffuse da Wikileaks) hanno assestato un nuovo duro colpo all’autorevolezza dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) nel processo di pace con Israele, dando nuovo fiato alle trombe di Hamas; ora che l’intero Nord Africa sembra aver raggiunto la saturazione dopo decenni di spietate oligarchie. L’Egitto è lì, chiave di volta di un complesso architrave. Un tassello di 80 milioni di cittadini compresso su tutti i fronti: a Est, dal dramma di un milione e 700 mila palestinesi di Gaza chiusi in gabbia e infiltrati da uomini di al-Qaeda; a Ovest, dall’imprevedibile Libia del colonnello Muammar Gheddafi; a Sud, dal colosso sudanese scosso da divisioni di ogni genere. Per tutto questo e altro ancora (investimenti stranieri che ammontano a parecchie centinaia di miliardi di dollari), lo stesso Mubarak o il blocco di interessi da lui rappresentato potrebbe essere "obbligato" a succedere a sé stesso, tirando fuori dal cilindro prima del tempo un successore. Con o senza la Rivoluzione dei gelsomini in Tunisia, il 2011 sarebbe stato un anno cruciale, con le elezioni presidenziali in agenda a settembre. Mubarak, in sella da cinque mandati consecutivi, è spesso costretto a soggiorni all’estero per cure mediche: secondo fonti di intelligence sarebbe già stato rimpiazzato da un direttorio di ministri fidati sostenuto dall’esercito. Fra di loro Omar Suleiman, numero uno dei servizi segreti, intermediario fra fazioni palestinesi, e fra Israele e Anp; Mohammed Sayyed Tantawi, ministro della Difesa, generale; Habib El Adly, ministro degli Interni, e altri fedeli. Fra di loro il probabile successore. La stella di Gamal, figlio 47enne del raìs, sembra ormai tramontata: inviso alla vecchia guardia del Partito nazionale democratico e all’esercito, Gamal si vede sempre di meno nelle occasioni ufficiali. Con apprensione la stampa israeliana segue gli sviluppi nel Paese confinante, l’unico fra gli Stati della Lega araba, insieme alla Giordania, ad aver firmato un trattato di pace (1979). Scrive il quotidiano Haaretz: "Gli analisti ritengono che probabilmente gli Stati Uniti vogliono evitare di accrescere l’incertezza politica (in Egitto) abbandonando Mubarak". Un auspicio, più che una affermazione. Perché nessuno può sapere chi sceglierebbero gli egiziani: Mohammed El Baradei? Oppure un esponente della Fratellanza musulmana? Il primo è sceso nell’agone politico da appena un anno dando vita all’Assemblea per il cambiamento, ma non ha saputo elaborare un programma convincente. La partecipazione alle manifestazioni di ieri e il suo arresto domiciliare potrebbero averne rilanciato le aspirazioni. La confraternita, invece, benché bandita dalla vita politica e costretta alla clandestinità, è ormai uno Stato nello Stato. Là dove le istituzioni sono assenti, i Fratelli vantano una rete capillare di ambulatori, studi legali, uffici di collocamento, negozi e supermercati, scuole. La Fratellanza, nelle sue correnti moderata o più radicale, non è una realtà estranea alla società. Con messaggi contraddittori: talvolta antiisraeliani e anti-occidentali, talvolta moderati. Come contraddittorio è l’atteggiamento Usa: ufficialmente solidale con il presidente, ma, secondo i cablogrammi di Wikileaks, pronto a finanziare le opposizioni tutte con almeno 150 milioni di dollari nel biennio 2008-2009. Federica Zoja
28 gennaio 2011 FAMIGLIA SOTTO ATTACCO Francia, la Corte costituzionale conferma il no ai matrimoni gay Il massimo consesso giuridico del Paese è stato chiamato ad esprimersi sugli articoli 75 e 144 del Codice civile che impediscono appunto il matrimonio fra persone dello stesso sesso. Ribadendo la costituzionalità dei limiti vigenti e demandando al Parlamento il compito, eventualmente, di cambiare la legge. All'origine della questione di costituzionalità, il caso di due donne, Corinne e Sophie, una pediatra l'altra professore di inglese, che vivono insieme da 15 anni in un Pacs. Le due sostengono che solo un matrimonio vero e proprio tutelarebbe appieno i quattro figli che entrambe crescono. Attualmente sono otto i Paesi europei che hanno legalizzato il matrimonio fra persone dello stesso sesso: Portogallo, Spagna, Inghilterra, Belgio, Olanda, Svezia, Norvegia e Islanda.
28 gennaio 2011 KABUL Afghanistan: attentato in un supermercato 8 morti Almeno 8 persone sono morte e altre sette sono rimaste ferite a causa di un'esplosione avvenuta all'interno di un supermercato di Kabul, la capitale dell'Afghanistan. Lo riferisce l'agenzia di stampa 'Dpà. La deflagrazione è avvenuta nel quartiere di Wazir Akbar Khan, dove si trovano molte ambasciate straniere. "Sei persone sono morte e tra loro ci sono alcuni stranieri", ha detto Mohammad Zahir, capo del dipartimento per le investigazioni criminali della capitale afghana. Un ufficiale della polizia afghana, che ha chiesto il rispetto dell'anonimato, ha precisato che tra le persone morte a causa dell'esplosione, vi sono due stranieri. Al momento non è ancora chiara la causa dell'esplosione. Pensiamo che sia stata opera di un attentatore suicida, ma non siamo sicuri e stiamo indagando", ha detto Zahir. I talebani hanno rivendicato l'attentato che ha colpito il supermercato Finest di Kabul, frequentato da stranieri, affermando che intendevano colpire gli stranieri.
28 gennaio 2011 DIRITTI NEGATI "Medio Oriente, cristiani a rischio di estinzione" L’assemblea del Consiglio d’Europa si schiera a grandissima maggioranza nel condannare le violenze contro i cristiani in Medio Oriente e nell’auspicare precise iniziative in loro difesa: chiede ai governi europei un elenco di misure contro i Paesi che "deliberatamente non tutelano la libertà di religione, compresa la libertà di cambiare la propria"; li invita a istituire un "organismo permanente di vigilanza" e a varare "d’urgenza" una vera "strategia" di difesa di questo elemento essenziale dei diritti dell’uomo; li incita a tenere conto del problema con una "clausola di democrazia" quando negoziano o gestiscono accordi di cooperazione. Nell’assemblea formata dai parlamentari dei 47 Paesi del Consiglio – l’organismo paneuropeo per i diritti umani – la risoluzione redatta e presentata dal presidente del gruppo Ppe-Cd Luca Volontè (Udc) è stata approvata con 125 "sì", nove "no" e 13 astensioni. "È un risultato di grande soddisfazione per il Ppe-Cd – ha commentato Volontè citando in particolare la solerzia dei colleghi italiani e francesi – ed è un segno di impegni chiari dopo la recente posizione dell’Europarlamento, forse meno dettagliata della nostra". Di tutta evidenza la risoluzione approvata ieri potrà influire sulla posizione che i ministri degli Esteri dell’Ue (tutti i Ventisette sono membri del Consiglio d’Europa) prenderanno lunedì sulla questione. La risoluzione infatti invita i governi a tener ben presente che "se non vengono adeguatamente affrontati i problemi della bassa natalità e dell’emigrazione, aggravati in alcune zone dalla discriminazione e dalle persecuzioni, le comunità cristiane rischiano di sparire dal Medio Oriente, regione nella quale ha avuto origine il cristianesimo". D’altro canto, si legge testo, "la scomparsa delle comunità cristiane dal Levante metterebbe in pericolo anche l’islam perché sarebbe un segnale di vittoria del fondamentalismo". Nel ricordare che il 75% delle violenze anti-religiose sono patite dai cristiani, il documento cita i massacri di fedeli nella cattedrale cattolica siriana di Baghdad e in una chiesa copta di Alessandria d’Egitto come "eventi particolarmente tragici" in una catena di "attacchi contro le comunità cristiane che si stanno moltiplicando in tutto il mondo". Tra i primi a commentare il voto, il presidente dell’Udc Rocco Buttiglione ha detto che "cominciamo a passare dalle parole ai fatti" e ha constatato che, grazie al Ppe, l’Europa riconosce la "centralità di questo problema impegnando i Paesi membri ad agire concretamente". Dichiarandosi esponenti "di una folta corrente cattolica" nella sinistra, i parlamentari del Pd, Andrea Rigoni e Paolo Giarretta, hanno sottolineato insieme che "la difesa della cristianità deve partire da casa nostra e la Chiesa va difesa non solo nelle assemblee istituzionali ma soprattutto in seno alla società civile" perché "la cristianità sia più forte e soprattutto più libera, come tutti, uomini e donne, dovrebbero essere dovunque nel mondo". Per le senatrici Idv, Patrizia Bugnano e Giuliana Carlino, l’importanza del testo "sta nel riaffermare che lo sviluppo dei diritti umani, della democrazia e delle libertà civili deve essere la base comune per tutte le relazioni internazionali". Al momento del voto l’unica delegazione nazionale a non approvare la risoluzione è stata quella turca, con sette no e quattro astensioni. Hanno votato no anche l’azero Fazil Mustafa (musulmano del gruppo liberale) e lo svizzero Andreas Gross, socialista. Si sono astenuti anche tre azeri, e singoli parlamentari di Russia, Svizzera, Olanda, Belgio, Danimarca e Islanda. La delegazione turca ha votato contro dopo aver tentato inutilmente di far eliminare un paragrafo che invita Ankara a "chiarire appieno le circostanze" dell’interruzione di Messe di Natale nel Nord di Cipro e di far processare i responsabili. "Chi mi conosce sa quanto io apprezzi gli sforzi che si stanno facendo in Turchia – ha commentato Volontè – e mi dispiace che i colleghi turchi abbiano votato in questo modo: quel paragrafo non era un attacco ma piuttosto un incoraggiamento da cogliere in positivo ma purtroppo così non è stato". Franco Serra
2011-01-28 28 gennaio 2011 NORD AFRICA IN FIAMME Scontri in Egitto, 10 morti Fermato el-Baradei Si allarga la protesta al Cairo. Secondo al-Jazira, circa 50mila manifestanti si sono raccolti nel quartiere di al Mahallah al Kubra, nel centro della capitale, nella zona della città vecchia. Migliaia di manifestanti sono anche radunati vicino alla sede del governatore della provinciale di al-Mansura: la polizia è schierata nei pressi, ma finora non è intervenuta. Alcuni giovani hanno appiccato il fuoco alla sede del partito al potere, il Pnd del presidente Hosni Mubarak, nella città di Ismailia e in quella di Porto Said. Lo riferiscono fonti locali, riferendo anche che a Suez sono stati incendiati tre edifici pubblici mentre nel Sinai del nord è stato appiccato il fuoco al municipio. DIECI MORTI Sono almeno dieci i manifestanti morti nelle proteste e negli scontri esplosi oggi in Egitto, secondo un bilancio del sito di al-Masry al-Youm. Le vittime si concentrano al Cairo, a Suez e ad Alessandria e tra loro c'è anche una donna, morta nella capitale. Alle vittime di oggi si aggiungono i sette manifestanti morti da quando la protesta antigovernativa è esplosa in Egitto martedì.
400 ARRESTI SOLO AL CAIRO Sono 400 i manifestanti arrestati oggi dalle forze dell'ordine solo al Cairo. Lo riferiscono fontidella sicurezza. EL-BARADEI AGLI ARRESTI DOMICILIARI La polizia egiziana avrebbe imposto gli arresti domiciliari al leader dell'opposizione, Mohammed el- Baradei. Lo riferisce una fonte della sicurezza citata da al-Arabiya. Sono stati invece rilasciati i quattro reporter francesi arrestati nelle scorse ore al Cairo, mentre seguivano le proteste in corso contro il governo. È quanto ha rivelato una fonte al quotidiano Le Figaro. IL NUNZIO APOSTOLICO "Sicuramente proteste inedite e mai viste prima se guardiamo agli ultimi 30 anni di storia egiziana, anche se il governo insiste nel dire che non hanno nulla a che fare con quelle che in Tunisia hanno portato alla fine del governo di Ben Ali". Lo dice all'agenzia Misna mons. Michael Louis Fitzgerald, nunzio apostolico in Egitto e missionario dei Padri bianchi. Profondo conoscitore del paese, in cui riveste il suo incarico dal 2006, e delegato della Santa Sede presso la Lega Araba, Fitzgerald preferisce non commentare quanto sta avvenendo in queste ore per le strade del Cairo e delle altre grandi città del paese. "Seguiamo con attenzione gli avvenimenti", dice, confermando che dalla zona di Zamalek, dove ha sede la nunziatura, un quartiere residenziale dall'altra parte del Nilo rispetto alla piazza Tahrir e ai palazzi delle istituzioni "la situazione appare tranquilla".
2011-01-25 25 gennaio 2011 LA RUSSIA SOTTO TIRO Attentato a Mosca Kamikaze forse donna Ci sono almeno sei stranieri, ma nessun italiano, tra le 35 vittime dell'attentato di ieri all'aeroporto Domodedovo. Lo riferisce il ministero russo per le Emergenze. Si tratta di due cittadini britannici, di un tedesco, un kirghizo, un tagiko ed un uzbeko. Finora sono stati identificati 25 corpi (quelli delle persone con addosso documenti), per gli altri sarà necessario il test del Dna. Del centinaio di feriti ancora ricoverati, la metà sono in condizioni serie o estremamente gravi. In buone condizioni invece l'italiano. Potrebbe essere stata una donna, con l'aiuto di un complice, a compiere l'attentato suicida, secondo una fonte della polizia all'agenzia Ria-Novosti. Entrambi gli attentatori sarebbero morti, secondo la fonte. "L'esplosione è avvenuta quando la presunta kamikaze, con a fianco un uomo, ha aperto una borsa. L'uomo è stato decapitato dall'esplosione", ha precisato la fonte. "Non è da escludere che i terroristi intendessero lasciare la borsa con l'ordigno nella sala degli arrivi dello scalo e che l'esplosione sia avvenuta accidentalmente oppure che l'ordigno sia stato azionato con un telecomando a distanza", ha precisato la fonte della polizia, che ha chiesto di rimanere anonima. Secondo alcune informazioni i due presunti terroristi sono stati condotti in aeroporto da un complice che poi ha aspettato in un'auto parcheggiata davanti allo scalo. L'attentato ha una chiara matrice caucasica, secondo quanto ha detto una fonte della polizia all'agenzia Ria-Novosti. "Le modalità sono quelle tradizionali dei terroristi provenienti dal Caucaso del Nord", ossia da repubbliche ribelli musulmane come Cecenia, Daghestan e Inguscezia, ha detto la fonte, che ha chiesto di rimanere anonima. Il leader del Cremlino Dmitri Medvedev parteciperà oggi alla annuale riunione dei servizi segreti, quella in cui viene tracciato il bilancio dell' attività dell'Fsb. Sulla seduta odierna incombe la tragedia di ieri. Sullo sfondo, le polemiche legate alle falle nelle misure di sicurezza allo scalo moscovita, come denunciato ieri anche dal comitato antiterrorismo. Medvedev ha annunciato che la direzione dell'aeroporto Domodedovo di Mosca dovrà rispondere dell'attentato, come riferisce l'agenzia Interfax. "Quello che è accaduto - ha dichiarato il presidente - dimostra chiaramente che ci sono state violazioni delle regole di sicurezza. C'é stato un vero fallimento per arrivare a portare, o far passare, una tale quantità di esplosivo", ha proseguito il capo dello Stato. "Tutti quelli che hanno delle responsabilità, quelli che prendono delle decisioni e la direzione dell'aeroporto dovranno rispondere di tutto. È un atto terroristico, è una tragedia", ha aggiunto.
2011-01-24 24 gennaio 2011 ATTENTATO SUICIDA Mosca, strage all'aeroporto Medvedev: puniremo i responsabili Attacco terroristico all'aeroporto di Mosca. Un kamikaze con addosso alcuni chili di esplosivo si è fatto esplodere nell'area delle salette vip, vicino al ristorante Asia Cafè, dello scalo Domodedovo, il più grande di tutta la Russia, intorno alle 16.37 ora di Mosca, le 14.37 italiane. Il bilancio è al momento di 35 morti. Tra i 150 feriti ci sarebbe un italiano. Testimoni oculari riportano scene i terrore con molte persone che girano per l'aeroporto insanguinate e fumo ovunque. Le forze di sicurezza hanno iniziato a evacuare l'aeroporto ed è stata rafforzata la sicurezza negli altri scali di Mosca Vnukovo e Sheremetyevo. La polizia sta intanto sorvegliando tutte le stazioni ferroviarie e la metro, mentre è stato disposto un servizio di emergenza in tutti gli ospedali della capitale. Venti ambulanze sono arrivate sul posto dell'esplosione. I responsabili dell'attacco terroristico all'aeroporto di Mosca saranno presi e puniti. Lo ha affermato il presidente russo, Dmitri Medvedev, commentando a caldo l'attacco terroristico all'aeroporto di Mosca. Medvedev ha convocato una riunione di emergenza con il procuratore generale, il capo dell'unità investigativa e il ministro dei Trasporti. Nel frattempo sono scattate misure speciali di sicurezza in tutti gli altri scali e in tutte le stazioni ferroviarie e metro. La polizia ha trovato i resti del kamikaze; secondo quanto riferisce l'agenzia Interfax è un trentenne dai tratti somatici arabi. È la prima volta che un terrorista attacca un aeroporto di Mosca. Condanna e turbamento della comunità internazionale per l'attentato suicida. "Condanno fermamente questo atroce atto di terrorismo contro il popolo russo", ha affermato il presidente americano, Barack Obama. Il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, ha offerto la "solidarietà" dell'Alleanza, sottolineando di essere personalmente "sconvolto" dall'attentato: "Siamo insieme in questa lotta", ha sottolineato Rasmussen, "questo è il motivo per il quale nel Consiglio Nato-Russia dobbiamo rafforzare la nostra collaborazione nella lotta al terrorismo", ha aggiunto il segretario generale dell'Alleanza, alla vigilia di colloqui ad alto livello tra rappresentanti di Mosca e della Nato a Bruxelles. Il terrorismo "è una minaccia comune che dobbiamo affrontare uniti", ha ribadito il segretario generale. Il presidente del Parlamento Ue, l'ex premier polacco Jerzy Buzek, ha espresso le proprie "condoglianze" alla popolazione russa che ha "ripetutamente sofferto nel recente passato di simili atti disumani". Condanna anche dal presidente del Consiglio europeo, Herman van Rompuy, il quale ha chiesto che i responsabili dell'attentato siano "puniti". Il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, ha definito l'attacco un atto "barbaro e ingiustificabile" e ha espresso alle istituzioni e a tutta la popolazione russa il suo cordoglio per il grave lutto che ha colpito il Paese. Il titolare della Farnesina ha inoltre sottolineato la piena solidarietà al governo di Mosca nella lotta contro il terrorismo. Anche Francia e Germania hanno parlato di un attentato "barbaro", mentre il ministro degli Esteri britannico, William Hague, si è detto "profondamente sconvolto e addolorato". Nicolas Sarkozy ha assicurato alle autorità russe la "piena solidarietà della Francia". Il ministro degli Esteri tedesco, Guido Westerwelle, inviando le sue condoglianze alle famiglie delle vittime, ha condannato l'"orribile e sanguinoso" attentato. IL MESSAGGIO DEL PRESIDENTE NAPOLITANO "In questo tragico frangente, l'Italia, unita al suo Paese da tradizionali vincoli di profonda amicizia, si stringe al popolo russo, con il quale condivide la più intransigente opposizione alla follia del terrorismo. Desidero pertanto trasmetterle a nome mio personale e di tutto il popolo italiano le espressioni del più sentito cordoglio", ha scritto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in un messaggio di solidarietà inviato al presidente della Federazione Russa, Dmitriy Anatloyevich Medvedv. Nel messaggio, reso noto dal Quirinale, Napolitano aggiunge: "Ho appreso con vivo sgomento dell'esplosione che ha colpito oggi l'aeroporto internazionale di Domodedovo, costata numerose vite umane e dietro la quale si profila una vile azione terroristica".
24 gennaio 2011 TIRANA Ancora tensioni in Albania "Non arrestano le guardie" Si acuisce lo scontro in Albania, con la Guardia repubblicana sott'accusa per l'omicidio dei tre manifestanti civili, mentre il governo ne prende le difese, rifiuta di eseguire gli arresti ordinati dalla Procura e avverte il leader dell'opposizione Edi Rama di rischiare di "essere punito in modo esemplare se tenterà un nuovo golpe". Nel mirino della maggioranza è finita anche il procuratore Capo della Repubblica. L'APPELLO DI RAMA ALL'ITALIA "L'Italia e l'Ue non devono accettare in Albania una realtà inaccettabile per il mondo democratico e condannare la violenza di Stato che uccide gente innocente". È questo l'appello lanciato stamani dal leader dell'opposizione socialista albanese, Edi Rama, conversando con i giornalisti italiani. Dalle prime ore di sabato, la Procura aveva emesso sei mandati di cattura per i massimi vertici della Guardia repubblicana, tra cui anche il comandante Ndrea Prendi, che ha il grado di generale. I sei vengono accusati di "omicidio plurimo, uso eccessivo della forza e abuso d'ufficio". Il video trasmesso dalla emittente tv albanese News 24, poche ore dopo gli scontri mostrava chiaramente i colpi partiti da un militare della Guardia dall'interno del cortile del palazzo di governo, e poi subito accasciati a terra, morti, due manifestanti. La polizia invece si è ostinatamente opposta a eseguire gli arresti, senza dare nessuna spiegazione pubblica. In giornata, dalla maggioranza partono gli attacchi alla Procura e al procuratore capo Ina Rama accusata di essere diventata "parte del golpe organizzato dall'opposizione". Più tardi è lo stesso premier a dire che "arrestare i vertici della Guardia repubblicana sarebbe stata una decapitazione di quella struttura che ha il dovere di difendere le istituzioni, e quindi - ha ribadito Berisha - non avrebbe fatto altro che esortare i criminali ad attaccare di nuovo le istituzioni". Inizialmente Berisha aveva sostenuto fosse stata l'opposizione socialista ad aver provocato essa stessa la morte dei propri dimostranti "colpiti con armi che non sono in dotazione alle nostre forze dell'ordine". Il Parlamento albanese ha approvato, con i soli voti della maggioranza di centrodestra, l'istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta sugli atti di violenza e sul tentativo di rovesciamento dell'ordine costituzionale, all'indomani degli scontri di venerdì scorso a Tirana durante una manifestazione antigovernativa. La commissione avrà, tra l'altro, il compito di verificare l'attività delle istituzioni incaricate della sicurezza e dell'ordine pubblico, e di far luce sui responsabili del "tentativo di colpo di Stato".
24 gennaio 2011 PROCESSO DI PACE IN TERRA SANTA Carte segrete su colloqui Anp-Israele Hamas: "Traditori, così ci svendono" La leadership dell'Autorità Nazionale Palestinese (Anp) fa muro contro la sua Wikileaks: il capo negoziatore, Saeb Erekat, ha contestato l'autenticità dei documenti riservati pubblicati da al-Jazeerae dal Guardian, secondo cui nel 2008 offrì concessioni senza precedenti a Israele, e si è offerto di diffondere gli originali. Erekat - che dalle registrazioni risulta aver detto a Israele di non aver mai fatto una proposta così consistente, neanche a Camp David - liquida le rivelazioni come "una montagna di bugie". "L'Anp è disposta a pubblicare tutti gli archivi relativi ai negoziati con Israele per chiarire la posizione palestinese alla popolazione araba e palestinese", ha affermato sempre Erekat. "Se, come i documenti sostengono, avessimo fatto concessioni storiche agli israeliani, perché questi nonavrebbero accettato un'offerta tanto vantaggiosa?". Una smentita è arrivata anche dal presidente dell'Anp, Abu Mazen: "Non abbiamo mai nascosto alcunché ai nostri fratelli arabi", ha dichiarato all'agenzia palestinese Wafa. "Li abbiamo sempre tenuti al corrente delle nostre attività con israeliani e americani". Ma la posizione di Erekat, che negoziò gli accordi di Oslo e fa parte dell'equipe negoziatrice dal 1995, diventa sempre più difficile e a questo punto, secondo fonti palestinesi, sono probabili le sue dimissioni. Intanto è più che irritata la reazione di Hamas. Un portavoce, Osama Hamdan, ha detto che i palestinesi sono stati "traditi" dai negoziatori e che Saeb Erekat e i suoi colleghi hanno "svenduto" il popolo palestinese. "Svendevano parte di Gerusalemme Est mentre dicevano di essere impegnati a fare di Gerusalemme la capitale dello Stato palestinese". Secondo i documenti, i palestinesi offrirono in segreto nel 2008 a Israele l'annessione di tutti gli insediamenti ebraici costruiti illegalmente, dopo il 1967, a Gerusalemme, eccetto uno, quello di Har Homa. Israele respinse la proposta, la più generosa mai avanzata dai palestinesi in tutto il processo di pace, proprio per l'esclusione di Har Homa.
23 gennaio 2011 LE INCHIESTE L’Italia che aiuta l’Africa: ancora meno fondi ma si punta a "scelte mirate" La presenza di molti attori nella cooperazione allo sviluppo rivolta all’Africa richiedono una sempre maggiore attenzione, coordinamento e rispetto di procedure trasparenti e condivise, che sappiano rendere conto dei risultati ottenuti. Anche perché i fondi sono sempre meno. Nel 2009 l’Italia ha dedicato alla cooperazione solo lo 0,16% del Pil, molto lontano dall’obiettivo dell’0,5% che avrebbe dobuto raggiungere lo scorso anno e dello 0,7% fissato per il 2015. Eppure l’impegno del nostro ministero degli Esteri e delle Organizzazioni non governative che sono impegnate nell’assistenza sanitaria in Africa non viene meno, avendo condiviso, tramite le Linee guida recentemente costruite, obiettivi e strategie che contribuiscano a rendere efficace un’azione di aiuto a 360 gradi. Questi temi sono stati al centro della giornata di studio svoltasi ad Aosta "Come cambia il modo di fare cooperazione sanitaria in Africa", promossa dall’Azienda Usl Valle d’Aosta e dalla "Fondazione Maria Bonino", che da oltre cinque anni è attiva per sostenere progetti di cooperazione sanitaria in Africa. Gli stessi progetti in cui la pediatra Maria Bonino credeva fortemente e in cui si impegnava personalmente mettendo a disposizione la sua competenza negli ospedali dei Paesi africani più poveri. Fino a quando nel 2005, mentre lavorava in Angola a un progetto del Cuamm-Medici con l’Africa, fu contagiata e morì nell’epidemia del virus di Marburg che causò centinaia di vittime nella regione angolana di Uige. Nel corso degli ultimi decenni l’esperienza ha portato a riflettere sulla cooperazione sanitaria in Africa. "Si può dire – spiega Marco Sarboraria (Medici senza frontiere) – che si passa da una medicina che risponde al sintomo, cioè al bisogno, a una più strutturata, che prevede l’invio di grosse forniture di materiali e di personale sanitario. Poi sui progetti si comincia a lavorare su larga scala, si ottengono dati, che una volta elaborati evidenziano quanto l’impegno sia stato efficace. Così il lavoro fornisce spunti per la ricerca e per fare ulteriori progetti che siano validi nel tempo, scientifici e adatti al contesto particolare in cui devono essere applicati". Questo processo di revisione critica dei progetti si è reso tanto più necessario in quanto è cresciuta la pluralità di soggetti che fanno cooperazione, ha spiegato Elisabetta Belloni, direttore generale della Cooperazione allo sviluppo presso il ministero degli Esteri: "Il ruolo di coordinamento, che non può che spettare allo Stato, ha puntato alla messa a sistema delle varie istanze attraverso la redazione di Linee guida: non dettate dall’alto, ma frutto del lavoro di diversi tavoli con gli attori più significativi delle politiche di cooperazione, dalle Ong alle università, dalle regioni alla società civile, fino a cercare di coinvolgere il mondo dell’imprenditoria. Non si può parlare di sanità se non si ha un approccio integrato allo sviluppo, se non si parla contemporaneamente di educazione, di alimentazione, di ambiente". "Una strategia basata solo sull’offerta di servizi sanitari è poco efficace" ha confermato Giorgio Tamburlini, dell’Osservatorio italiano sulla salute globale. Infatti nei Paesi in via di sviluppo che hanno ottenuto i maggiori progressi anche sanitari "i risultati più importanti sono stati ottenuti con politiche che hanno affrontato in primo luogo la povertà, e contemporaneamente le cause intermedie di esposizione e suscettibilità alle malattie (istruzione, lavoro, nutrizione, ambiente)". Una lezione che Cuamm-Medici con l’Africa ha appreso da tempo. "Ci vogliono una strategia e un approccio chiaro – spiega don Dante Carraro, direttore del Cuamm –. Ciò significa che non si possono affrontare le singole malattie (la malaria o l’infezione da Hiv) senza prendere in carico il sistema sanitario locale, aiutarlo a crescere nel suo insieme. Senza spezzettare gli interventi, perché c’è a cuore più l’interesse del donatore che il bisogno della comunità". Ma fondamentale resta il poter rendere conto di ciò che si è fatto: "C’è una crisi culturale in quest’ambito, prendono piede teorie secondo cui l’aiuto ai Paesi africani fa danno. Noi rispondiamo che se l’aiuto allo sviluppo è favorire la corruzione e la non trasparenza, siamo d’accordo. Ma se la cooperazione è capacità di dialogare con le autorità locali, di intervenire in maniera integrata e di dimostrare quel che si fa, cioè l’efficacia dell’aiuto, allora far cooperazione può davvero cambiare la situazione". Infine, sottolinea don Dante Carraro, "servono due elementi, che Maria Bonino aveva: la grande serietà umana e professionale, che porta ad avere strategia e obiettivi chiari. E dall’altra la tenacia e la fiducia, che si radicava per Maria in quel Dio che l’ha sempre sostenuta e che ti dà la forza di continuare, senza illusioni da una parte, e senza frustrazioni dall’altra, con il sano realismo dei cristiani". Enrico Negrotti
2011-01-22 22 gennaio 2011 I CONTI CON LA STORIA Blair: profondo rimpianto per le vite perdute in Iraq "Ho profondi rimpianti per le morti in Iraq", ha ammesso ieri per la prima volta l’ex premier britannico Tony Blair di fronte all’Iraq Inquiry, la commissione d’inchiesta guidata da sir John Chilcot, che da due anni indaga sulle ragioni che hanno spinto l’ex leader a dichiarare guerra all’Iraq nel 2003 a fianco degli Stati Uniti ma contro il parere della maggioranza della popolazione britannica e di alcuni membri del suo stesso esecutivo. Per la seconda volta in un anno, l’ex premier laburista è stato chiamato a testimoniare davanti alla commissione d’inchiesta sull’Iraq facendo una difficile precisazione: "Quando ho detto – ha dichiarato riferendosi alla sua prima udienza del 29 gennaio 2010 – di non avere rimpianti riguardo la decisione di intervenire in Iraq non volevo dire di non avere rimpianti riguardo la perdita di vite umane". Ma il "mea culpa" non ha provocato alcun moto di simpatia nel pubblico presente all’udienza, tra cui i membri di famiglie di soldati caduti durante il conflitto. "È troppo tardi", ha gridato per tutti una voce femminile. Blair ha fatto marcia indietro anche riguardo un paragone fatto un anno fa tra Saddam Hussein e Adolf Hitler: "Non volevo suggerire che Saddam fosse Hitler", ha dichiarato. L’Iran. Nella seduta, durata quattro ore, l’ex premier ha ripetutamente fatto cenno alla "minaccia" rappresentata dall’Iran. Alla domanda di sir Chilcot se l’intervento in Iraq non abbia reso la situazione peggiore e spinto altri Paesi a sviluppare armi nucleari, Blair, che oggi fa l’inviato delle Nazioni Unite nel Medio Oriente, ha risposto: "Non credo proprio". "L’Iran – ha proseguito – ci pone di fronte a sfide incombenti. Conosco bene il Medio Oriente, ci vado spesso, e spesso noto l’impatto e l’influenza dell’Iran ovunque. È un’influenza negativa, destabilizzante e che nutre i gruppi terroristici". La nota a Bush. Le prime due ore dell’udienza si sono concentrate, come prevedibile, sulle ragioni che spinsero l’ex premier a dichiarare guerra all’Iraq. In particolare Blair è stato messo sulla graticola da Chilcot per una nota che scrisse al presidente americano George W Bush otto mesi prima dell’inizio del conflitto in cui aveva scritto: "Puoi contare su di noi". Blair ieri ha detto quello che molti hanno sempre sostenuto nei suoi confronti, ovvero di aver assicurato il suo "forte impegno" a fare ciò che era necessario "per disarmare Saddam", a prescindere dalle preoccupazioni legali. La nota, che è stata vista dai membri della commissione, rimarrà però segreta nonostante sir Chilcot ne abbia chiesto ripetutamente la pubblicazione. Blair ieri ne ha così sintetizzato il contenuto: "Saremo al tuo fianco in questo e non ci ritireremo quando la situazione diventerà difficile. Ma ci sono difficoltà e la strada delle Nazioni Unite è quella da intraprendere". La legalità della guerra. Blair ha inoltre ammesso di non aver tenuto conto del parere dell’allora procuratore generale, lord Goldsmith, sulla legalità del conflitto in quanto si trattava di un parere "provvisorio". Il 14 gennaio 2003, Goldsmith inviò a Blair un parere legale in sei pagine secondo il quale la risoluzione 1441 dell’Onu che certificava le violazioni dell’Iraq ai suoi obblighi di disarmo non era sufficiente per scatenare la guerra. In un memorandum presentato a sir Chilcot, Blair ha ieri spiegato che in quel preciso momento "non eravamo allo stadio di una richiesta formale di parere". "Per questo – ha proseguito – ho continuato a mantenere la posizione che un’altra risoluzione non era necessaria". Blair era convinto, ha continuato, che Goldsmith avrebbe "cambiato idea una volta venuto a conoscenza dei dettagli dei negoziati condotti da britannici e americani". A quel punto, ha concluso, "avrebbe capito che la risoluzione 1441 voleva proprio dire che se Saddam Hussein avesse violato le richieste internazionali ciò avrebbe riportato in vigore precedenti risoluzioni sull’autorizzazione della forza". A testa alta. A parte il rimorso espresso nei confronti delle vittime, Blair non è apparso assolutamente scalfito da questa nuova udienza. Ha ripetuto che il conflitto e la rimozione di Saddam Hussein erano per lui "la cosa giusta da fare". Non ha contraddetto precedenti dichiarazioni, non ha fatto gaffe, non si è mostrato commosso. Ha ribadito che, anche se le armi di distruzioni di massa non sono mai venute alla luce anche dopo il conflitto, non potrà mai rammaricarsi di aver contribuito ad abbattere "un leader brutale" e aver dato un "futuro migliore agli iracheni". Elisabetta Del Soldato
21 gennaio 2011 LA RIVOLTA Tirana, la polizia spara sulla folla: tre morti Tre manifestanti morti, uccisi da colpi d’arma da fuoco "sparati da molto vicino", e più di venti i feriti. Mentre sono 17 gli agenti di polizia medicati all’ospedale militare della capitale. La protesta politica incendia l’Albania e lo scontro di piazza si sporca di sangue nel cuore di Tirana, sul lungo boulevard Deshmoret e Kombit, un tempo il lungo viale dedicato a Joseph Stalin, dove si affacciano uffici e ministeri. E proprio il Palazzo del governo del primo ministro Sali Berisha era l’obiettivo della manifestazione di ieri organizzata dal Partito socialista all’opposizione e poi degenerata nella violenza. Quando ai cori contro il governo, accusato di essere corrotto, si sono aggiunti sassi, bastoni e gli ombrelli scagliati dai dimostranti, i poliziotti hanno risposto con lacrimogeni e idranti per disperdere una folla stimata in almeno 25mila persone. La situazione è subito sfuggita di mano e a terra sono rimasti morti e feriti, un pesante bilancio di vittime: quei tre corpi peseranno e renderanno ancora più esasperata una tensione che già cova da parecchio tempo. Da quei risultati delle elezioni legislative del giugno del 2009 che i socialisti albanesi non hanno mai voluto sottoscrivere perché considerate "il risultato di una frode" che si è rivelata a favore del partito democratico per una risicata manciata di voti. E se poi dovesse essere confermato quello che ha certificato il direttore dell’ospedale militare di Tirana e cioè che le tre vittime civili "sono stati uccisi da colpi d’arma da fuoco sparati a distanza ravvicinata", la situazione si potrebbe complicare ulteriormente se nel lutto si dovesse ravvisare una intenzionalità, una provocazione: colpire così pesantemente per incendiare gli animi ancora di più. La manifestazione di ieri era stata programmata dal Partito socialista che è all’opposizione ed è guidato dal sindaco di Tirana Edi Rama, il diretto avversario del primo ministro Berisha a capo del Partito democratico: "Non vogliamo prendere il potere con la forza e senza elezioni", arringava il sindaco Rama alla piazza dei manifestanti che fronteggiavano gli agenti in assetto antisommossa. "Il governo – aveva poi aggiunto – deve dare le dimissioni e aprire la strada a nuove elezioni anticipate. È la sola soluzione per far tornare il Paese alla normalità". Da li a poco c’è invece stato lo scontro. Da prima con un piccolo gruppo di manifestanti che però si è successivamente trasformato in una massa di persone che gridavano "Vittoria" e "Se ne vada", invito rivolto al primo ministro Berisha che però ieri pomeriggio era in visita in una località del nord dell’Albania. Già la settimana scorsa c’erano state iniziative di protesta che hanno fatto da anticamera alla giornata di ieri, dopo che il vicepremier e ministro dell’Economia Ilir Meta si era dimesso perché coinvolto in uno scandalo per corruzione. Una bufera scatenatasi con la diffusione di un video che mostrerebbe Meta mentre fa pressioni per nomine di persone a lui legate e per concessioni di licenze ed appalti, in cambio di tangenti: "Sulla vicenda è stata già avviata un’inchiesta e di fronte alla giustizia io vorrei essere un semplice cittadino come tutti gli altri", dichiarava il vicepremier nell’annunciare le proprie dimissioni. A Tirana la calma è tornata in serata quando la polizia ha ripreso il controllo del centro della capitale. Il capo dello Stato albanese Bamir Topi ha fatto appello alla calma: "Tutte le forze politiche devono tranquillizzare i loro sostenitori e garantire il ripristino dell’ ordine pubblico dando sostegno alle forze di polizia". Analogo invito alla calma è stato lanciato anche dal capo dell’opposizione Rama che ha però ha accusato il governo di aver attuato "provocazioni contro una pacifica protesta". L’8 maggio l’Albania andrà al voto per le amministrative. Un test politico che sarà di rilevanza politica, considerando che la capitale Tirana, da 12 anni, è una roccaforte controllata dai socialisti di Edi Rama. Claudio Monici
2011-01-19 19 gennaio 2011 UN PAESE AL BIVIO Tunisia, cade già a pezzi il nuovo governo di unità Un giorno di vita ed è già a pezzi. Il governo di transizione varato lunedì dal premier tunisino Mohammed Ghannouchi ha perso, ieri, cinque ministri. La presenza nella formazione di quattro ministri vicini all’ex presidente Ben Ali, per giunta in ruoli chiave (Interni, Esteri, Difesa e Finanze) non è piaciuta alla gente e non è piaciuta agli stessi membri del neo-esecutivo. I tunisini sono scesi in piazza nella capitale per manifestare il loro malcontento. La polizia in assetto antisommossa è di nuovo intervenuta con idranti, lacrimogeni e spari in aria per disperdere la folla. Ma la pressione della piazza, come accade da giorni, ha presto incontrato uno sbocco politico. Il più grande sindacato tunisino, l’Ugtt (che ha avuto un ruolo determinante nella destituzione di Ben Ali) ha detto di "non riconoscere", il nuovo governo e i suoi tre ministri si sono dimessi dai loro incarichi. Si tratta di Houssine Dimassi, titolare della Formazione e dell’impiego; Abdeljlil Bédoui, ministro presso il primo ministro; e Anouar Ben Gueddour, segretario di Stato presso il ministero dei Trasporti. Si è dimesso poi Mustafa Ben Jaafar, ministro della Salute. I quattro ministri non erano presenti ieri alla cerimonia di giuramento del governo. Avrebbe lasciato anche l’ex sindacalista Taieb Baccouch, responsabile dell’Istruzione. La "crisi" però potrebbe presto allargarsi. Anche il partito "Ettajdid" (Rinnovamento) ha minacciato di abbandonare l’esecutivo "se le sue rivendicazioni non saranno soddisfatte rapidamente". Ed è sul piede di guerra il movimento islamista "Ennahdha" ("Rinascita", messo al bando dal vecchio regime), che ha pesantemente criticato il nuovo governo ("è un esecutivo di esclusione nazionale", ha spiegato un portavoce, "che lascia fuori i pilastri della resistenza" al decaduto regime) e annunciato che boicotterà le prossime elezioni. Una posizione inasprita anche della dichiarazioni del premier Ghannouchi, che ieri ha annunciato che il leader di Ennahdha, Rachid Ghannouchi, potrà tornare in Tunisia "solo dopo una legge di amnistia" che annulli la condanna all’ergastolo del 1991 che pende sulla sua testa. Non bastasse, è rientrato a Tunisi, dopo anni di esilio in Francia, Moncef Marzouki, leader storico dell’opposizione al regime, che l’altro ieri aveva definito il nuovo esecutivo "una farsa". Il "fronte" anti-Ghannouchi si sta insomma rafforzando. E il nuovo governo di unità, che dovrebbe traghettare il Paese fino alle presidenziali (tra due mesi secondo la Costituzione, tra sei secondo il neo-premier) si trova davanti una strada tutta in salita. Ieri Ghannouchi ha cercato di giustificare le sue scelte politiche, spiegando che i quattro ministri del passato regime confermati nel suo governo "hanno sempre agito per preservare l’interesse nazionale" e hanno "le mani pulite e una grande competenza". Ha spiegato di aver provato a "dosare le forze politiche in rapporto alle differenze forze attive del Paese". Ha assicurato che tutti coloro che hanno avuto un ruolo nella repressione "ne risponderanno davanti alla giustizia". Ha cercato di ricordare che cosa il Paese si sta lasciando alle spalle, dichiarando che la Tunisia "sembrava gestita dalla moglie di Ben Ali". Lui e il presidente Foued Mebazaa si sono infine dimessi dal partito Rcd, che era guidato dal rais, per tentare di placare le proteste. Ma difficilmente queste mosse rassicureranno la gente. E alla gente piacerà ancor meno sapere che ieri Ghannouchi ha telefonato a Ben Ali per informarlo sulla situazione del Paese. "Gli ho riferito che c’è un rifiuto totale del suo regime e delle personalità che appartenevano al suo governo", ha sottolineato il premier. Ma quel contatto è stato considerato da molti un "tradimento". E rischia di esacerbare ancora di più la piazza in una situazione già sul filo del rasoio. E che sta contagiando altri Paesi africani. Continuano infatti gli episodi di emulazione del giovane disoccupato che a novembre era dato fuoco in Tunisia innescando la rivolta. In Egitto, un uomo si è incendiato al Cairo, e lo stesso ha fatto un ragazzo ad Alessandra, che è morto per le ustioni riportate. In Algeria, invece, si è dato fuoco un padre disoccupato di sei figli. Barbara Uglietti
19 gennaio 2011 MISSIONE ISAF Afghanistan, la salma dell'alpino rientra domani a Ciampino Il rientro della salma di Luca Sanna, il militare deceduto ieri, 18 gennaio, in Afghanistan è previsto per domani, 20 gennaio alle ore 9.30 presso l'aeroporto di Ciampino. LA CRONACA DELLA TRAGEDIA Non è stato "fuoco amico" ma un "terrorista in divisa" dell’esercito afghano. Il ministro della Difesa Ignazio La Russa ieri pomeriggio si è precipitato davanti a telecamere e registratori a rettificare una prima indiscrezione, attribuita a fonti della Difesa. Una sparatoria "all’interno dell’avamposto" di Highlander, a circa 10 chilometri dalla base principale a Bala Murghab, nell’Afghanistan occidentale. L’ennesima tragedia per un nostro militare a soli 18 giorni dall’attacco nel Gulistan costato la vita il 31 dicembre al caporal maggiore Matteo Miotto. La notizia veniva data dallo stesso ministro mentre era in corso a Vigna di Valle la cerimonia di avvicendamento al vertice del nostro stato maggiore. Si parlava subito di due feriti, uno dei quali – l’alpino Luca Sanna, colpito alla testa – era "appeso a un filo". Qualcosa di poco chiaro nella dinamica: un indizio che ha fatto pensare alle più inquietanti ipotesi e la peggiore, quella di un omicidio compiuto da "fuoco amico", era pure rilanciata da qualche "gola profonda" anonima. Negli stessi minuti giungeva la notizia che il caporal maggiore Luca Sanna, 32 anni, dell’ottavo reggimento alpini della Julia di stanza a Cividale del Friuli ma originario della provincia Oristano, non ce l’aveva fatta. Un lunghissimo "quarto d’ora" per il ministro La Russa, costretto dalle circostanze a bruciare tempi e protocollo anticipando i primi dettagli alla stampa e non alla Camera, convocata per questo pomeriggio. Questi i primi dettagli riferiti: nell’avamposto, costituito da due casematte occupato di norma da 12 italiani e 8 afghani in addestramento, uno di questi si è avvicinato ai due alpini facendo cenni amichevoli e indicando il suo fucile come se fosse inceppato. Quando è giunto a pochi passi l’attentatore "ha esploso repentinamente dei colpi" contro gli italiani riuscendo poi a dileguarsi nonostante una risposta al fuoco. Due le ipotesi, la seconda per il ministro la meno probabile: che si fosse "mascherato con la divisa afghana" riuscendo a raggiungere l’avamposto posto in una zona periferica proprio per colpire i nostri militari, oppure che si fosse infiltrato "ab origine" nell’esercito afghano con l’intenzione di colpire dopo aver superato il periodo di addestramento. Ma è stato "fuoco nemico. Poco ma sicuro", ha puntualizzato il ministro della Difesa assicurando la massima trasparenza e collaborazione con i vertici militari. La Russa ha sottolineato come da qualche tempo a questa parte è scesa in maniera significativa la minaccia degli ordigni esplosivi mentre è cresciuto in maniera esponenziale il numero degli attacchi con armi leggere anche se è la prima volta che gli italiani sono colpiti in questo modo. Una emergenza di cui il titolare della Difesa ha discusso in loco con il comando militare italiano durante la sua recente visita nel teatro operativo. Allo studio una riduzione dei turni negli avamposti, attualmente di due settimane. L’episodio "non mette in discussione la permanenza del contingente nella missione Isaf, ma impone di valutare giorno per giorno le condizioni in cui si opera", ha concluso il ministro. "Gravi" secondo lo stato maggiore le condizione di Luca Barisonzi, l’italiano ferito: la tac ha evidenziato una lesione midollare ed è necessario un intervento chirurgico. L’alpino, pure lui della Julia, è ricoverato presso l’ospedale di Camp Arena, a Herat, ma sarà trasferito al più presto a Kandahar. Sull’episodio la procura di Roma ha aperto un fascicolo. L’attacco mortale di ieri ha portato a 36 il numero delle vittime italiane cadute nella missione internazionale in Afghanistan. Luca Geronico
2011-01-18 18 gennaio 2011 IL PAESE AL BIVIO Tunisia, governo nuovo "a metà" Alla mattina presto erano di nuovo in strada nel centro di Tunisi e anche questa volta con una richiesta politica molto precisa: evitare che nel nuovo governo di unità nazionale entrassero esponenti dell’Rcr (il Raggruppamento costituzionale democratico) dell’ex presidente Ben Ali. Determinati a non farsi scappare l’opportunità storica di indirizzare il proprio destino, migliaia di tunisini non hanno mollato la presa nemmeno ieri. E mentre il premier incaricato Mohammed Ghannouchi annunciava la sua formazione, si sono fatto sentire con forza. Non è stata una giornata facile. Perché le autorità tunisine, seppure liberate dalla mano pesante del regime collaudato dai 23 anni di Ben Ali, sono intervenute più volte per contenere la rabbia della gente. Colpi in aria, idranti e lacrimogeni hanno macchiato il cielo nella capitale e nelle altre città del Paese. A Biserta un civile è stato ucciso da un cecchino. Portando a 78, secondo i conti delle autorità, le vittime degli scontri. Alla fine, comunque, l’atteso governo è nato, accompagnato da una lunga serie di dichiarazioni concilianti con cui il neo-premier ha inteso segnare il punto di svolta. Resta ora da vedere come la folla, attenta e con i nervi scoperti, accoglierà la lista. Di certo Ghannouchi ha provato a rompere con il passato, escludendo dalla sua formazione i partiti vicini al precedente governo e facendoci entrare i leader dell’opposizione. Solo tre, però: il fondatore del Partito democratico progressista , Najib Chebbi, nel ruolo di ministro per lo Sviluppo regionale; Mustafa Ben Jafaar, leader dell’Unione per la libertà e il lavoro, alla Salute; Ahmed Ibrahimi, leader degli ex comunisti dell’Ettajdid, all’Istruzione superiore. Confermati, però, quattro ministri del precedente esecutivo: il titolare degli Interni, Ahmed Friaa (insediato solo la scorsa settimana da Ben Ali nell’estremo tentativo di riprendere in mano il controllo del Paese), quello degli Esteri Kamel Morjane, quello della Difesa Rida Qarira e quello delle Finanze. Il premier ha anche deciso di abolire del tutto il ministero della Comunicazione, che era stato più volte accusato dai partiti di opposizione di essere uno strumento del deposto presidente per impedire la libertà di stampa. Ghannouchi ha poi annunciato, nell’ordine, che il nuovo governo libererà tutti i detenuti politici; che aprirà inchieste sulle persone sospettate di corruzione; che saranno riconosciuti i partiti prima considerati fuorilegge, e ai quali era stato proibito di partecipare alla vita politica; che verrà garantita "totale libertà" di stampa e di diritti umani. "Vogliamo traghettare il Paese verso la democrazia", ha detto il premier. Spiegando però che non basteranno i due mesi previsti dalla Costituzione per indire le presidenziali: "Ci vorranno almeno sei mesi", ha precisato. Il nuovo governo dovrà intanto superare il vaglio della piazza. E già sono arrivate le prime critiche. Secondo lo storico oppositore tunisino Moncef Marzuki (che intende candidarsi alle prossime presidenziali) la formazione presentata ieri è una "pagliacciata". "La Tunisia meritava molto di più" ha dichiarato, rilevando che il nuovo governo "di unione nazionale ha solo il nome, perché in realtà, è composto da membri del partito della dittatura". Il ministro degli Interni Friaa, facendo il punto in diretta Tv sulla situazione della sicurezza nel Paese, ha detto "la situazione sta tornando gradualmente alla calma", e che "l’80% delle attività commerciali è pronta a riaprire". Ma la Tunisia si affaccia con preoccupazione sul suo nuovo futuro. Barbara Uglietti
18 gennaio 2011 Non basta fermare il fondamentalismo, serve una politica lungimirante L'interessata cecità dell'Europa ha condannato il Maghreb alla rivolta Un nuovo governo che assicuri una pacifica e democratica transizione, un processo elettorale inclusivo che corregga gli errori del passato". Nell’auspicio formulato ieri dall’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea Catherine Ashton si racchiude - pur nell’encomiabile disponibilità a fornire "la necessaria assistenza per aiutare le autorità tunisine per far fronte alle necessità più urgenti" – il suo poco onorevole rovescio, ovvero la pluridecennale cattiva coscienza dell’Europa. Tunisia, Algeria, Egitto, Marocco, Libia: il grande Maghreb che l’Europa si è messo letteralmente sotto i piedi, come fosse la polvere da nascondere sotto il tappeto, chiudendo gli occhi di fronte alle pseudo-democrazie che si affacciano sul Mediterraneo, alla risicata per non dir evanescente tutela dei diritti umani che in molte di esse alberga, attenta – l’Europa – soprattutto a due tornaconti: quello degli affari e quello della lotta al fondamentalismo e al terrorismo di matrice islamica. Perché per molte nazioni europee questo è stato essenzialmente il patto del silenzio: turarsi il naso di fronte a questi regimi invecchiati e cristallizzati nelle proprie dinastie, nelle proprie monarchie ereditarie mascherate da democrazie parlamentari in cambio della garanzia che il pugno di ferro delle tante occhiute polizie, dei tanti Mukhabarat (quei servizi di sicurezza così efficienti, pervasivi e temuti) circoscrivesse la peste del terrorismo. Il che in effetti - il ministro Frattini ha ragione - ha funzionato, non c’è dubbio, anche se forse insieme all’eversione jihadista si è strangolata in buona parte la possibilità di un’evoluzione democratica. Fino a quando, dall’Atlante a Suez, una marea montante costituita essenzialmente da giovani – mossa dall’aumento dei prezzi del pane e dall’alto tasso di disoccupazione, ma più ancora dalla mancanza di speranze, una marea parente prossima dei casseurs francesi di ben nota memoria – ha acceso una protesta che per noi europei è soprattutto un lancinante segnale d’allarme e insieme un atto d’accusa – come giustamente rileva il nostro ministro degli Esteri – per il sostanziale fallimento dell’Unione per il Mediterraneo. Nata nel 1995 avendo come finalità la cooperazione e il dialogo fra le due sponde del Mare Nostrum, essa ha dovuto attendere il 2008 per il proprio battesimo ufficiale sotto la presidenza francese a causa dell’instabilità del Medio Oriente e dei tanti conflitti – dal Libano a Gaza – che hanno dominato la regione. Il che ha generato un drammatico ritardo nell’evoluzione dei rapporti fra Europa e Paesi arabi mediterranei, lasciando spazio solo agli appetiti (e alle inevitabili rivalità) delle singole nazioni al posto di una politica comune. Per questo appare oggi francamente tardivo il mea culpa del governo francese per aver sottovalutato l’esasperazione dell’opinione pubblica tunisina ed essere rimasto pilatescamente spettatore della rivolta, preoccupato unicamente di non apparire come il "gendarme del Mediterraneo". "L’Europa – spiega invece il presidente Napolitano – deve dare risposte concrete e convincenti alle attese delle popolazioni tunisine ed algerine". Ma finora l’Europa – e non stiamo certo parlando dell’Italia, o della Spagna – è stata sfrontatamente sorda di fronte alle emergenze che nascevano nel Mediterraneo. Pensiamo solo al problema dell’immigrazione clandestina, che a più riprese Bruxelles ha derubricato come un fastidio locale, anzi, una negligenza da attribuire all’inefficienza di greci, maltesi, italiani e spagnoli, come se le frontiere meridionali dell’Unione Europea non riguardassero il club delle nazioni a nord delle Alpi. I risultati, oggi, sono sotto i nostri occhi. Vorremmo poter pensare che anche a Bruxelles, a Berlino, a Stoccolma - fra una disputa e l’altra sui direttorati ancora da assegnare, fra i maneggi per barattare il sostegno tedesco al fondo di salvataggio con la poltrona di presidente della Bce – qualcuno spalanchi gli occhi su questi rumorosi ma indispensabili vicini di casa, oggi in cerca di un futuro e di una modernità finora sfuggita di mano, domani partner commerciali e politici di un’Europa migliore di quella che abbiamo oggi. Giorgio Ferrari
2011-01-17 17 gennaio 2011 TUNISIA Tunisi nel caos, esercito contro le guardie di Ben Ali Battaglia a Cartagine, di fronte al palazzo presidenziale e una domenica pomeriggio di sparatorie, con l'incubo dei cecchini, nel centro di Tunisi. In serata l'esercito ha circondato il palazzo della presidenza della repubblica, all'interno del quale sono asserragliati uomini della Guardia presidenziale, fedelissima di Ben Ali. Uomini che, fino al momento del suo arresto due giorni fa, rispondevano al generale Ali Seriati. Oggi si è appreso che l'alto ufficiale sarà incriminato per incitamento alla violenza e minaccia alla sicurezza nazionale. I militari assediano il complesso presidenziale, affiancati dalla polizia, mentre elicotteri sorvolano la zona. Nel centro di Tunisi il pomeriggio è stato un inferno. Si è sparato per oltre un'ora, con cecchini appostati sui tetti. Nel primo pomeriggio, davanti alla sede del Partito democratico progressista (Pdp), il principale partito d'opposizione, la polizia ha trovato armi in un taxi giallo. Sono stati sparati colpi in aria e sono stati effettuati arresti, anche di due svedesi, si è detto. Ma poi si è saputo che erano cacciatori. Più tardi sono comparsi blindati nella centralissima avenue Bourghiba. Ma l'intera giornata è stata caratterizzata da notizie drammatiche e non solo a Tunisi: già in mattinata circolavano voci su raffiche sparate nella notte da veicoli in corsa, anche ambulanze e taxi, con a bordo uomini mascherati, in diverse località periferiche di Tunisi. Al riguardo la polizia sconsiglia l'utilizzo di autovetture a noleggio, distinguibili per la targa di colore azzurro, in quanto verrebbero utilizzate anche per il trasporto di armi. Il tutto viene ricollegato a gruppi, definiti "terroristi", di fedelissimi - e tra questi appartenenti ai corpi di polizia - dell'ex presidente Ben Ali. Oggi ha fatto grande scalpore anche la notizia dell'arresto di un altro componente della temuta e odiata famiglia Trabelsi, il clan di Leila, moglie di Ben Ali: Murad Trabelsi è stato prelevato in un palazzo nel quale si era rifugiato a Laouina, un quartiere residenziale semi-centrale. Un altro fratello dell'ex first lady, il potente uomo d'affari Imed Trabelsi, è morto dopo essere stato pugnalato due giorni fa. Sarà annunciata oggi la composizione del nuovo governo tunisino dopo la deposizione dell'ex presidente Zine El Abidine Ben Ali, costretto ad abbanondare il Paese venerdì dopo una rivolta popolare in corso da un mese. Secondo esponenti dell'opposizione, nel nuovo esecutivo non saranno inclusi partiti vicini al presidente caduto in disgrazia dopo 23 anni al potere. Dopo un incontro con i leader dei principali partiti di opposizione, il premier Mohammed Ghannouchi ha deciso di escludere i partiti vicini al precedente governo.
15 gennaio 2011 LA FUGA DI BEN ALI Tunisia ancora nel caos "Governo di unità nazionale" All'indomani degli scontri e della fuga dalla Tunisia del presidente Ben Ali, che si è rifugiato in Arabia Saudita, i poteri presidenziali sono passati dal primo ministro al presidente del Parlamento, Foued Mebazaa, mentre il centro di Tunisi è sotto un cappa di "calma tesa". Già alla sua periferia però in scontri avvenuta sabato mattina una persona sarebbe rimasta uccisa e a Monastir, sulla costa, un carcere è in fiamme; il bilancio è particolarmente pesante: le vittime sono almeno 57. Arrestato il genero di Ben Ali, Mohamed Sakhr El Materi, deputato e uomo d'affari: a riferirlo è la tv tunisina 'Nesmà.El-Materi è a capo di una holding economica in Tunisia che comprende anche banche e giornali. Nei giorni scorsi si rincorrevano le voci di una sua fuga in Canada con la famiglia, smentita da lui stesso con un video diffuso su Facebook.
Nella capitale ci sono mezzi militari ovunque, blindati con mitragliatrici che segnano una presenza dell'esercito fino a ieri quantomeno non così visibile. Visibili sono anche i segni degli scontri di sabato, in centro come in periferia: sulla centrale avenue Borguiba rimangono le tracce con decine di scarpe abbandonate lungo le strade laterali dei dimostranti messi in fuga dalle forze dell'ordine. Mentre alle porte della città un centro commerciale preso d'assalto ieri è stato saccheggiato. In periferia oggi ancora scontri che hanno provocato anche un morto, riferisce al Jazira. Intanto si delineano i contorni della situazione istituzionale: sabato il presidente del Parlamento tunisino ha assunto temporaneamente i poteri presidenziali ed è stato annunciato che nuove elezioni presidenziali si "dovranno tenere entro i prossimi 60 giorni". Venerdì, invece, la carica di presidente ad interim era stata affidata, con un decreto firmato da Ben Ali, al primo ministro Mohammed Ghannouchi, con la motivazione che esisteva una "temporanea impossibilità" del presidente a svolgere il proprio mandato. Appena insediatosi come presidente tunisino ad interim, Fouad Mebazaa ha formalmente incaricato il premier Mohamed Ghannouchi di dare vita a un esecutivo di coalizione. "Ho chiesto al primo ministro di formare un nuovo governo di unità nazionale", ha annunciato lo stesso Mebazaa dopo la cerimonia del giuramento. Un accordo in tal senso era già stato raggiunto da Ghannouchi nel corso delle consultazioni avute dalla matinata con le forze di opposizione; la composizione della compagine governativa sarà decisa domenica, nel corso di ulteriori colloqui. Un governo unitario, ha sottolineato ancora il capo dello Stato ad interim, "è necessario nel più alto interesse del Paese". Mebazaa si è quindi impegnato a fare sì che "tutti i cittadini tunisini, senza alcuna eccezione nè esclusione, debbano essere coinvolti nel processo politico nazionale". In base alla Costituzione, nuove elezioni presidenziali dovranno tenersi in Tunisia non prima di 45 giorni ma non oltre sessanta da oggi. In tutto il Paese regna tuttavia l'incertezza, sebbene l'agenzia di stampa ufficiale tunisina abbia comunicato che lo spazio aereo è aperto e che gli aeroporti sono operativi, non si hanno notizie al momento di arrivi o partenze. A Monastir una prigione è in fiamme e ci sarebbero decine di morti, 57 accertati secondo al Jazira. Molti sarebbero i detenuti fuggiti approfittando dell'incendio. Voci si rincorrono intanto sulla morte di cinque persone a Madhia, uno dei più noti centri balneari della costa centrale della Tunisia, che sarebbero state uccise dalle forze di sicurezza la scorsa notte per non aver rispettato le disposizioni entrate in vigore ieri con lo stato di emergenza. Non vi sono comunicazioni ufficiali. È invece certa la notizia relativa all' incendio di uno dei posti di polizia della città. Negli alberghi, secondo quanto riferisce un'imprenditrice nel settore del turismo, vi sono numerosi italiani e la situazione, per quanto li riguarda, è tranquilla. Intanto più di cento persone - tra artisti, operai, donne e bambini - del Circo Italiano Bellucci, da tre mesi in tournee in Tunisia, sono bloccati dagli scontri divampati a Sfax, località a 300 km da Tunisi. La Farnesina, tramite l'ambasciata d'Italia a Tunisi e l'Unità di crisi, sta seguendo il loro caso - come quello di tutti i connazionali presenti in Tunisia. L'UNIONE EUROPEA L'Unione europea ha lanciato un appello a tutte le parti tunisine perché prevalga la volontà di dialogo allo scopo di dare alla crisi in corso una soluzione democratica duratura, per la quale si impegna a dare il sostegno necessario. In una dichiarazione congiunta, l'alto rappresentante della politica estera della Ue Catherine Ashton e il commissario Ue all'allargamento Stefan Fule lanciano un appello affinché le parti in causa diano prova di "moderazione e restino calme allo scopo di evitare nuove vittime e violenze". "Il dialogo è la chiave", affermano Ashton e Fule. "Noi confermiamo il nostro impegno con la Tunisia e il suo popolo e la nostra volontà ad aiutarli per trovare una soluzione democratica duratura alla crisi in corso". L'Unione europea continua a seguire gli avvenimenti in Tunisia con grande attenzione. LA FARNESINA Non risultano né vittime né feriti di nazionalità italiana negli scontri in Tunisia mentre, fa sapere la Farnesina, "si registrano invece danni a strutture di alcuni imprenditori italiani, in un contesto nel quale molte imprese, tunisine e straniere, hanno subito saccheggi e atti di vandalismo". La Farnesina, tramite l'Ambasciata d'Italia a Tunisi e l'Unità di crisi - si legge in una nota del ministero - sta seguendo ininterrottamente l'evoluzione della situazione in Tunisia per assicurare la più efficace assistenza ai connazionali che si trovano in tale Paese sia in qualità di residenti che di viaggiatori temporanei.
2011-01-15 14 gennaio 2011 LA RIVOLTA DEL PANE Il presidente Ben Ali lascia la Tunisia Stato d'emergenza in tutto il Paese Il presidente tunisino Zin el-Abidin Ben Ali ha lasciato il Paese. Lo ha annunciato la tv di Stato. Il presidente del Parlamento tunisino, Fouad el-Mabzaa, ha assunto temporaneamente la guida del Paese per traghettare la Tunisia verso le elezioni anticipate. Secondo l'emittente Al-Jazeera sarebbero stati arrestati alcuni familiari della moglie del presidente in fuga. La notizia è arrivata alla fine di una giornata carica di tensione. Il presidente tunisino aveva dichiarato lo stato di emergenza e avvisato che avrebbe aperto il fuoco contro i manifestanti, nel tentativo sempre più affannoso di sedare le rivolte. La televisione di Stato aveva annunciato che Ben Ali aveva sciolto il governo e indetto nuove elezioni entro sei mesi. Ben Ali ieri aveva annunciato che avrebbe lasciato la presidenza alla fine del 2014, dopo 23 anni di potere, allo scadere del suo quinto mandato. Le autorità avevano imposto un coprifuoco dalle 17 alle 7 del mattino, mentre i mezzi dell'esercito circondavano l'aeroporto internazionale della capitale. Air France ha annunciato di aver temporaneamente sospeso tutti i voli per Tunisi. Intanto fonti mediche e testimoni mettono assieme il bilancio degli scontri avvenuti la notte scorsa nella capitale e nella cittadina di Ras Jebel, nel nordest: 12 morti, dieci dei quali nella sola Tunisi. Circa 8000 persone si sono riunite stamani fuori dalla sede del ministero dell'Interno, gridando: "Ben Ali, vattene", "Ben Ali, assassino". La folla, composta soprattutto da giovani, ha scagliato sassi contro la polizia che ha risposto con lacrimogeni. Le proteste sono proseguite oggi anche a Sidi Bouzid, la città al centro del paese dove è nato il movimento di rivolta. Diversi paesi, tra cui Gran Bretagna e Usa, hanno sconsigliato ai propri cittadini di recarsi in Tunisia, minacciando così il turismo, la prima risorsa del Paese.
2011-01-13 13 gennaio 2011 MAGHREB IN FIAMME Tunisia, continuano i disordini "14 morti e numerosi feriti" Sarebbe di 14 morti il bilancio delle vittime degli scontri tra polizia e manifestanti in diverse città della Tunisia. Secondo quanto riferiscono fonti dei sindacati tunisini alla tv araba al-Jazeera, oltre alle cinque vittime delle violenze a Douz, nel sud del Paese, si contano morti anche a Hammamet e a Sfax, dove c'è stata la più grande manifestazione di protesta dell'ultimo mese con 100mila persone in piazza. Sempre secondo le stesse fonti, nel corso della notte gruppi di giovani hanno violato il coprofuoco uscendo in strada nella periferia di Tunisi. Secondo quanto riferisce al-Jazeera, gli spari sono stati sentiti nei quartieri dove i giovani hanno deciso di violare il coprifuoco, scendendo in strada e provocando nuovi disordini. Una di queste zone è appunto quella di Ettadhamen, dove due notti fa si sono registrate le prime violenze che hanno riguardato la capitale. Alcuni testimoni citati dai siti vicini all'opposizione riferiscono che ieri notte una persona è stata uccisa, dopo essere stata raggiunta da un proiettile. Ad Hammamet, un testimone ha riferito di aver assistito alla morte di un dimostrante 27enne colpito dal fuoco della polizia. Sempre secondo i siti dell'opposizione tunisina su Internet, si sarebbero registrati scontri anche a Sfax - ora sotto il completo controllo dell'esercito - dove diverse persone sono rimaste ferite in seguito all'intervento della polizia per un incendio appiccato dai manifestanti alla sede locale del partito di governo. Fiamme anche a Tozeur: nella città turistica alle porte del Sahara è stato incendiato il palazzo del Tribunale. L'ESERCITO PRESIDIA LA TV DI STATO Violenze si sono registrate nel centro di Tunisi dove la polizia ha lanciato di gas lacrimogeni per disperdere i manifestanti. Secondo l'emittente satellitare al-Jazeera l'esercito presidia la sede della televisione di Stato, il Consiglio dei ministri e la strada principale della città intitolata a Habib Burghiba. Il presidente Ben Ali, riferisce ancora al-Jazeera, ha convocato per giovedì pomeriggio il Parlamento per discutere della situazione. Intanto si susseguono su internet voci non confermate di un possibile golpe militare in Tunisia in seguito al rifiuto dell'esercito di eseguire gli ordini del presidente Ben Ali di disperdere i manifestanti. È quanto scrive il sito del quotidiano egiziano El Wafd, il quale riferisce anche di altre voci secondo le quali la moglie del presidente tunisino sarebbe fuggita negli Emirati Arabi con le figlie per paura di un colpo di stato. Di colpo di Stato parla anche un blogger tunisino secondo il quale ci sarebbe anche un incendio nella sede del Parlamento e del ministero degli Interni a Tunisi. MINISTRI E MILITARI RIMOSSI Quanto sta avvenendo in Tunisia in questi giorni è un testa a testa continuo e violento tra il governo e il "popolo" che manifesta chiedendo il "risveglio" della Tunisia. Il presidente tunisino, Zin el-Abidin Ben Ali, ha rimosso dall'incarico il ministro dell'Interno, Rafiq al-Hajj. Secondo quanto riferisce la tv araba al-Jazeera, è stato nominato al suo posto Ahmad Faria. Inoltre, le autorità tunisine hanno deciso di formare una commissione d'inchiesta sulla corruzione nel Paese e hanno scarcerato le persone arrestate durante le manifestazioni dei giorni scorsi. Se questi atti del governo potevano sembrare tentativi del governo di dare segnali di distensione, quanto accade nei Palazzi e nelle strade non basta per sedare l'indignazione e la rabbia della gente. A Tunisi, la polizia ha avviato un'operazione contro la sede del sindacato generale dei lavoratori di Tunisi. Secondo quanto riferisce la tv satellitare al-Arabiya, i poliziotti hanno circondato la sede sindacale per arrestare le persone asserragliate all'interno. Negli scontri in corso si registrano tre sindacalisti feriti. Nel frattempo l'appena eletto ministro dell'Interno, Ahmad Faria, ha ordinato l'arresto di un ex detenuto politico scarcerato nel 2002, in prima linea nella rivolta dei disoccupati tunisini. Secondo quanto riporta il sito al-Hiwar.net, vicino all'opposizione tunisina, la polizia ha prelevato dalla sua abitazione Hama al-Hamami, noto come portavoce del Partito Comunista del Lavoro, fuori legge in Tunisia. Con lui è stato arrestato anche il suo avvocato, che si trovava in casa in quel momento. Al-Hamami era stato scarcerato nel 2002. Si era consegnato l'anno prima alle forze di polizia, dopo tre anni di latitanza seguiti a una condanna a nove anni di reclusione per la formazione di un partito fuori legge. Nei giorni scorsi aveva pubblicato sul web diversi interventi video critici nei confronti del governo e a sostegno della rivolta dei disoccupati tunisini. DISUBBIDIENTI Rimosso anche il capo di Stato maggiore dell'esercito, il generale Rashid Ammar, perché si sarebbe rifiutato di usare il pugno di ferro contro i manifestanti scesi in piazza nel corso delle ultime settimane per protestare contro la disoccupazione e il carovita. Secondo quanto riporta il sito informativo tunisino al-Hiwar.net, fonti bene informate sostengono che il generale, nominato proprio da Ben Ali alla guida dell'esercito, sarebbe stato silurato perché si sarebbe rifiutato di eseguire un ordine in occasione di una manifestazione che si è tenuta nei giorni scorsi a Cartagine, città dove risiede il presidente. "Ben Ali gli ha ordinato di aprire il fuoco sui manifestanti o di rinunciare all'incarico di capo di Stato maggiore e il generale ha scelto la seconda opzione", rivela la fonte. Sempre secondo il sito, le cui notizie non trovano conferme ufficiali, l'ufficiale si sarebbe più volte rifiutato di ordinare ai suoi uomini di usare la forza contro i manifestanti e questo avrebbe spinto il presidente tunisino a rimuoverlo dal suo incarico e a scegliere al suo posto il generale Ahmad Shabir, attuale capo dei servizi segreti militari. Il sito parla anche di casi di ammutinamento da parte di reparti della polizia che sarebbero stati costretti a caricare la folla su pressioni dell'esercito. IL SINDACATO COMMENTA LE PROMESSE DI BEN ALI "Non crediamo alle promesse del presidente tunisino Zin el-Abidin Bel Ali e per questo andremo avanti con la protesta". È con queste parole che il sindacalista Masoud Ramadani, dell'Unione generale del Lavoro di Kairouan, commenta alla tv araba al-Jazeera la decisione del capo di Stato tunisino di rimuovere il ministro dell'Interno, dare vita a una commissione che indaghi sulla corruzione nel governo e scarcerare le persone arrestate nelle scorse settimane. "Come possono promettere di rilasciare i detenuti se gli arresti continuano? - si è chiesto Ramadani -. Queste promesse non ci bastano. Le pallottole non cambieranno la voglia del popolo di riforme. Ieri notte i giovani di Tunisi hanno continuato a girare per la città, non rispettando il coprifuoco, perché crediamo che quel provvedimento non sia stato preso nell'interesse del Paese. Chiediamo riforme sociali e economiche". Della stessa opinione si dice anche Bushra Bin Hamida, ex presidente dell'Associazione delle donne tunisine democratiche, che alla tv satellitare al-Arabiya ha affermato di "non credere agli impegni assunti dal governo". "Hanno creato una commissione per indagare sulla corruzione, ma non sappiamo ancora chi ne farà parte - ha detto - e se davvero indagherà su quanto fatto dai membri dell'esecutivo".
13 gennaio 2011 AUSTRALIA Brisbane si sveglia sott'acqua Muore un giovane di 24 anni La terza città più grande dell'Australia, Brisbane sembra esser diventata una "zona di guerra", con interi quartieri sommersi dall'acqua e le infrastrutture distrutte dalla furia delle alluvioni che hanno colpito oltre 30mila abitazioni. Si registra anche un morto, un giovane di 24 anni, che eraa voluto andare a controllare le condizioni della casa di suo padre. In molti sono riusciti a scappare in tempo lasciandosi alle spalle le proprie case e i propri ricordi. Mentre si tenta di fare il punto sui danni delle alluvioni che hanno colpito il Queensland, le autorità sanitarie del Paese hanno avvisato del pericolo di malattie e del possibile aumento di infezioni a causa della presenza di carcasse di animali e dei danni al sistema fognario delle città colpite. Per comprendere la portata delle alluvioni i soccorsi parlano di una zona pari al doppio della grandezza dell'intero Texas. Oltre 100mila abitazioni a Brisbane sono rimaste senza energia e acqua potabile. "Ci aspettiamo che il numero di pazienti con infezioni salga visto che gli alimenti, l'acqua e i servizi igienico-sanitari continuano a essere compromessi", ha spiegato l'Australian Medical Association (Ama). "Sono grata a Madre Natura se non si sono avverate le previsioni più terribili, ma la gente si è svegliata di fronte all'incredibile agonia che sta vivendo la nostra città: interi sobborghi ed edifici, dei quali si vedono solo i tetti, sono sommersi dall'acqua", ha detto a Sky News Anna Bilgh, premier dello Stato.
13 gennaio 2011 UN ANNO DOPO Haiti in bianco per l’anniversario Ma la gente vuole ricominciare Nel fiume che scende dalle colline dietro Port-au-Prince bevono e si lavano uomini e animali. Non c’è altra acqua a Riviere Froid, 20mila abitanti, quasi la metà accorsi dalle colline dopo il sisma e il ciclone Tomas che a novembre ha distrutto i raccolti. È così in tutte le campagne di Haiti, le più depresse delle Americhe. Dove oggi si muore di nascosto. "Il colera arriva in questo modo e la gente si ammala e muore senza che nessuno lo sappia – denuncia padre Leandre Destin, haitiano, superiore della congregazione locale dei Piccoli Fratelli di Santa Teresa – nelle aree rurali del Paese sono già morte 6mila persone oltre alle 4mila decedute nella capitale. In tutto 10mila morti, ma non si dice. I malati sono almeno 200mila". L’epidemia dilaga per ignoranza delle norme igieniche, per la lontananza dagli ospedali e la carenza di latrine e acqua. I Piccoli Fratelli ne sono testimoni: vivono nelle zone più remote dove organizzano corsi quotidiani di prevenzione e distribuiscono bacinelle e amuchina per sciacquarsi le mani e acqua trattata col cloro. La Caritas italiana ha deciso di appoggiare i loro progetti di prevenzione sanitaria e quelli di sviluppo delle comunità delle campagne, per frenare, occupando almeno 1.500 persone, l’esodo verso le tendopoli della capitale. "Abbiamo capito ascoltando i partner locali che in questa fase dovevamo star fuori da Port-au-Prince per provare a decongestionarla – spiega Paolo Beccegato, responsabile dell’area internazionale della Caritas – puntando su sanità, formazione e lavoro e facendo diventare protagoniste le comunità. La priorità è fermare il colera, finora 100mila persone hanno beneficiato dei nostri programmi preventivi". Ad Haiti la Caritas italiana è presente con tre operatori per il coordinamento degli aiuti ed agisce a stretto contatto con la Caritas nazionale caraibica, che ha raggiunto un milione di beneficiari. Con la colletta indetta dalla Cei, l’organismo pastorale della Chiesa italiana, ha raccolto 21,6 milioni di euro avviando 51 progetti per circa 9,3 milioni. Come li ha impiegati? "Siamo in una situazione eccezionale – prosegue Beccegato – perché il sisma, il colera e il ciclone Tomas sommati alla miseria pregressa hanno prolungato l’emergenza oltre ogni limite, costringendo un milione di persone a vivere accampate in condizioni disumane. Volevamo incidere sulla povertà, così mentre 3,2 milioni sono stati destinati all’emergenza e tre milioni alla ricostruzione, per la prima volta abbiamo investito un terzo della somma raccolta in progetti socio economici e formativi". Sostiene il direttore, monsignor Vittorio Nozza, che "statistiche, numeri e voci di budget non raccontano la scelta di mettersi a servizio da compagni di strada e non da maestri". Ad esempio non dicono quanta dignità restituiranno ai terremotati di Lillevoise, a Nord della capitale, i progetti della fondazione Fhrd, composta da cattolici haitiani e da padre Giuseppe Durante della missione degli Scalabriniani. "Abbiamo comperato – afferma il missionario – alcuni terreni adiacenti alla missione per costruire case e rispondere all’emergenza abitativa. Il cantiere impiegherà sfollati mentre la Fondazione Marcegaglia donerà una macchina per fabbricare blocchi di cemento, introvabile sull’isola". Oltre all’edilizia, Fhrd stimolerà formazione professionale e agricoltura dando lavoro a 120 persone in un anno. Né un bilancio calcola l’entusiasmo generato dal dell’economia solidale, progetto di Caritas di Haiti del quale la Caritas italiana ha pagato l’avvio. "Abbiamo fondato – racconta Anis Deiby, responsabile di Ecosol – nelle nostre dieci diocesi altrettante microimprese agricole e di servizi. La Caritas costituirà una cooperativa per erogare microcrediti. Lo scopo è creare nuove filiere produttive". In due anni mille persone troveranno lavoro. L’industria tessile che esporta magliette negli States ne impiega seimila. Si poteva fare di più? Alle accuse di inefficacia risponde la rete Caritas. "Nel primo anno – spiega Jasmine Bates, segretaria delle 11 Caritas nazionali presenti ad Haiti – abbiamo investito 217 milioni di dollari, un terzo nell’emergenza, il resto in formazione, sanità e alloggi provvisori aiutando un milione e mezzo di vittime e lavorando con diocesi e parrocchie. Contando l’intervento anti-colera, abbiamo speso tra il 50 e il 60 per cento del budget. Poco? Senza stabilità politica sfido non si può fare di più". Il braccio caritativo della Chiesa punta sul lungo periodo per impedirci di dimenticare Haiti. Paolo Lambruschi
13 gennaio 2011 DISASTRO AMBIENTALE Brasile, il maltempo causa almeno 250 morti Continua a salire il numero delle vittime nello Stato di Rio de Janeiro, dove le piogge hanno ingrossato alcuni fiumi di almeno cinque metri e si sono verificate oltre 30 frane. Finora il bilancio provvisorio è di almeno 250 morti. Lo hanno reso noto le autorità locali, che hanno definito ''critica'' la situazione di queste ore nella regione. Teresopolis, a un centinaio di chilometri da Rio, è la città più colpita con almeno 130 morti. Qui in 24 ore sono cadute piogge che in media si registrano nell'arco di un mese. Altre 107 persone sono morte a Nova Friburgo e 20 a Petropolis, secondo quanto rendono noto le autorità.
2011-01-12 12 gennaio 2011 MAGHREB IN FIAMME Tunisi, 5 morti negli scontri Destituito ministro dell'Interno Cinque persone sono morte negli scontri in corso a Tunisi tra manifestanti e forze dell'ordine. Lo dice la televisione satellitare Al Jazira. Secondo Al Jazira le cinque vittime, incluso un professore universitario, sono state uccise con colpi di arma da fuoco durante gli scontri fra manifestanti e polizia. L'esercito, riferisce ancora l'emittente satellitare, è dispiegato in varie zone del Paese, ma non partecipa agli scontri. Anche nella notte, secondo testimoni, ci sarebbero state delle vittime. Il ministero dell'Interno tunisino ha decretato il coprifuoco notturno a Tunisi e dintorni in seguito ai disordini in "alcuni quartieri" della capitale. Lo si legge in un comunicato ufficiale. AGGREDITA TROUPE DEL TG3 A TUNISI Una troupe del Tg3 è stata aggredita oggi a Tunisi da alcuni manifestanti, mentre stava documentando le proteste in corso nel centro della città. "I colleghi erano scesi in piazza - spiegano dalla redazione del Tg3 - per seguire una delle manifestazioni, disperse poi dalla polizia con il lancio di lacrimogeni, quando sono stati aggrediti da un gruppo di persone non in divisa. Claudio Rubino è stato colpito e gli è stata strappata la telecamera, Maria Cuffaro è stata spinta a terra, ma entrambi sono riusciti a tornare in albergo. Sembra non sia nulla di grave, anche se ora sono a riposo perché sotto shock". I due giornalisti hanno immediatamente avvisato l'ambasciata italiana dell'accaduto. "Sono anche riusciti a riavere la telecamera, anche se sembra che sia rotta", concludono dalla redazione. SITO EGITTO, VOCI DI POSSIBILE GOLPE MILITARE Si susseguono su internet voci non confermate di un possibile golpe militare in Tunisia in seguito al rifiuto dell'esercito di eseguire gli ordini del presidente Ben Ali di disperdere i manifestanti. È quanto scrive il sito del quotidiano egiziano El Wafd, il quale riferisce anche di altre voci secondo le quali la moglie del presidente tunisino sarebbe fuggita negli Emirati Arabi con le figlie per paura di un colpo di Stato. Di colpo di Stato parla anche un blogger tunisino secondo il quale ci sarebbe anche un incendio nella sede del Parlamento e del ministero egli Interni a Tunisi. IN FIAMME TRIBUNALE TOZEUR La sede del tribunale di Tozeur, città turistica alle porte del deserto del Sahara, è stata data alle fiamme. Lo ha annunciato, nel corso di un'edizione straordinaria, Tunis7, la televisione di Stato tunisina. NOMINATO NUOVO MINISTRO INTERNO Il presidente tunisino Ben Ali ha nominato un nuovo ministro dell'Interno. Lo ha annunciato il premier Mohammed Ghannouchi in una conferenza stampa. Il nuovo ministro dell'Interno è Ahmed Fraa, ex accademico e sottosegretario. Ben Ali, secondo quanto ha detto il primo ministro, ha anche deciso la creazione di una commissione speciale che indaghi sulla corruzione e sui comportamenti di alcuni funzionari pubblici. BEN ALI ORDINA RILASCIO TUTTI ARRESTATI Il presidente tunisino Ben Ali ha ordinato il rilascio di tutte le persone arrestate in seguito ai disordini degli ultimi giorni, ha detto il premier tunisino Mohammed Ghannouci. CLINTON, AUSPICO SOLUZIONE PACIFICA Il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, ha auspicato oggi una soluzione pacifica in Tunisia. "Siamo preoccupati per i problemi e l'instabilità" in Tunisia, ha detto la Clinton in una intervista ad Al Arabiya, dicendosi egualmente preoccupata per "la reazione del governo, che sfortunatamente ha provocato la morte di alcuni giovani dimostranti". "Speriamo ci sia una soluzione pacifica, e che il governo tunisino riesca a trovarla", ha aggiunto il segretario di Stato nel corso della sua visita a Dubai. La Clinton ha poi espresso il proprio rammarico per la convocazione dell'ambasciatore Usa a Tunisi da parte delle autorità del Paese, che hanno espresso la propria "sorpresa" per le posizioni critiche assunte da Washington. FRATTINI, CONDANNA A OGNI TIPO DI VIOLENZA È necessario "condannare senza se e senza ma ogni forma di violenza contro civili innocenti, ma anche sostenere un governo come la Tunisia che ha pagato un prezzo di sangue per il terrorismo: noi siamo sempre dalla parte della lotta al terrorismo". Così il ministro degli Esteri, Franco Frattini, torna a commentare i disordini e gli episodi che stanno coinvolgendo alcuni paesi del Nord Africa sottolineando che la "ricetta" resta quella di sostenere questi Paesi nel creare le condizioni di sviluppo.
12 gennaio 2011 MAGREBH IN FIAMME Tunisia, la battaglia arriva nella capitale Nonostante le promesse televisive del presidente Zine al-Abidine Ben Ali, in particolare quella di 300 mila posti di lavoro per i giovani entro 2 anni, la Tunisia resta sul bordo del caos. Fra repressioni descritte come brutali dai testimoni, diversi focolai di rivolta sempre attivi nell’entroterra e una scia ormai lunga di suicidi giovanili di protesta, i morti si contano a decine nel Paese. E pare sgretolarsi irreversibilmente la regola del silenzio sull’altro volto del regime. Mentre per la prima volta ieri, la violenza ha raggiunto la periferia della capitale Tunisi: i dimostranti hanno attaccato edifici nel quartiere operaio di Ettadamen saccheggiando negozi e dando fuoco ad una banca e un posto di polizia. Gli agenti avrebbero quindi sparato ad altezza d’uomo e, secondo testimoni, vi sarebbero morti e feriti.I dimostranti hanno anche appiccato il fuoco allo stabile che ospita gli uffici della municipalità e in tutta la città è stata interrotta l’erogazione dell’energia elettrica. La polizia, secondo le stesse fonti, ha bloccato tutte le vie di accesso e uscita dalla città. Negli ultimi giorni, l’orrore si è fermato soprattutto a Kasserine, 290 chilometri a sud di Tunisi, capoluogo dell’omonimo governatorato confinante con l’Algeria. La polizia ha sparato sulla folla ed i morti sarebbero almeno una cinquantina, secondo testimonianze concordanti fornite dalla Federazione internazionale delle leghe dei diritti umani (Fidh) e da frange ormai dissidenti della confederazione sindacale Ugtt. In giornata, sono state smentite a più riprese le "stime" fornite dalle autorità, che invece parla di 21 vittime. Il "sabotaggio" più decisivo della versione ufficiale è giunto dal mondo sanitario. L’ospedale locale ha deciso di chiudere simbolicamente per un’ora le proprie corsie "per protestare contro il numero elevato di vittime". Ma pure numerosi cittadini si sono messi al servizio di una verità che filtra da settimane fra l’altro attraverso i network sociali su Internet, dopo diversi casi di giornalisti malmenati anche pubblicamente dalle forze dell’ordine. In alcune città dell’entroterra, come El-Kef e Gafsa, nuove proteste erano scoppiate proprio dopo il discorso televisivo di Ben Ali. Attraverso un paziente lavoro di confronto fra le testimonianze disponibili, si è appreso fra l’altro di cecchini pronti a sparare sulla folla e persino in certi casi sui cortei funebri, o ancora di saccheggi notturni attribuiti da più fonti alla polizia, la quale sarebbe stata persino sorpresa da semplici cittadini a Thala, mentre cercava di vandalizzare una farmacia. Con azioni del genere, il governo cercherebbe di alimentare a tutti i costi la versione ufficiale fornita in televisione da Ben Ali: quella di gruppi "terroristi" e di "saccheggiatori" guidati da una regia internazionale. Nella capitale poca gente si è recata al lavoro. Ma l’entroterra tunisino, resta una pentola a pressione. La tensione è sempre alta ad esempio a Sidi Bouzid, il capoluogo dove l’ondata di rivolte era cominciata lo scorso 17 dicembre. Qui, un nuovo giovane laureato senza lavoro, di 23 anni, si è suicidato gettandosi sui fili dell’alta tensione. Il quinto caso simile in 3 settimane. Intanto, nella scia delle rivolte in Tunisia e anche nella vicina Algeria – dove ha fatto scalpore le dichiarazioni del ministro dell’interno, Daho Ould Kablia per il quale "lo sport preferito dei giovani è la rapina" –, i governi dei Paesi vicini cercano di correre ai ripari. In Giordania il governo vuole evitare che esploda il malcontento popolare e prende misure "immediate" per far calare i prezzi dei generi essenziali: lo ha detto un alto responsabile governativo coperto da anonimato. Mentre per venerdì sono previste manifestazioni di protesta, sotto indicazione di re Abdallah II, il governo si appresta a varare misure che intendono "attenuare l’impatto dell’aumento dei prezzi dei prodotti di base sul livello di vita dei cittadini". Le tariffe dei mezzi pubblici, che dovevano aumentare a causa del rialzo dei carburanti, verranno congelate. I prezzi di riso e zucchero non aumenteranno negli 85 negozi dell’esercito, aperti anche ai civili. Daniele Zappalà
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CORRIERE della SERA
per l'articolo completo vai al sito Internet http://www.corriere.it2011-08-02 WASHINGTON Sì del Congresso al piano anti-default 269 voti a favore e 161 contro alla Camera. Ok anche del Senato: sì all'aumento del debito di 2.100 miliardi NOTIZIE CORRELATE In Aula anche la democratica Gabrielle Giffords dopo l'attentato di Tucson (2 agosto 2011) MILANO - A poco più di 11 ore dalla scadenza del termine il Senato ha approvato la legge per l'innalzamento del debito Usa con 76 voti a favore e 26 contrari, tra cui, secondo FoxNews, 7 democratici dell'ala liberal delusi dal compromesso raggiunto cui il presidente Barack Obama ha dato il suo imprimatur. Adesso la misura, che consente un aumento del debito di 2.100 miliardi e introduce tagli alle spese per 2.500, andrà entro martedì alla firma del presidente per diventare legge. Ed è proprio Obama ad accogliere favorevolmente la notizia: l'approvazione della legge per innalzare il tetto del debito è "un primo importante passo" ma "l'economia resta fragile" e bisogna "lavorare insieme per tagliare il deficit". "Serve il giusto mix tra taglio del deficit e tasse" ha aggiunto Obama che ha assicurato che "lavorerà per garantire una ripresa più veloce". Il primo via libera era arrivato nella notte tra lunedì e martedì alla Camera, con 269 voti a favore e 161 contrari. Per l'occasione è tornata in aula anche Gabrielle Giffords, la deputata democratica ferita gravemente in gennaio in una sparatoria in Arizona. Il senato approva Obama soddisfatto RISCHIO RATING - La diplomazia è stata al lavoro nei corridoi di Capital Hill l'intera giornata, per raccogliere i voti necessari. L'accordo scongiura il rischio di un default, ma non quello di un downgrade (abbassamento della valutazione) del debito pubblico americano da parte delle agenzie di rating: l'ammontare della misura, un aumento del tetto del debito da 2.100-2.400 miliardi di dollari e tagli per almeno 2.100 miliardi di dollari in 10 anni, è decisamente inferiore ai 4.000 miliardi di dollari identificati da Standard & Poor's per il mantenimento del rating AAA (il migliore). E l'impatto della misura sull'economia, già fragile, preoccupa. "L'accordo è positivo per l'economia, evita altri danni" afferma il segretario al Tesoro, Timothy Geithner. Il presidente della Fed, Ben Bernanke, convoca una riunione del board per discutere di "politiche fiscali e di bilancio". OBAMA - Secondo gli osservatori, la Fed dovrà aiutare ancora l'economia. Barack Obama ha rassicurato: "I tagli saranno graduali, non peseranno e ci consentiranno di continuare a effettuare investimenti in settori che creano occupazione". Ma il presidente non convince i mercati: Wall Street, dopo un balzo iniziale, procede negativa, con la doccia fredda dell'indice Ism manifatturiero sceso ai minimi degli ultimi anni, confermando le difficoltà della ripresa. La crescita americana è lenta e i tagli alla spesa nell'accordo sull'aumento del tetto del debito potrebbero rallentarla ulteriormente. Se ci sarà un downgrade da parte delle agenzie di rating, la frenata potrebbe essere anche più forte. Standard & Poor's ha messo sotto osservazione il rating degli Stati Uniti e messo in guardia su un possibile downgrade nei prossimi 3 mesi. Moody's e Fitch si sono mostrate più caute, evidenziando che gli Usa potrebbero mantenere la tripla A. Un downgrade da parte di una sola agenzia sarebbe maggiormente gestibile e avrebbe un impatto più ridotto. "Abbiamo contatti regolari con le agenzie di rating" afferma il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, sottolineando che l'accordo rappresenta "una vittoria per gli americani" e un "messaggio rassicurante per il mondo". IL PIANO - L'accordo prevede un aumento del tetto del debito di 2.100-2.400 miliardi di dollari, tagli alle spese immediati per 1.000 miliardi di dollari, fino ad arrivare a 2.100 miliardi complessivi in 10 anni. Una commissione bipartisan sarà creata per determinare ulteriori tagli per 1.500 miliardi di dollari e dovrà presentare le proprie proposte entro il Giorno del Ringraziamento, a novembre. Il Congresso dovrà approvare i tagli proposti entro il 23 dicembre, altrimenti scatteranno tagli automatici a sanità e difesa. Redazione online 02 agosto 2011 21:58
2011-07-27 I cittadini Usa intasano le linee telefoniche del Congresso per fare pressione sugli eletti Debito Usa, è stallo. Borse in rosso Crescono i timori di un default americano. Piazza Affari in territorio negativo trascinata dai bancari NOTIZIE CORRELATE Listini in tempo reale Barack Obama (Afp) Barack Obama (Afp) MILANO - I mercati non accolgono con favore lo stallo nelle trattative per l'innzalzamento del tetto del debito Usa. Dopo due sedute negative, i principali indici europei sono partiti in rosso anche mercoledì. Piazza Affari ha avviato le contrattazioni con l'indice Ftse Mib in flessione dello 0,87%. Dopo un'ora di contrattazioni ha ampliato il calo (-2,31%) penalizzata dalle banche. A metà giornata ha poi ridotto le perdite (-1,3%) in concomitanza con il calo del rendimento del Btp decennale, che dimezza l'incremento a 8 punti base. Arginano le perdite Unicredit (-3,05%), Intesa Sanpaolo (-3,93%) e Banco Popolare (-2,86%), insieme a Bpm (-1,38%). Migliora Fiat (-0,56%), mentre riparte Fiat Industrial (+2,61%), già positiva due giorni fa dopo i risultati trimestrali. Sugli scudi Impregilo (+3,92%), sull'ipotesi di un rassetto tra i soci, con i Ligresti pronti a cedere la propria quota del 33,3% in Igli, la holding paritetica a monte del colosso delle costruzioni, al gruppo Gavio e ai Benetton. Sprint di Italcementi (+2,86%) e Luxottica (+1,38%), mentre tra i gruppi che presentano oggi i conti trimestrali Snam cede l'1,33%, Pirelli guadagna lo 0,28%, Mediolanum cede l'1,64% e Ti Media appare invariata. Balzo dei rendimenti sopra la soglia del 4% nell'asta dei Btp decennali assegnati mercoledì dal Tesoro. Buona la domanda, pari a 1,593 miliardi, contro i 942 assegnati. La cedola lorda è salita al 4,07% con un incremento di 156 punti base. Londra cede lo 0,27%, Francoforte lo 0,38% e Parigi lo 0,6%. Sui mercati resta la preoccupazione per un possibile default degli Usa e per un contagio in Europa della crisi greca. A Tokyo l'indice Nikkei è sotto pressione anche per i nuovi minimi degli ultimi 4 mesi segnati dal dollaro contro lo yen, a quota 77,70, nelle contrattazioni sui mercati valutari nipponici. LE TELEFONATE AL CONGRESSO - Hanno ripercussioni sulle Borse dunque i timori legati alla prospettiva di un downgrade del debito Usa se non verrà trovato un accordo entro il 2 agosto. Negli Stati Uniti, intanto, la Camera dei Rappresentanti ha fatto slittare fino a giovedì il voto sul piano repubblicano per aumentare il tetto del debito, perché l'ufficio bilancio del Congresso ha dimostrato che la proposta per ridurre il deficit non raggiungerebbe l'obiettivo dei 1.200 miliardi di risparmio. Cresce dunque l'ansia tra gli investitori e il popolo americano che vedono allontanarsi l'ipotesi di compromesso sul piano di innalzamento del debito pubblico. E la Casa Bianca ha fatto sapere di lavorare in queste ore a un piano B. L'appello del presidente Barack Obama per un compromesso sull'aumento del tetto del debito finora è caduto nel vuoto in Congresso, con i partiti che continuano a duellare. Ma è stato recepito dagli americani che, in massa, hanno intasato le linee della Camera per esercitare quella pressione sugli eletti che il presidente americano ha chiesto nel discorso alla nazione. IL VETO DELLA CASA BIANCA - A meno di una settimana dalla scadenza 2 agosto che innescherebbe un default con conseguenze disastrose sui mercati globali, i leader repubblicani e democratici profondamente divisi ancora stentano a trovare un terreno comune di intesa. Dopo settimane di aspro confronto, sono emersi i contorni di un possibile accordo, ma repubblicani e democratici si rimpallano l'un l'altro l'accusa di non accettare alcune richieste-chiave e si incolpano a vicenda di anteporre la politica agli interessi nazionali. Il voto su una proposta dello speaker dell Camera dei Rappresentanti, John Boehner, per uscire dall'impasse non si avrà prima di giovedì; e questo comporta il rischio di un ulteriore slittamento nei negoziati sull'innalzamento del tetto del debito, richiesto dal Tesoro prima del 2 agosto per rispettare i suoi impegni di pagamento. Un default sarebbe - evidenzia la Casa Bianca - un "cataclisma" sull'economia, ma i repubblicani non cedono e Boehner, lancia la sfida: "Abbiamo i voti alla Camera e in Senato per far passare" il piano su un aumento del tetto del debito in due fasi. Una misura alla quale la Casa Bianca si oppone fermamente e sulla quale "minaccia il veto": se la ricetta Boehner fosse approvata in Congresso e arrivasse al presidente per la firma, Obama opporrebbe il proprio no e rischierebbe di trovarsi sulla spalle la responsabilità di un default. ALLA RICERCA DI UN COMPROMESSO - Il piano di Boehner si oppone a quello del leader della maggioranza democratica al Senato, Harry Reid. La Casa Bianca e buona parte degli eletti al Congresso puntano a un compromesso tra i due testi, ma Harry Reid ha detto che i negoziati non riprenderanno fino a che la proposta di Beohner non sarà esaminata dal Congresso. La proposta dello speaker repubblicano avrebbe dovuto essere presentata mercoledì ai rappresentanti del Congresso, ma uno studio dell'ufficio Bilancio del Congresso, un organo bipartisan, ha dimostrato che il risparmio garantito dal quel piano sarebbe di 850 miliardi in dieci anni (e non 1.200 come affermato da Boehner). E l'annuncio ha scatenato la rabbia degli uomini del Tea Party, il movimento ultraconservatore repubblicano, almeno dieci dei quali hanno annunciato che avrebbero votato contro la proposta del loro 'speaker'. Il portavoce di Boehner, Michael Steel, si è affrettato ad annunciare che l'ufficio dello speaker sta rivedendo la proposta per "rispettare la nostra promessa". Redazione online 27 luglio 2011 15:14
RESTA IL NO DELL'iDV Missioni, sì del Senato al rifinanziamento Il Pd si spacca ma poi vota a favore Il decreto che rifinanzia le missioni ora va alla Camera MILANO - Sì del Senato al decreto che rifinanzia le missioni di pace all'estero: 269 i voti favorevoli, 12 quelli contrari, un astenuto. Dopo l'accordo di martedì sui fondi per la cooperazione in Afghanistan, il gruppo del Pd ha infatti fatto sapere che avrebbe votato "sì" in modo compatto, nonostante rimangano all'interno del gruppo una decina di "pacifisti" dissenzienti. È quanto è emerso dalla breve riunione dei senatori democratici che hanno chiesto una sospensione dell'Aula per un confronto interno. Nella riunione i dissidenti hanno espresso le loro motivazioni ma, secondo quanto riferisce Vincenzo Vita, hanno assicurato la disciplina di gruppo al momento del voto. NO DELL'IDV - Ha invece votato "no" invece l'Italia dei valori. Felice Belisario, presidente dei senatori dell'Idv, lo ha annunciato nel suo intervento in aula per dichiarazione di voto, chiedendo una "exit strategy". Belisario ha ribadito la "solidarietà, mai messa in discussione" con i militari italiani che "fanno per intero il loro dovere" ma ha sottolineato che le truppe "sono percepite, erroneamente, come occupanti". "Invece di votare ogni sei mesi il rifinanziamento - ha proposto l'esponente dipietrista - apriamo una seduta straordinaria del Parlamento dedicata al futuro delle missioni". Redazione online 27 luglio 2011 13:04
2011-07-25 il cordoglio di napolitano e di berlusconi Ancora sangue italiano in Afghanistan Ucciso un parà 28enne, due feriti Scontro a fuoco a nord-ovest di Bala Murghab. La vittima è il caporalmaggiore David Tobiini MILANO - Ancora sangue italiano in Afghanistan. Un militare, il caporalmaggiore David Tobini, è rimasto ucciso in uno scontro a fuoco a nord-ovest di Bala Murghab, nella parte occidentale del Paese. Nato a Roma il 23 luglio 1983, Tobini era in forza al 183ø reggimento paracadutisti "Nembo" di Pistoia. È la 41esima vittima italiana nel Paese asiatico dall'inizio della missione, nell 2004, ad oggi. Nell'attacco sono rimasti feriti altri due parà: uno è in gravi condizioni, mentre l'altro non sarebbe in pericolo di vita. Tobini è la terza vittima in Afghanistan in appena un mese (Gaetano Tuccillo è deceduto il 2 luglio, Roberto Marchini il 12 luglio) e la sua morte funesta la vigilia della discussione dei rifinanziamento delle missioni all'estero, già molto contestata in Senato. COMMOSSO IL CAPO DELLO STATO - Il capo dello Stato Giorgio Napolitano ha espresso "profonda commozione" per la morte del parà e attraverso un comunicato del Quirinale ha voluto farsi "interprete del profondo cordoglio del Paese, sentimenti di solidale partecipazione al dolore dei famigliari". "Siamo vicini alla famiglia del paracadutista caduto in Afghanistan e a quelle dei due militari rimasti feriti nell'agguato - ha detto in una nota il premier Silvio Berlusconi - . A tutti i nostri soldati impegnati nelle operazioni di pace contro il terrorismo rinnoviamo la gratitudine del governo e del Paese" ha aggiunto. LA NOTA - "Durante un'operazione congiunta tra militari italiani e forze afgane nella zona a nord ovest della valle di Bala Murghab - riferisce lo Stato Maggiore della Difesa -, l'unità nella quale erano presenti anche i militari italiani è stata attaccata. Durante lo scontro a fuoco è rimasto ucciso un militare italiano, mentre altri due risultano feriti", è stato precisato in una nota. "Uno è grave mentre il secondo non è in pericolo di vita". Redazione online 25 luglio 2011 10:56
norvegia, la confessione dell'attentatore Nove anni e 1.500 pagine "Sarò il mostro più grande" Dal Vaticano alle raffinerie: Italia nel mirino NOTIZIE CORRELATE Il memoriale di Breivik (24 luglio 2011) Il dolore del premier: rialziamoci (23 luglio 2011) Norvegia, attentato al cuore di Oslo. Spari al campus dei giovani laburisti. E' una strage (22 luglio 2011) LE REAZIONI - Napolitano: "Ripudiare ogni forma di violenza" LA MAPPA - Il luogo dell'esplosione e quello dell'assalto MULTIMEDIA - Le immagini, i filmati, gli audio sulla tragedia norvegese Da uno dei nostri inviati LUIGI OFFEDDU (Ansa/Epa) (Ansa/Epa) OSLO - L'uomo che ha ammazzato a sangue freddo quasi 100 persone giudica severamente lady Gaga e Madonna, per la loro "promiscuità sessuale". E anche sua madre e sua sorella, per la stessa ragione: "Mia sorella ha avuto 50 partner, il mio patrigno 500, mia madre ha contratto un herpes genitale, metà delle mie amiche di Oslo possono essere definite promiscue perché hanno avuto più di 20 relazioni intime...". A questo Anders Behring Breivik dedica il suo manifesto-testamento, il proclama che dovrebbe spiegare al mondo il suo gesto, diffuso su Internet due ore prima della strage. Ma c'è anche altro, naturalmente. Per esempio, "l'eroe, il modello" (così lo definisce un messaggio su Facebook) punta il dito sull'Italia: sul Vaticano, dove scorge un papa Benedetto XVI "codardo, incompetente, corrotto e illegittimo", come Giovanni Paolo II; sul Parlamento, dove siedono alcuni partiti "cultural-marxisti, umanisti-suicidi, capitalisti-globalisti", elencati minuziosamente: "Pdl, Pd, Idv, Udc". Ma soprattutto, nell'indicare i bersagli da colpire in quella che chiama più volte "Eurabia", Breivik elenca in Italia 16 raffinerie di petrolio: da Porto Marghera a Taranto, da Gela a Sarroch, ci sono proprio tutte. Con le istruzioni su come farle saltare: con un barcone da pesca e "con 30-100 mila euro" si può fare "un attacco di successo", danni "da 2 a 40 miliardi". E in Italia, dice ancora, ci sono "60.000 patrioti pronti alla battaglia". Del nostro Paese, conosce molte cose: "In una lettera apparsa sull'autorevole giornale Corriere della Sera, l'ex presidente Francesco Cossiga ha rivelato nel 2008 che il governo aveva concesso libertà di movimento ai terroristi arabi, negli anni 70, in cambio della cessazione degli attacchi". Seguono molte analisi dell'opera di Cossiga, di Moro, di altri. Il killer di Utoya Il killer di Utoya Il killer di Utoya Il killer di Utoya Il killer di Utoya Il killer di Utoya Il killer di Utoya Il killer di Utoya Il manifesto non è un manifesto, ma un fiume: 1.500 pagine, che a volte sembrano ricalcate dai proclami di Unabomber, il terrorista americano Theodore Kaczinsky. E chiuse dalle foto di Breivik: "Sarò visto come il più grande mostro (nazista) mai conosciuto dalla Seconda guerra mondiale". L'autore (rischia solo 21 anni di carcere, secondo la legge norvegese) spiega in una sorta di ideazione frenetico-mistica le premesse degli attentati di Oslo (svegliare, o punire, la gioventù cristiana troppo aperta al "multiculturalismo marxista" islamizzante, qualunque cosa esso sia); e rinarra duemila anni di storia europea fra citazioni stralunate di Hitler, Carlo Magno, e Oriana Fallaci; poi inneggia ai "cavalieri-giustizieri" che combatteranno la "guerra civile europea" sotto i vessilli cristiani di Lepanto e fra turbe di emiri fuggenti. Seguono tabelle chimiche sulla preparazione dei fertilizzanti (per la realizzazione di esplosivi?), e di nuovo studi approfonditi - centinaia i testi citati, compreso Gramsci sulla battaglia di Poitiers, sull'assedio di Vienna, sullo ius primae noctis praticato dai sultani ottomani. Una tragica via di mezzo fra il Mein Kampf e Tartarino di Tarascona. Il documento si apre con una croce purpurea e la scritta "2083 una dichiarazione europea di indipendenza". E più sotto: "In lode della nuova milizia dei Poveri commilitoni di Cristo e del Tempio di Salomone", cioè l'ordine dei cavalieri templari di Breivik. Ciò che segue, gronda minaccia: "Ho speso 9 anni di vita per questo progetto", "Se sei incapace di uccidere delle donne per cavalleria, non devi unirti alla resistenza armata", "Giovanni Paolo II baciò il Corano in pubblico... i preti sono i più strenui difensori dell'Islam... la corruzione va estirpata dal Vaticano", "Una volta che decidi di uccidere, meglio troppi che troppo pochi". E poi: Se potessi salvare 1000 individui sacrificandone 100, contribuiresti o no a uccidere quei 100?". Lui la risposta l'ha data: ne ha uccisi 93, l'altro ieri (ultimo bilancio) e secondo fonti ufficiose avrebbe usato pallottole esplosive, quelle che non lasciano scampo. E' orgoglioso, e dice di non essere solo. Alla fine, si firma infatti: "Con l'aiuto dei fratelli e sorelle in Inghilterra, Francia, Italia...".
Alle radici dell'orrore L'infinita idiozia del Male Il dolore, il cordoglio del mondo di CLAUDIO MAGRIS Finché non emergeranno inoppugnabili - per ora altamente improbabili - prove di una cospirazione terroristica, l'inaudito massacro norvegese va considerato un fatto di cronaca nera, ancorché di immani proporzioni. Esistono certo nel mondo tante e antitetiche associazioni terroristiche capaci di qualsiasi efferatezza, ma esiste anche il crimine - ancor più misterioso e più inquietante proprio perché spesso apparentemente immotivato - che nasce, si organizza e si consuma nella mente di un solo individuo, all'infuori di ogni pur delirante progetto politico. di CLAUDIO MAGRIS Come ha scritto sul Corriere Pierluigi Battista, cercare sempre il complotto (a suo modo razionale pur nella sua perversità), la spiegazione politica e sociologica, un preciso disegno collettivo, è un modo inconsapevole di rassicurarsi, identificando un ordine pur abbietto; un modo di abbandonarsi a fantasticherie su trame enigmatiche, fondamentalmente paurose ma anche involontariamente gratificanti, come è spesso gratificante soffermarsi sulle vaghe immagini dell'incubo, dell'orrore e della paura. Interpretare o cercare di interpretare dà sempre conforto, quando non addirittura supponente compiacimento; dinnanzi a tanti delitti ancora insoluti i pareri sulle loro più o meno nascoste motivazioni sembrano più importanti (e occupano più spazio nei giornali) delle indagini, che invece sono in quel momento la prima e forse l'unica cosa che conti. Certamente, come diceva uno strombazzato e spesso pappagallesco ma veritiero slogan sessantottesco, "tutto è politico". Nessun individuo arriva dalla luna. Ognuno è intessuto del mondo in cui vive, sia egli un solitario misantropo o il più socievole degli uomini; vive nel mondo e almeno in parte lo assorbe, mescola al proprio dna ciò che penetra consapevolmente o inconsapevolmente in lui dalla realtà esterna. Non c'è idea, passione, abitudine, desiderio, paura, comportamento che sia unicamente nostro; è vero che, come dicevano i filosofi Scolastici, l'individuo è ineffabile o almeno che c'è in ognuno qualcosa di ineffabile, ma anche questa imprendibile e mobile ombra del nostro cuore è intessuta di socialità. Detto questo, resta una netta differenza tra il gesto individuale di una persona e un progetto, collettivo anche se messo in atto individualmente, di un'organizzazione. L'omicida norvegese sembra assimilabile, con alta probabilità, ai Landru o a Jack lo Squartatore - pure essi, come tutti, figli del loro tempo - piuttosto che agli assassini dell'Italicus o di Piazza Fontana. Sarebbe infame usarlo per infangare l'uno o l'altro movimento politico. Il suo gesto atroce mostra la continua latenza del male, la sua possibilità di scatenarsi in qualsiasi inatteso momento; rivela la nostra convivenza quotidiana, gomito a gomito, con il male, sempre in agguato e talora spaventosamente in azione. Quella macelleria di esseri umani mostra pure l'infinita banalità e idiozia del male e della violenza, che tante volte ci vengono invece mostrati quasi avvolti di seduzione, espressioni di chissà quali infere ma profonde verità; il coltello di Jack lo Squartatore sembra aver affascinato come la spada di un angelo diabolico tante persone, anche se non certo il ventre squarciato e le sofferenze delle donne da lui uccise, le uniche, vere protagoniste di quella tragica storia, in cui lui è una sia pur sciagurata comparsa. È una vergogna, pur inevitabile, mandare a memoria il nome dell'assassino norvegese e non quelli delle sue vittime. Quel meccanico e ripetuto premere il grilletto fa assomigliare quell'assassino al meccanismo di una mostruosa catena di montaggio. Naturalmente anch'egli è un uomo la cui umanità non si esaurisce nei suoi crimini, uomo che va perseguito ma anche tutelato secondo la legge uguale per tutti, anche per gli efferati assassini; un uomo che probabilmente avrà avuto le sue ossessioni, le sue sofferenze, le sue paure. Si può e si deve avere rispetto - a parte la qualificazione giuridica dei suoi atti e la pena da essi richiesta - perfino per lui, ma non - secondo la banale retorica del male - perché è un assassino, bensì nonostante sia un assassino. Il suo delitto è la cosa non solo più orrenda, ma anche più stupida, più meccanica, più ottusa della sua vita. L'omicida di oltre 90 persone pare si sia definito "un fondamentalista cristiano", termine privo di qualsiasi senso. Spesso, fra l'altro, si identifica erroneamente il fondamentalismo con l'integralismo, specialmente religioso, di una o di un'altra fede (oggi soprattutto quella islamica), e in generale con una forma particolarmente intollerante di tradizionalismo religioso. Il fondamentalismo ha poco o nulla a che fare con la tradizione, anche con quella più gelosamente custode dell'osservanza e dell'immobilità di un credo. Il fondamentalismo non è un fenomeno tradizionale, radicato nel passato, ma è un fenomeno squisitamente moderno, caratteristico delle società di massa e della globalizzazione, così come - per fare un esempio - il fascismo è un fenomeno totalitario moderno radicalmente diverso dagli autoritarismi del passato. Quel dito meccanicamente omicida non dovrebbe indurre a riflessioni sulle società ricche e tranquille come quella norvegese o a disquisizioni del genere. Altre forme del male - queste sì politiche, sociali, collettive - giungono non solo da società arretrate e barbariche, bensì pure da società aperte e civili, considerate modelli di democrazia quali ad esempio l'Olanda o certi Paesi scandinavi in cui avanzano aggressivi movimenti xenofobi in aperto contrasto con la tradizione dei loro Paesi. Se la xenofobia è più forte in Olanda che in Spagna, ciò deriva forse dal fatto che la cultura di quest'ultima, come di altri Paesi, ha conservato più a fondo quel senso sacro della vita che distingue fortemente i molti, moltissimi valori che devono essere messi in discussione da quei due o tre valori essenziali (per esempio l'uguaglianza di tutti i cittadini a prescindere dall'appartenenza sessuale, etnica, religiosa o di altro genere) che dobbiamo considerare come assoluti, non più discutibili e non più negoziabili. Molto, quasi tutto, deve essere optional , ma non tutto. Quando "tutto è possibile", come scriveva con orrore Dostoevskij, il mondo diventa orribile. Ma non si può fare di questo una colpa all'assassino norvegese, né fondamentalista né cristiano; è sufficiente addebitargli oltre 90 omicidi. 25 luglio 2011 08:51
la strage norvegese e la mitraglietta del killer Quando la follia è aiutata dalle armi di BEPPE SEVERGNINI Domanda: perché un uomo che invocava "l'uso del terrorismo come mezzo per risvegliare le masse" teneva in casa, legalmente, una mitraglietta Ruger Mini 14 semi-automatica? Perché lo psicopatico che sognava di diventare "il più grande mostro dopo la Seconda guerra mondiale" - il suo diario pubblicato su Internet - ha potuto usare l'arma per condurre il suo sconvolgente safari umano? In Norvegia ci sono 439.000 cacciatori - uno ogni dieci abitanti - ed esistono leggi severe sulle armi da fuoco: evidentemente, non bastano. Anders Behring Breivik ha confessato nel suo farneticante memoriale: "Invidio i nostri fratelli Americani perché le leggi sulle armi in Europa fanno schifo in confronto. Sulla domanda ho scritto: "...per la caccia al cervo". Sarei stato tentato di dire la verità: "...per giustiziare marxisti culturali/traditori multiculturali categoria A e B. Giusto per vedere la reazione"". Simboli celtici e giallisti scandinavi, templari dilettanti e angoli bui nell'anima nordica: si discute di tutto, in queste ore, nel tentativo di spiegare l'inspiegabile. Di armi, però, si parla poco. Quasi fosse inevitabile che un cittadino si procuri una mitraglietta. Un prezzo da pagare alla modernità, uno dei tanti. E invece, se non ci fosse stata quell'arma, l'isoletta di Utoya - latitudine incerta, nome vagamente platonico - sarebbe rimasta un esotico indirizzo locale. I pazzi criminali ci sono sempre stati. Ma uno psicopatico con un coltello ammazza una persona, un fanatico con un fucile ne uccide due o tre. Un folle con una mitraglietta può sterminare dozzine di ragazzini, come se fossero leprotti in un recinto: ora lo sappiamo, purtroppo. Il mantra dei cittadini armati è noto: "Non sono le armi che uccidono, sono gli uomini". D'accordo: ma gli uomini, senza armi, uccidono meno. O non uccidono proprio. Non è semplicismo: è semplice buon senso per tempi cattivi, anzi pessimi. Qualcuno dirà: un criminale riesce comunque a procurarsi ciò che vuole. Forse è così. Ma la ricerca lascerà tracce, e le tracce destano sospetti. Il placido acquisto di una semi-automatica è una tragedia che aspetta di accadere. Molti americani, si sa, rifiutano questo discorso. Il diritto di portare armi è scritto nella Costituzione, viene da una storia dura e da una geografia difficile. Resta un fatto: quasi tutte le stragi degli ultimi anni sono avvenute perché lo psicopatico di turno aveva a disposizione un'arma sulla quale non avrebbe dovuto mettere le mani: Virginia Tech USA (2007, 33 morti); Jokela e Kauhajoki in Finlandia (2007 e 2008, 9 e 11 morti); Geneva County, Usa (2009, 10 morti); Bratislava, Slovacchia (2010, 8 morti); Cumbria, Uk (2010, 12 morti); Tucson e Grand Rapids, Usa (2011, 6 e 8 morti). Certo, potremmo osservare che - salvo eccezioni - queste tragedie sembrano accadere in Paesi disciplinati e socialmente coesi: come se la pressione, senza sbocchi quotidiani, esplodesse con più violenza. Ma rischieremmo di scivolare nella sociologia. Concentriamoci su un fatto, ed è un fatto fondamentale. Una società matura deve prevedere la follia: non potendola evitare completamente, provi a limitarne i danni. Le armi automatiche e semi-automatiche vanno tolte dalla circolazione; le armi sportive, concesse con grandissima cautela. In molti non sono d'accordo. La soluzione, secondo costoro, non è togliere di mezzo le armi: è armarsi tutti e di più. I sostenitori di questa tesi, nelle ultime ore, hanno invaso i social network e i blog - soprattutto negli Usa - ma non solo. La strage di Oslo - sostengono - dimostra che il "gun control" ha fallito; mentre la presenza di adulti armati sull'isola avrebbe impedito la tragedia. Rifiutano di ammettere che una mitraglietta è il mezzo con cui un omicidio diventa una strage, e una tragedia si trasforma in una catastrofe. Forse perché non avevano figli su quell'isola. Buon per loro. 25 luglio 2011 08:53
La strage dell'isola di Utøya Kasper, il tecnico informatico che ha salvato i ragazzini con la sua barca "Non sono un eroe, tanti avrebbero fatto la stessa cosa". Anche un turista tedesco ha tratto in salvo molte persone Kasper Ilaug intervistato dalla Cnn Kasper Ilaug intervistato dalla Cnn MILANO - Sulla sua piccola barca da pesca ha fatto avanti e indietro, dalla terraferma all’isola, e portato in salvo dozzine di giovani: lui è uno degli "eroi di Utøya", Kasper Ilaug, 53 anni, un tecnico informatico che, senza esitare un attimo, ha deciso di dare il suo aiuto. "Ero davanti alla tv a guardare il Tour de France quando sulla Cnn ho visto la strage che si stava compiendo sull’isola". Pochi minuti dopo l’esplosione nel quartiere governativo di Oslo, a Utøya inizia la strage dei giovani. Le persone fuggono prese dal panico verso l'acqua; alcuni si nascondono dietro le rocce, le mura, i cespugli o tentano di sfuggire lungo la spiaggia. Quando venerdì pomeriggio Kasper Ilaug ha ancorato la sua barca da pesca di sei metri sulle rive dell’isolotto a circa 40 chilometri dalla capitale, si è trovato di fronte decine di ragazzi e ragazze in preda al panico che chiedevano aiuto. "Alzavano le braccia al cielo, agitati, impauriti e sotto choc", ha raccontato alla Cnn. "Poi alcuni di loro si sono fatti coraggio, si sono avvicinati e mi hanno chiesto se anch’io fossi un poliziotto". Un uomo travestito da poliziotto aveva infatti appena fatto fuoco su di loro, uccidendo molti dei loro amici. IN VIAGGIO VERSO L'ISOLA DELL'ORRORE - Poche ore prima Ilaug si trovava nella sua casa estiva sull'isola di Storøya, vicino a Oslo. "Un amico mi ha chiamato al telefono, dicendomi: "Devi prendere la barca e salvare le persone a Utøya perché lì è accaduto qualcosa di terribile". All'inizio ho pensato che mi prendesse in giro", ha spiegato il programmatore norvegese. Poi non c'è stato un attimo da perdere. Di lì a poco il 53enne ha preso il suo iPad, il cellulare, una giacca di colore giallo chiaro, un casco rosso e gli stivali per proteggersi dalla pioggia ed è corso al molo dov'era ancorata la piccola barca di un conoscente. Un quarto d’ora più tardi si trovava sull’isola dell’orrore. "Mentre mi dirigevo verso Utøya mi è arrivato un sms da un amico che mi metteva in guardia da un pazzo che stava sparando sulla gente; quando ho visto gli elicotteri sopra la mia testa e sentito le urla di disperazione provenire dall’isola ho capito che non si trattava di uno scherzo". L'AIUTO VIA MARE - Ilaug ha caricato a bordo della piccola imbarcazione dozzine di giovani. ""Grazie, grazie, grazie, grazie", hanno continuato a ripetere i ragazzi per tutto il tragitto". L’uomo ha fatto avanti e indietro per un paio di volte, consapevole del pericolo a cui stava andando incontro. "Non solo rischiavo di capovolgermi, ma con quel casco rosso e la giacca gialla sapevo di essere un bersaglio perfetto per l'omicida", ha detto Ilaug. In ogni caso non vuole essere definito un eroe: "Ci sono molte persone che avrebbero fatto la stessa cosa". Il norvegese non è stato l’unico che, seduta stante, ha deciso di intraprendere qualcosa per fermare la strage. Molti turisti e semplici cittadini in possesso di una barca hanno prestato aiuto in quel tragico pomeriggio di venerdì. Come il tedesco Marcel Gleffe, in vacanza in un campeggio sull’isola di Utvika, sulla sponda opposta all'isolotto teatro dell'orrore, a circa 600 metri di distanza. Il 32enne ha tratto in salvo una ventina di ragazzi dalle acque gelide. "In mare c’erano adolescenti ovunque, fuggiti a nuoto da Utøya. Ho dato loro giubbotti di salvataggio, li ho estratti dall’acqua, trascinati sulla barca e portati a riva", ha spiegato. Marcel Gleffe, tuttavia, sottolinea: "Quello che ho fatto io, e hanno fatto altri con le loro barche private, era una cosa ovvia in quel momento". Elmar Burchia 24 luglio 2011 12:38
NORVEGIA Breivik progettava da due anni la strage Oslo, online il memoriale del killer: "Sono un mostro" Un giornale scrive: "largamente copiato da Unabomber" 2083 DECLARATION INDIPENDENCE Memoriale di BreivikBreivik con un arma automatica (Reuters) Breivik con un arma automatica (Reuters) MILANO - Un memoriale di 1500, "2083 Dichiarazione d'indipendenza europa", con il progetto dell'attentato di Oslo. Lo ha scritto Anders Behring Breivik, l'uomo arrestato per la strahe di Utoya e per l'esplosione in città a due passi dalla sede del primo ministro norvegese. Breivik stava preparando gli attentati almeno dall'autunno del 2009, quando il voluminoso documento è pubblicato su internet. Nel memoriale, il norvegese spiega nei dettagli i preparativi della spedizione, invocando "l'uso del terrorismo come mezzo per risvegliare le masse", e dice di aspettarsi di essere ricordato "come il più grande mostro dopo la Seconda Guerra Mondiale". PUBBLICATO POCO PRIMA DELLA STRAGE - La polizia norvegese ha riferito che il documento è stato pubblicato online venerdì 22 luglio, lo stesso giorno degli attentati. Le autorità non hanno confermato che sia stato Breivik a scrivere il manifesto, ma il suo avvocato, Geir Lippestad, vi ha fatto riferimento e ha spiegato che il suo assistito ci ha lavorato per anni. Il documento è firmato Andrew Berwick, pseudonimo anglicizzato dell'uomo che ha confessato di essere l'autore degli attentati. Su youtube il video sul memoriale LA DICHIARAZIONE D'INDIPENDENZA - Fregiata di simboli celtici e richiami alla storia dei cavalieri templari, dalla ricerca del sacro Graal alla croce di Gerusalemme, il libro è firmato dall'attentatore che per l'occasione ha usato la versione anglosassone del proprio nome: Andrew Breivik. Il memoriale rra apparso alcuni mesi fa sul sito di discussioni norvegese Freak. Nel testo si fa riferimento al popolo europeo parlando di "libere persone indigene d'Europa, dichiariamo guerra preventiva contro tutte le elite marxiste e multiculturaliste dell'Europa occidentale. Sappiamo chi siete, dove vivete e stiamo arrivando per voi". Il manifesto promette poi vendetta per chi ha "tradito" l'Europa. "Stiamo individuando ogni singolo traditore multiculturalista dell'Europa occidentale", continua il documento. "Voi - prosegue il manifesto - sarete puniti per i vostri atti di tradimento contro l'Europa e gli europei". Il manifesto fa anche riferimento a future vittime. "Per poter attuare con successo la censura dei media culturali marxisti e multiculturalisti saremo obbligati ad attuare operazioni significativamente più brutali e mozzafiato che porteranno a vittime". Infine il titolo, 2083, fa riferimento alla caduta della cultura occidentale prevista per quell'anno: "Potete stare certi che per allora crolleranno la cultura occidentale e i regimi multiculturali e marxisti".
IL PLAGIO - Il memoriale postato su internet da Anders Behring Breivik qualche ora prima delle stragi per spiegare le motivazioni del suo gesto è stato largamente copiato dal manifesto di Unabomber. A scriverlo è il quotidiano norvegese VG, che, mettendo a confronto i due documenti, quello del folle norvegese e quello di Theodore Kaczynski, il criminale americano condannato per aver inviato pacchi esplosivi per 18 anni, facendo 3 morti e 23 feriti, rivela come siano state cambiate solo poche parole, sostituendo "sinistra" con "multiculturalismo" e "marxismo culturale". Nelle 1500 pagine in inglese, intitolate "2083 - Dichiarazione europea di indipendenza", il giovane 32enne norvegese si scaglia contro la "paura irrazionale delle dottrine nazionalistiche" che, per il timore della venuta di "nuovi Hitler", "ci impedisce di fermare il nostro suicidio culturale mentre la colonizzazione islamica cresce di anno in anno". Breivik sottolinea di non odiare i musulmani ma minaccia la loro espulsione se non si saranno "assimilati al 100% entro il 2020". I LEGAMI GRUPPO RAZZISTA INGLESE - Breivik aveva collaborato con un gruppo inglese di estrema destra, l'English Defence League (Edl), un gruppo che aveva come scopo dichiarato alimentare nei propri Paesi l'odio contro gli islamici. In un'email al sito politico norvegese Document.no, Breivik aveva rivelato di aver discusso di tattiche e strategie "anti-islamiche" anche on un altro gruppo, Stop the Islamification of Europe. Breivik ammirava l'Edl per come era riuscito a provocare reazioni estreme da parte di gruppi musulmani e di estrema sinistra e sognava di fondare un gruppo simile in Norvegia per combattere l'immigrazione dei musulmani: "Devo dire che mi ha impressionato positivamente la velocità con cui sono cresciuti e questo è grazie a sagge scelte tattiche dei dirigenti. L'Edl è un esempio e una versione norvegese è l'unico modo per combattere le molestie nei confronti dei conservatori della cultura norvegese", aveva scritto Breivik nell'email. IL PADRE: L'HO SAPUTO DA INTERNET - Il padre di Breivik ha confessato a un quotidiano di essere "scioccato" e di aver saputo del coinvolgimento di suo figlio da internet. "Stavo leggendo i giornali online e all'improvviso ho visto il suo nome e la sua foto sulla rete - ha detto il padre al quotidiano Verdens Gang. Il giornale riferisce che l'uomo Š stato intervistato "da qualche parte in Francia", dove vive da pensionato. "È stato uno shock apprenderlo - ha aggiunto l'uomo -. Non mi sono ancora ripreso". Il padre ha detto di non avere contatti col figlio dal '95 Breivik da adolescente Breivik da adolescente UN COMPAGNO DI CLASSE: "ERA UN NERD" - L'autore della strage di Utoya da adolescente, "era un tipo timido e introverso, un nerd come si dice tra noi studenti". Lo racconta un compagno di scuola dell'autore della strage di Oslo. Poi, a 19 anni, dopo un viaggio negli Stati Uniti dove viveva la sorella, la svolta. Si sarebbe addirittura sottoposto a una plastica facciale: "Voleva naso e fronte più virili", spiega. "Nessuno lo aveva mai visto con una fidanzata, ma lui si vantava di mille avventure", prosegue quello che per nove anni è stato suo compagno di classe in un "liceo della buona borghesia di Oslo" che annoverava "tra gli studenti anche il principe ereditario". L'ultimo incontro, casuale, con il fondamentalista di destra risale a due anni fa: "Sono un uomo ricco - gli disse Breivik - ho avuto successo, per qualunque cosa rivolgiti a me". Redazione online 24 luglio 2011 18:17
Ordigno davanti agli uffici del governo. Inferno di piombo al campus politico estivo Norvegia, attentato al cuore di Oslo Spari al campus dei giovani laburisti Almeno 84 le vittime al meeting sull'isola di Utoya, altri sette uccisi da un'autobomba nel centro della capitale NOTIZIE CORRELATE LE REAZIONI - Napolitano: "Ripudiare ogni forma di violenza" LA MAPPA - Il luogo dell'esplosione e quello dell'assalto L'AUDIO - Il funzionario dell'ambasciata: "Un botto impressionante, verifiche sugli italiani" Soccorsi ai feriti sul luogo dell'esplosione (Ansa) Soccorsi ai feriti sul luogo dell'esplosione (Ansa) MILANO - Un'autobomba esplode nel centro di Oslo, a pochi passi dal palazzo che ospita gli uffici del primo ministro e dalla redazione di un quotidiano. E poco più tardi raffiche di mitra si abbattono sui giovani del partito laburista, radunati per un campo estivo nell'isola di Utoya, a una cinquantina di chilometri dalla capitale. Aspettavano il premier Jens Stoltenberg, il leader carismatico del movimento politico, che avrebbe dovuto portare il proprio saluto e il proprio incoraggiamento. Su di loro si scatena invece l'apocalisse: uno, cinque, dieci. Alla fine saranno ottantaquattro a cadere sotto i colpi sparati a ripetizione. Il cuore della capitale e una placida isola sul Tyrifjorden, uno dei più grandi tra i laghi della zona. Da una parte e dall'altra morti e feriti. È un'ecatombe. Un bilancio che con il passare delle ore si fa sempre più pesante. Complessivamente le vittime sono almeno diciassette, ma forse il numero è destinato a salire ancora. La polizia, che all'inizio si mantiene cauta, già nel tardo pomeriggio non ha più dubbi: la Norvegia è sotto attacco e i due episodi sono certamente collegati tra loro. I dettagli restano tutti da accertare, ma il quadro è chiaro. Non si tratterebbe, tuttavia, di terrorismo internazionale, legato magari ad una matrice islamica, come ipotizzato in un primo tempo: gli investigatori credono piuttosto che si sia trattato di un attacco tutto interno, ad opera di estremisti locali, mirato a scardinare il sistema politico nazionale. Scenari di guerra a Oslo LA PRIMA ESPLOSIONE - Il venerdì nero della capitale norvegese inizia alle 15,26. E' a quell'ora che una forte esplosione viene avvertita nel cuore della città, in un'area dove sorgono gli uni vicini agli altri i palazzi che ospitano le principali sedi istituzionali e i gruppi editoriali più influenti del Paese. Lo scoppio avviene sulla Akergataa, la strada che porta alla fortezza di Akershus, lo storico bastione eretto a protezione del porto, e all'Aker Brygge, il molo che divide i moderni palazzi della Oslo più trendy e la città storica e dove sorge anche il Nobel Peace Center, dedicato ai grandi uomini che negli anni hanno ricevuto l'ambito riconoscimento. Ma questo è il venerdì nero della nazione e lo scenario nel cuore cittadino è di guerra, non di pace. La deflagrazione distrugge gli edifici che si affacciano sulla strada e fa saltare le finestre di tutti quelli circostanti. Lo scoppio, i detriti e le schegge di vetro si abbattono sui passanti. All'inizio si parla di due vittime, ma le immagini che via via giungono dalla capitale lasciano intendere che quel numero dovrà per forza cambiare. Alla fine si parla di 7 morti e di diversi feriti, tra cui alcuni in condizioni particolarmente gravi. Esplosione a Oslo, morti e feriti Esplosione a Oslo, morti e feriti Esplosione a Oslo, morti e feriti Esplosione a Oslo, morti e feriti Esplosione a Oslo, morti e feriti Esplosione a Oslo, morti e feriti Esplosione a Oslo, morti e feriti Esplosione a Oslo, morti e feriti MISURE D'EMERGENZA - Il primo ministro, al momento dell'esplosione, non è alla sua scrivania e non è neppure nel palazzo. Le autorità si affrettano a far sapere che sta bene e che è in un luogo che per motivi di sicurezza non sarà rivelato. Tutto il centro viene evacuato, la stazione centrale è svuotata e perquisita minuziosamente. Si controllano i pacchi ancora non aperti arrivati in giornata nelle redazioni dei giornali. Gli artificieri perlustrano monumenti e edifici, i parchi pubblici e le altre sedi istituzionali. Si temono nuovi scoppi, nuove vittime. Il governo si riunisce in una località segreta e stabilisce misure di emergenza. L'esercito presidia le strade, si sospendono gli accordi di Schengen e si ristabiliscono i controlli alle frontiere. Dal web arriva la prima rivendicazione: la firma il gruppo terroristico Ansar al-Jihad al-Alami in un forum jihadista, mettendo gli attentati in relazione alla presenza della Norvegia in Afghanistan e agli "insulti" al profeta Maometto arrivati con la pubblicazione delle ormai note vignette satiriche danesi, rilanciate dai giornali scandinavi. Le autorità non sembrano però avallarla. La sparatoria di Utoya LA STRAGE SULL'ISOLA - A distanza di un paio d'ore, a qualche decina di chilometri dall'Akergataa che ormai appare come un campo di battaglia, scoppia di nuovo l'inferno. Un uomo vestito da poliziotto irrompe nella location in cui sono radunati i giovani laburisti per il loro meeting annuale. Un campus estivo, tra politica e natura. L'uomo è in divisa e forse per questo all'inizio nessuno bada al fatto che tra le mani ha una mitraglietta. All'improvviso la impugna e apre il fuoco. Si scatena il panico: è un fuggi fuggi generale e qualcuno per cercare scampo dalla pioggia di proiettili si getta in acqua e cerca di raggiungere la terraferma a nuoto. Anche in questo caso all'inizio le stime sulle vittime sono prudenti e la tv parla di quattro o cinque tra morti e feriti. Poi la realtà prende il sopravvento: su una spiaggia alcuni testimoni contano non meno di 20-25 cadaveri. La polizia parla invece di una decina. Ma nella notte si scoprono altri corpi. Il conteggio va avanti, si arriva a un'ottantina. E oltre. Avrebbero potuto essere molti di più: piazzati in vari punti di Utoya sono stati trovati alcuni ordigni non esplosi. Alla fine l'attentatore viene fermato e arrestato. E' un bianco, alto un metro e novanta, dall'aspetto decisamente scandinavo. In serata il capo della polizia di Oslo, Sveining Sponheim, rivela che l'uomo - che viene accertato essere un norvegese - sarebbe stato avvistato con un atteggiamento sospetto, sempre travestito da poliziotto, anche nelle vicinanze del luogo dell'attentato di Akergataa. Ma non trapela nulla di più su chi sia e per conto di chi abbia agito. Il premier Stoltenberg e il suo ministro della giustizia alla sera si rivolgono alla nazione: "Dobbiamo reagire e dobbiamo farlo in nome della democrazia". E ancora: "Prenderemo i colpevoli e li metteremo di fronte alle loro responsabilità". Sulla matrice degli attentati, però, le bocche sono cucite: "Ci sarà tempo per parlarne, ma non ora". La polizia ha specificato di aver trovato ordigni inesplosi sull'isola, mentre a Oslo altro esplosivo è stato rinvenuto vicino alla sede di un tv, come confermato dalla stessa emittente. Fuga a nuoto dall'isola dell'orrore Fuga a nuoto dall'isola dell'orrore Fuga a nuoto dall'isola dell'orrore Fuga a nuoto dall'isola dell'orrore Fuga a nuoto dall'isola dell'orrore Fuga a nuoto dall'isola dell'orrore Fuga a nuoto dall'isola dell'orrore Fuga a nuoto dall'isola dell'orrore VERIFICHE SUGLI ITALIANI - L'ambasciata italiana a Oslo si muove per verificare l'eventuale presenza di connazionali sul luogo dell'attentato. Pierluigi Cammarota è l'incaricato d'affari dell'ambasciata (ASCOLTA l'audio): "Il nostro personale si è recato presso il principale ospedale di Oslo, dove sono stati trasportati tutti i feriti, per verificare l'eventuale coinvolgimento di nostri con |